Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Uomini, bestie, paesi
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I CARBONAI DEL MURAGLIONE

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I
CARBONAI DEL
MURAGLIONE

Il muraglione, commesso di blocchi di pietra forte, lungo una cinquantina di metri, è di uno spessore enorme e spronato alle due estremità.

La strada si biforca e passa dai due lati in modo che le carovane dei muli, dei ciuchi, dei pedoni, le vetture ed i camions, possono transitare, secondo il caso, dall’una o dall’altra parte per non essere travolti dal vento nei sottostanti precipizi dell’Appennino.

Dalla parte meno battuta dagli aquiloni, addossate a un terrapieno, sorgono due case, in una delle quali s’apre l’ospitale, e provvidenziale, bottega della Pia.

La strada precipita in nastri che s’avvolgono a spire0 intorno alla montagna da cui l’acqua cheta eternata dall’Alighieri nel sedicesimo canto dell’Inferno divalla silenziosamente nel fiume Montone e da una banda conduce a San Benedetto in Alpe dall’altra a San Godenzo dove i fuorusciti Ghibellini di Firenze insieme a Dante fecero la riunione che costò l’esilio al Poeta.

Un giorno, nel quale, tornando da Castrocaro in automobile, un fiero temporale mi aveva sorpreso, mi fermai a mangiare dalla Pia.

Messa la macchina al sicuro sotto il muraglione contro il quale l’impeto del vento e del piovasco si frangeva con urli di belva, entrammo nella stanza bassa odorosa di soffritto e di baccalà, scuotendoci l’acqua di dosso e appena, tra il fumo, potemmo distinguere qualche cosa, vidi a due lunghe tavole una quindicina di uomini erculei, neri in volto e coi denti bianchissimi come gli africani che mangiavano e bevevano allegramente.

Mi toccò il posto vicino ad uno il quale pareva il capo tribù, da tanto era rispettato, servito, ascoltato da tutti, un uomo sui settanta anni, ma non li dimostrava; canuto, ancor vegeto, con delle spalle quadrate come la sagoma d’un armadio e certe mani simili a pale da infornare il pane.

Appena la Pia m’ebbe posto davanti il piatto col baccalà alla conserva di pomodoro e il mezzo litro del San Giovese nero come il succo delle more, attaccai i primi bocconi e i primi discorsi.

Discorsi banali, sui fatti correnti, finchè la frase stereotipata: «Si stava meglio quando si stava peggio» mi venne spontaneamente alle labbra.

Ma, con mia grandissima meraviglia, il gigantesco commensale non fu della mia opinione.

Veda – mi disse – questi son tutti carbonai della montagna, e fra di essi ci sono cinque miei figlioli e altrettanti nipoti, ma io non mi stanco mai di ripetere loro che dovrebbero ringraziare giorno e notte il Signore d’esser nati in tempi che permettono di caricare il carbone sui camions e portarlo a destino, in Forlì o in Firenze, per questa strada pericolosa ma bella. «Perchè la vita che ho fatto io cavalcando per giornate e nottate intere a basto, alla testa d’una dozzina di ciuchi per queste forre infernali, non l’augurerei neppure al mio peggior nemico.

» Quante volte ho dovuto fermarmi addossando la carovana degli asini al fianco del monte e attendere, pazientemente, che diminuisse la furia d’un temporale.

» E quando questo succedeva di notte, ci pensa lei? Se lo figura che cos’è la montagna vista allo scoppio dei fulmini, con tutte le faggète e i castagneti che s’agitano come dannati?

» Ma questo è ancora nulla, caro signore, in confronto a quel che avrà patito il mio babbo, il nonno di quei cinque uomini , morto decrepito, un gigante alto quasi due metri, e che si ricordava di quando non c’era la strada, , per conseguenza, il muraglione!.....

Perchè, questa strada fu cominciata a tracciare?

– Verso il 1840 circa..... almeno stando a quanto raccontava mio nonno, perchè io l’ho sempre veduta e battuta; soltanto che io l’ho battuta a piedi e a basto, mentre i miei figlioli la battono in camion. Perciò, quando loro son fuori, col carbone nei sacchi, sto più tranquillo di quando albergano per la montagna, dormendo nei rifugi, caro signore! E vuole che proprio io dica male del progresso?..... Ma pensi che mio padre ha dovuto aspettare, d’inverno, giornate e nottate intere che il vento calmasse per poter valicare e non essere travolto colle bestie e coi sacchi in fondo alla montagna!

» E se vuole formarsi un’idea lontana di quel che sarà stata la vita di cotesta  ....  a lei! si metta il cappotto e lasci il cappello..... si faccia dare il berretto dello chauffeur..... e venga con me».

Mi prese con una delle sue mani spietate, e mi trascinò all’aperto come avrebbe fatto di un bambino, mi fece traversare di corsa la strada, poi, strisciando lungo il muraglione, mi agguantò per un braccio e mi disse d’affacciarmi, dal limite del bastione di pietra, sull’abisso meraviglioso spalancato ai miei piedi.

Immediatamente una forza soprannaturale mi respinse e poi m’attirò, mentre l’aria mi girava intorno urlando frenetica e mi sollevava quasi da terra: ma il pugno che mi stringeva il bicipite era d’acciaio e mi sentivo tranquillo. Calcandomi con ambe le mani il berretto sulla fronte, aguzzai gli occhi a distinguere, fra il pulviscolo dell’acqua rammulinata dal vento, le criniere dell’Appennino arruffate.

La Falterona pareva un gigante inferocito che agitasse la testa, le montagne sembravano muoversi in una tregenda fantastica. La gran vegetazione che le ricuopre produceva questa doppia illusione (la quale non si verifica sulle Alpi, più alte e nude): l’illusione del moto e del ruggito dei monti.

Sì! quelle colossali maestà antidiluviane si scuotevano muggendo e sibilando e il vento, loro signore legittimo, si slanciava dalle creste dentate in una ridda turbinosa traverso le boscaglie e a cui afferrava le chiome verdi e gliele scompigliava dalla rabbia di non poterle trascinare con .

E, a un tratto, in mezzo a codesto scenario favoloso, ruppe, da una valanga crollante di nuvole, il sole, e illuminò di luce calda e vivida una parte delle selve fumanti di nebbie e verdeggianti di piante fradice mentre, per il contrasto, un’altra parte s’infoscava in blù cupo, quasi notturno.

Ero abbagliato! E non mi sarei mai mosso di se la cornetta dell’auto non mi avesse richiamato alla realtà.

Scendendo poi giù, verso la Sieve, rimpiangevo di non poter fare quella via meravigliosa, adagio adagio, a cavallo o a piedi; quando incontrammo una carovana di carbonai sugli asini, fradici intinti, che venivano dalla montagna.

Cavalcavano lenti, ciascuno in mezzo a due sacchi neri, maestosamente ravvolti nel pastrano, con la destra sul fianco, simili a guerrieri antichi, salendo verso le cime.

Io, rimbacuccato nel paletot, afflosciato sui cuscini, mi lasciavo trascinare, come un bagaglio, verso la pianura.


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