Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Uomini, bestie, paesi
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NOSTALGIA

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NOSTALGIA

Dove ho «rivissuto» un momento come questo?

In natura non si mai caso di un tramonto, di un cielo, uguali; eppure, tanti anni fa, in questo punto, a quest’ora, ho provato la medesima impressione, non solo, ma ho visto le medesime cose.

Sono in campagna, arrivato da pochi minuti, e mi sono messo a sedere sullo scalino dell’uscio di casa.

La casa è scura, non solo perchè imbrunisce, ma perchè tutte le imposte sono serrate, e, dalle stanze viene quell’odorino di tanfo e di rinchiuso che noia e piacere insieme.

Davanti a me si allunga la via «vicinale» col solito noce alto e le cime dei cipressi, più bassi, che pare spuntino a fior del terreno.

Dietro al noce un nuvolo d’oro, gonfio, simile ad una vela adriatica piena di vento, come «allora».....

Possibile che nulla sia mutato?

La nuvola arancione diventa rossa, i cipressi si inzuppano di porpora, e il terreno, riflettendo il cielo che incupisce, è violetto.

Viole piovono da per tutto; mi guardo le mani che ne sono intrise e mi alzo con un senso di imbarazzo.

Entro in salotto, apro la finestra donde filtra una luce fredda, mi siedo al solito tavolino, sul solito canapè.

C’è un libro, che sfoglio, e che s’apre dove è rimasto il segno, una strisciolina di carta ingiallita.

È un libro di viaggi edito dal Valvasense «con licentia dei superiori» rilegato in cartapecora; sa di muffa. Ma io ricordo, prodigiosamente, d’aver lasciato la lettura proprio in quel punto.

«I Missionarii Portoghesi.....»

Le esse paiono effe, nella stampa settecentesca e «come allora» ciò mi diverte.

Mi par di tornare indietro col tempo, di non esser più io d’ora, ma io d’allora.

Due ore fa udivo ancora rombi d’automobili e di vetture, ed ecco, più nulla.....

La gazza che uccisi sotto «la quercia del cucùlio» mi guarda, impagliata, di sul ramo ficcato in una corteccia di sughera.

L’orologio, stile impero, sotto la campana di vetro, incrinata, segna un’ora immobile.

Tutto sparisce dalla mia memoria; sono trasportato, indietro, all’epoca in cui lasciai tutto così, com’è ora, tanti anni fa.

Io son giovane, leggo libri di viaggi e scrivo dei versi, per sfogo di fantasia, senz’altra preoccupazione, la mamma è viva, la casa melanconica e spoglia di suppellettili è piena di lei.

A un tratto la campana della torre, lenta, grave, comincia a suonare l’un’ora.

Fra un poco andremo a cena, sotto il pergolato, al lume del petrolio che fila, molestati dalle farfalle bianche le quali piovono di tra i pampani sulla tovaglia, come i fogliolini al teatro quando vi rappresentano «La pianella perduta tra la neve».

E intanto io posso immergermi, come allora, in una meditazione buia, senza costrutto, stupida, tutto felice perchè nulla mi turba, nessun pensiero mi opprime, nessuna necessità mi urge.

Rido; ricordo d’essermi, una volta, nello spogliarmi per andare a letto, indugiato a pensare senza idee, guardando davanti a me l’oscurità infinita del tempo immutabile, come se fossi immerso nell’eternità.

E, a un tratto, rammento d’essermi svegliato da quell’estasi ai rintocchi della mezzanotte!

Avevo passato due ore a fantasticare sul nulla, immerso nel nulla e nella felicità assoluta.

Ma quando mi accadde codesto fenomeno? Ieri sera, o venti anni or sono?

La notte è discesa; dalla finestra aperta entra l’ombra sempre più folta; io sento e non sento (perchè non me ne rendo conto preciso) un acciottolio di stoviglie; qualcuno, nell’orto, prepara la tavola per cenare.

Non percepisco più nulla, fame, stanchezza, gioia, fastidio; vivo soltanto per quel filo d’anima che vagola nel buio senza ragione e sono felice.

Nel buio! In mezzo al buio il libro aperto riceve il riflesso delle stelle invisibili e mette nelle tenebre un piccolo spazio blù.

Non ricordo più niente; ho vissuto sempre così, da tanti anni, senza vivere.

La vita dei morti?

Ed ecco la luce entra all’improvviso preceduta da un’ombra che s’allunga sul muro, una voce mi chiama a tavola, io mi scuoto e rispondo a mia moglie, sbalordita: – Vengo subito, «mamma»!


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