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— Ma è una cosa grave!
Così disse il dottore, rialzandosi dopo la auscultazione, e guardando in faccia noialtri che ci si stringeva in gruppo, ansiosi e stupefatti, intorno al lettuccio dove Guglielmo, il capoccia, giaceva esanime col largo petto villoso scoperto che si alzava e si abbassava ritmicamente nel sonno profondo, una specie di "coma" simile a quello in cui cadono i cloroformizzati.
Dalla tempia destra sotto una ciocca di capelli grigi scendeva un tenue filo di sangue raggrumato e si fermava a metà della guancia tagliandola in due, come una gran ferita.
Il medico intanto toglieva in mano l'astuccio, ne estraeva una fiala di caffeina, la rompeva in cima, la versava nella siringa e faceva un'iniezione al paziente.
Questi dopo un istante, sospirò con forza, aprì gli occhi, li richiuse, contrasse i muscoli poderosi e ricadde, abbandonato, sul letto.
— Meno male, esclamava il dottore rispondendo alla nostra interrogazione, meno male!
— Crederei di sì. — Chi ha del cognac?
Io gli porsi, in silenzio, la mia fiaschetta; il medico si fece dare un cucchiaino, forzò col manico ad aprirsi le labbra spasmodicamente serrate del contadino, gli versò in gola, a viva forza, l'alcool.
L'effetto fu quasi immediato, Guglielmo si riscosse e si svegliò, borbottò alcune parole incomprensibili, poi, curvando la testa sul petto: Ho sonno... mormorava, e riabbassò le palpebre.
Ormai però il pericolo della congestione pareva eliminato e il medico cominciò a lavare il taglio profondo col sublimato, a spennellarlo coll'iodio a fare insomma tutte le operazioni solite a farsi in certe circostanze; intanto si sentirono per fa scaletta dei passi pesanti e di lì a un momento le fiamme pallide delle lucernine a tre becchi illuminarono i bottoni lustri e gli "sciaccò" dei carabinieri.
— Possiamo interrogare il ferito?
— Non ancora, abbia un po' di pazienza, brigadiere....
— Egli è che vorrei mettermi subito a battere il bosco...
— Veda, c'è qui questo signore (e il medico accennava me) che può dirle subito qualcosa, e il suo uomo che forse può dirle anche di più...
— Perbacco! ma allora, animo! mi dicano tutto....
— Io, cominciò Foffo con enfasi, ho più coraggio d'un leone e credo di averne date anche le prove.... lei si deve figurare signor brigadiere, che dieci anni fa nella macchia di Malafrasca....
— Per carità intervenni io, se si comincia in questo modo domattina siamo sempre al medesimo punto.... mi permette?
— Mi sbrigo in due parole. S'eran rotte le starne, si battevano e si ribattevano, senza riuscire a fermarle; sono indiavolate, non so cos'abbiano addosso....
— Sono ammalizzite per via de' cani da lepre....
— Sarà come dice Foffo; fatto sta che a furia di giri e rigiri, di mezze puntate, ci hanno condotto nel folto della selva.... lei ha capito, quel bosco tutto di pini vecchi, altissimi.... cieco, nero, dove le scope arrivano alla cartuccera....
— Vada avanti.
— Bene, prima di entrare in codesto labirinto io dico a Foffo: tu vai di sotto, dalla parte di fuori del bosco, e fammi la controposta so mai le starne frullassero a me e non mi riuscisse di tirare per via del fitto.... E Foifo ci va. Io, invece, mi caccio nel forte e non perdo d'occhio la cagna. Questa, a un tratto, rizza gli orecchi, si schiaccia e.... ci siamo, dico dentro di me, e m'imbraccio. Ma la cagna rizza il pelo, ringhia, fiuta da tutte le parti, poi alza il capo in alto e avventa.... in su, per aria, capisce?
— Capisco.... ossia non capisco nulla!
— E nemmeno io, glielo assicuro! Insomma, nel mentre, a costo di sciupare un tiro, preso dalla curiosità, sto per ordinare alla cagna di dare, cioè di buttarsi; e badi che è una bestia finissima, non lo fa mai....
— Scusi, ci sono; nel mentre sto in quel procinto, sento uno sfrascheggiare terribile; come il rumor d'una corsa; qui cignali non ce ne fanno.... caprioli neppure.... la volpe, il tasso.... non avrebbero a far quel brusio! Cosa vuole pensassi? Mi metto in ascolto col fucile pronto; la cagna ringhia e dà addietro, dà addietro, finchè viene a rifugiarsi tra le mie gambe; contemporaneamente sento Foffo che urla; corro, incespico, casco, senza raccapezzar nulla in quel fittume, finchè fra due tronchi di pini, rompendo le scope col petto, graffiandomi, lasciando lembi di cacciatora a tutti i pruni, esco alla luce e ti trovo il mio uomo che tremava, tremava....
— Era successo, che, appena m'ero fermato per aspettare il frullo delle stame, sentii un grand'urlo lontano, dalla parte dei campi; un urlo come di uno, salvando tutti, che mòia ammazzato, e di lì a poco un rumore di rami stroncati e poi vedo venire di corsa un uomo; ma che uomo! una bestia feroce, signor brigadiere, un coso tarchiato, nero, coi capelli lunghi sulle spalle, la barba fin qui, gli occhi accesi che parevan carboni, la bocca aperta, più rossa del fuoco, vestito di verde con certi affari d'oro sul petto che brillavano al sole come le fiamme... e andava! non glielo so descrivere.... l'ha vista la lepre, lei? tale e quale! Appena mi vede fa un salto di sbieco, grida qualcosa somigliante allo sgnaulio di un gatto selvatico e si tuffa nel bosco. Io il fegato di sdraiarlo ce l'avrei avuto, ma bisognava che avessi saputo a quel che tiravo, ne conviene? cosa sarà stato, me lo dice lei, quell'animale?
— Probabilmente, un uomo.
— Sarà come dice lei, ma a me parve una bestia. Insomma caccio un urlo per avvertire il sor Ferdinando, lui arriva, gli racconto il fatto; si fruga, si cerca, si guarda e finalmente sul confine dei campi, proprio sotto l'ultimo pino, si trova Guglielmo moribondo col sangue che gli usciva dal capo a fontana. S'è chiamato soccorso, ci hanno sentito, sono scesi giù da tutte le parti e eccoci qui.
— O che pasticcio è questo?
— Il pasticcio è, disse il figliolo maggiore di Guglielmo che aveva ripreso fiato e voce vedendo riaversi pian pianino il suo babbo, il pasticcio è che se non ci fossero lor signori, mi saprei far giustizia da me!
— Smettiamo di fare il gradasso e non diciamo sciocchezze. Voi pensate subito a male: e andate sempre a ricercare le questioni di vent'anni fa!
— Sicuro! Perchè a me non mi si leva di capo; chi fu che dette il malocchio a Giottino? Quella strega della mamma di Gigi! Chi fu che ci avvelenò Tombolo, l'anno passato? Gigi! Chi c'è che sia capace di tirare un sasso con quella forza, con quella precisione e di lontano da non esser visto? Il figliolo di Gigi. — Ecco, e proprio per via delle questioni di venti anni fa.
— Se non c'è sotto qualcosa di peggio! sentenziò Foffo guardando il ferito che ripigliava colore a vista d'occhio, perchè a me, nelle cose, mi piace di leggerci chiaro, e qui, invece, c'è del buio e di molto.
— Vedremo; concluse il brigadiere; e, scuotendo la testa picchiò sulla spalla del bollente Torello dicendogli: calma, calma, giovinetto! Quindi rivolgendosi al medico: si tratta poi di un sasso davvero?
— E chi lo sa? un corpo contundente di certo; ma più rotondo che acuminato.... a lei, guardi che cerchio livido intorno alla ferita....
Si rifece circolo giro giro al letto, mentre Guglielmo apriva gli occhi e ci guardava intontito di veder tutti quei visi nuovi dei cacciatori e dei carabinieri curvi su lui....
— Vi ricordate di nulla? potete discorrere?
— Ero a vangare.... ho sentito una gran botta nella tempia.... son cascato nel solco a capo all'in giù.... io non so altro davvero.
— E come! quasi piena....
— Andiamo sul posto, venga anche lei, dottore....
— Vuole il mio fucile? disse Foffo.
— E tu vieni senza?
— Io resto qui, a veglia, se mai ci fosse bisogno....
— O non avevi più coraggio d'un leone?
— Allora vengo! guardino come si fa.... e caricò le canne colle cartucce del dieci.
Cantavano i grilli e splendeva la Luna sulle ondulazioni della campagna dormente, mentre si scendeva in fila indiana per il sentiero scosceso parallelo alla boscaglia.
Il brigadiere apriva la marcia, l'altro milite la chiudeva. Foffo nel mezzo, fra il medico e me, sbraitava che avrebbe tirato anche all'ombre; ma gli fu imposto silenzio.
Si era deciso di cominciare dal luogo del delitto di cui la remota causale, benchè accennata da Torello, ci pareva sproporzionata agli effetti i quali non erano stati funesti per un prodigio. Tanto più, che, dopo una questione di confine avvenuta venti anni prima, non erano successe altro che quelle disgrazie imputabili al caso e la famiglia nemica non aveva ricevuto oltraggi di sorta veruna da quella di Guglielmo.
Via via che ci si avvicinava all'estremo limite della foresta le voci si facevano più sommesse, i passi più cauti: si camminava dissimulati nell'ombra delle piante, appoggiandoci col calcio dei fucili alle anfrattuosità del terreno che variava aspetto per le bizzarre strisce lunari, soffermandoci ogni momento a scrutare intorno: finchè arrivati al posto, ci si fermò uno dietro l'altro, quasi timorosi d'inoltrare traverso il vivo lembo di luce che la viottola, illuminata metteva fra il bosco ed i campi.
Nella enorme pace notturna il cielo si stendeva come un gran manto di velluto azzurro con quella lontana e fioca lampada silenziosa nel mezzo, da cui piovevano morbidi raggi di latte e, soli, dall'ombre verdi emergevano i profili velati dei monti assorti in una nebbiolina d'argento, le sagome nere e paurose degli alberi immobili e, sul sonno apparente di tutte le cose, le tremule tirate dei grilli e i ritornelli beffardi delle lontanissime rane misurati ai tenui respiri che venendo dal fiume invisibile traverso i campi, ci alitavano in faccia freschi e profumati di fieni.
Tacevamo, dominati, se non tutti compresi, dalla maestà di quella solitudine meravigliosa di cui hanno il segreto le notti toscane, e gli occhi abituandosi all'oscurità, distinsero al fine i sassi, le pagliuzze splendenti, l'ombre, le buche, i cespugli, l'argine del podere, il solco cinereo e qualcosa che lo maculava nel mezzo; il sangue rappreso che il lume di luna faceva nero.
Ciascuno di noi, al tempo stesso, per quel fenomeno visivo a cui ho già accennato, distinse tutto ciò ed anche, contemporaneamente un oggetto rotondo che giaceva fra quelle zolle.
Allora uscimmo tutti insieme dall'ombra, e, superata di un balzo la viottola, ci affollammo sull'argine intorno al brigadiere che aveva raccolto l'oggetto e l'esaminava curiosamente: una giovane pina, durissima, nocchieruta, ancor gocciolante di resina e macchiata di sangue alla sommità!
Per istinto, sempre insieme, ci venne fatto di levare gli occhi all'ultimo pino del bosco, situato però ad una distanza assai rispettabile, e fu ventura, perchè nel medesimo istante un'altra pina e più grossa della prima volò dal fitto vellutato della chioma dell'albero e, fischiando per aria, rasentò le teste di noi si che si fece appena a tempo a schiacciarci in terra, contro il greppo, e scamparla.
Si rimase così qualche minuto col respiro mozzo in gola, il viso prono contro l'odore acuto delle zolle, mentre d'intorno piovevano rabbiose, vibrate a furore, l'una dietro l'altra pine su pine; finchè i tiri furono meno precisi, e i duri frutti selvatici ruzzolavano a distanza da noi giù per la viottola, fra le scope, come se le mani che li scagliavano li strappassero, via, via dagli alberi più lontani; allora, in un intervallo, durante il quale udii benissimo Foffo, che storpiava il "confiteor" in modo assolutamente speciale, i due carabinieri lasciarono andare in direzione dei pini due. tre scariche di moschetto. E la pericolosa pioggia cessò.
Ci slanciammo su per l'erta, di corsa, tenendoci pronti a saltare nel campo al primo segno di pericolo, mentre le case sparse qua e là per. le alture illuminavano finestre curiose e si udivano i cani abbaiare furiosamente dalle aie vicine e remote e voci e richiami incrociarsi, resi più vivi dalla quiete notturna; ma non avemmo a correr molto.
A un tratto Foffo che si nascondeva dietro di me, cacciò un grido di terrore esclamando: Eccolo! eccolo! e saltò dall'argine nelle zolle con un balzo da lepre.
In cima alla viottola dove noi ci arrestammo stupiti, riverberato dalla piena luce lunare, un magnifico zingaro barbuto, dal vestito bizzarro e dai pendenti d'oro alle orecchie, coi bottoni d'oro, colle fibbie d'oro (un avanzo, secondo ogni probabilità, di qualche fiera recente) inginocchiato a piè d'un pino cullava fra le braccia, soffiandogli sul muso il proprio respiro, uno stupendo scimmione moribondo a cui dalla caviglia inerte pendeva un lembo di catenella strappata.
La povera bestia, colpita da una pallottola, spirava gemendo come un cristiano e volgendo due bellissimi occhi imperlati di lagrime verso il desolato padrone il quale gridava disperatamente parole a noi incomprensibili, invocando forse il compagno diletto e il patrimonio perduto.