Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Novelle agrodolci
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NATALINA.

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NATALINA.

 

Il sole che sorgeva pigramente buttandosi avanti, come se si levasse un velo dal capo, uno strato ovattoso di nuvole bigerognole, trovò Natalina già sveglia, ma cogli occhi ancora imbambolati, e la visitò accendendo un vetro alla finestra di cucina spalancata sull'orto.

Un gallo, lontanissimo, lanciò un chicchirichì fioco, ridicolo, e un altro gli rispose, così vicino, che Natalina si riscosse e s'alzò di scatto dalla seggiola di paglia, sulla quale stava rannicchiata abbracciandosi pigramente le ginocchia sollevate con gli avambracci nudi e grassocci.

Con un sospiro, accese il fuoco, vi mise sopra il bricco dall'acqua a bollire, poi cominciò, adagio, a lustrare una scarpa, scelta a caso nella lunga fila che le si allineava davanti sul palchetto di legno intarlato.

Lustrando, pensava o meglio fantasticava, lasciando vagare il suo pensiero, senza mèta, per orizzonti bui.

Perchè quegli altri, a quell'ora, dormivano il pesante sonno mattinale che un senso come di voluttà, quasi di languore, mentre lei era obbligata a spolverare le loro scarpe?

Ogni paio le ricordava una persona della famiglia e se li vedeva così, in riga, dinanzi, tutti, i suoi padroni e tiranni, mentre, anche in loro assenza, era costretta a servirli.

Quel paio di scarpe tutte d'un pezzo (come lui, che non aveva mai «piegato pencolato», ma aveva delibato, un po' qua un po' in , le cariche spicciole di tutti i partiti) erano del signor avvocato che vendeva i pareri ai ricchi e li dava gratis ai poveri dai quali esigeva soltanto regali in natura.

L'altro paio era della signora. Se la Natalina avesse conosciuto l'esistenza e il significato della parola «psicologia» avrebbe concluso che quelle due scarpe quasi da uomo, a ciabatta, enormi, colla punta dispettosamente arricciata, coi legacci di due colori e i tacchi bassi e smussati da destra e da sinistra agli angoli, valevano un intero trattato sulla nobil donna Irene, celebre per tirare il centesimo sulla spesa, per fare ai ragazzi i giubbini nuovi colle giacchette smesse del signor avvocato e per il suo vestito delle feste tagliato in uno scialle di crespo finta-China della sua nonna buon'anima.

Le scarpettine colla punta a lapis, i legaccioli nuovi, i tacchi consumati fino alle suole e le suole consumate fino alla pianta del piede erano del signorino.

Il signorino!

Mai più delizioso pezzo da galera abbellì l'aurora della nuova (quarta o quinta) Italia, mai si videro in un solo rampollo più sapientemente adunate da madre Natura le qualità preclare di ghiottoneria, di boria e d'infingardaggine dell'avvocato padre, quelle di sordidezza, di cleptomania e di prepotenza bizzosa della signora madre.

Quindicenne, studente del Ginnasio, emancipato, noiato regolarmente della vita, meditante colle Muse incomprensibili colloqui senza parole, disdegnoso dei classici, nemico dei maestri, odiatore della maturità e della saggezza, il piccolo Angiolino (oh! ironia soave dei nomi!) pareva cacato dal Diavolo proprio apposta per assidersi alla gran cena dei superuomini in calzon corti col ciuffo al vento, la sigaretta tra le labbra e la mano desiderosa di colpire, non importa che cosa chi, figliati dal secolo «dinamico».

E quella angelica mano, non potendo ancora esercitarsi in ludi più eroici, posarsi come avrebbe voluto sulla faccia rugosa dei maestri, si sfogava con pizzicotti crudeli sulle parti più carnose della povera Natalina, di cui ogni strillo le fruttava immancabilmente la gratifica di «svergognata» e l'ammonimento di «non avvezzar  male quel caro ragazzo» se non voleva essere scacciata di casa su due piedi, come una ladra trovata al cassettone.

L'ultime due paia di scarpe, non erano neppure scarpe, ma sandali e si capiva bene che appartenevano rispettivamente alla piccola Egle e al mocciosissimo e piscioso Leoncino che aveva la prerogativa di cominciare a strillare all'aurora per smettere regolarmente a mezzanotte.

Entrambi gli ultimi prodotti di tale stirpe insudiciavano rompevano e maltrattavano, dimostrando precocità di fantasia e altezza di vedute nell'escogitare burle diaboliche degne d'essere studiate dal pessimismo del Wedekind.

La dolcissima Egle aveva la specialità di suonare il pianoforte passeggiando sulla tastiera in pedalini e Leoncino quella di dormire nel letto di Natalina, nel pomeriggio, lasciandovi sempre, per ricordo, qualcosa.

Sarà meglio tacere del gatto colle scarpe di gusci di noce impeciati, del cane col campanello della tavola da pranzo attaccato alla coda, delle rondini «sdegnate» dal nido a colpi di spazzola di padule, della bambola di stoppa caduta nell'acqua delle paste, dello spinoso dell'orto nascosto nel saccone d'un letto, della testuggine rovesciata sul dorso per qualche mezza giornata, delle boccacce degli sberleffi e delle male parole, perchè occorrerebbe un volume uguale a quello sull'infanzia di Gargantua.

La campana della prima messa si arrabbiava contro il cielo, dove le nuvole andavano diradando, perchè la gente non correva alla chiesa in quelle prime ore di festa, i passerotti cianciavano nel cipresso vicino alla casa e il lattaio si fermava al cancello, mentre Natalina correva in su e in giù cogli orecchi tesi al primo urlo della sora Irene la quale esplodeva quando i campanelli accennavano che cominciava, finalmente, il servizio Divino delle otto.

Allora il nome di Natalina, ripetuto in tutti i tuoni, d'oro dal signor avvocato, di bronzo dalla nobile donna, di rame dal signorino, d'argento dagli ultimi eredi, correva per la casa precedendo la figura paffuta della ragazza che saliva e scendeva le scale passando di camera in camera colle scarpe in una mano e il vassoio delle chicchere fumanti nell'altra e ritornava in cucina ringraziando l'Altissimo quando il signorino scappato fuori, in camicia, dall'uscio, non le aveva fatto fare un fiacco d'ogni cosa per pizzicarla o quando la nobil donna non le aveva messo fra le braccia il marmocchio perchè lo facesse star quieto, baloccandolo prima di recarsi a fare la spesa.

E così anche codesta mattina, appena finito di lustrare le cinque paia di scarpe, Natalina salì le scale, subì l'assalto del giovinetto emancipato,  ebbe una spazzola da panni nel groppone come saluto mattinale dall'Egle, fu trattata «di butta trega» da Leoncino, buscò d'imbecille da Donna Irene e di «panperso» dall'avvocato, e, come Dio volle, uscì fuori per andare alla messa e a far la spesa.

La messa non la potè avere perchè il curato novo con quell'appetito che gli veniva a levarsi alle sei e a stare ad aspettare i contadini fino all'otto, senza contare la spiegazione del Vangelo che egli era inimitabile nell'abborracciare sulla prima frase che gli capitasse a apertura di libro, sdrucciolò all'Ite in dieci minuti, e quanto alla spesa le toccò a fare la coda dal macellaro e dovè contentarsi di frattaglie perchè quasi tutto il vitello ammazzato due giorni innanzi l'avevano prenotato i villeggianti di Fabbiolle che ci avevano a desinare un esercito di persone.

Mogia, mogia, risalendo a casa, la Natalina ripensava al suo campo abbandonato per la morte della mamma, alla matrigna che non la voleva in casa e ai suoi ventun'anni sciupati.

La Gaetana s'era provata a farle il pateracchio col Moro dell'Olmo che, essendo guercio e bono a poco, correva rischio di rimaner pinzo per tutta la vita, ma anche lui, benchè avesse notato che Natalina aveva le braccia tonde e robuste e la ragazza gli avesse fatto girare la testa col suo collo bianco, i seni abbondanti e l'anche asserpentate, non ne volle sapere di restare alla pania e disse, ripetendo, certo, una delle solite chiacchiere vigliacche dei paesi, che lui «gli avanzi» dei signori non li voleva.

La Scerpella di Brisicche, risaputala dalla figliola dello Stianti a cui in gran segretezza l'avea confidata la Bistina di Pietro di Sano di Bacco amica intima della Gaetana, era andata di corsa a riportarla alla Natalina, e ora la povera ragazza, ruminava la frase nel suo cervello di capra salvatica, incapace di concepire altro al di fuori del breve raggio di cerchio dentro al quale splendevano, come un lampione nelle tenebre, le parole che le si erano conficcate in mezzo alla memoria e le bucavan la testa senza che riuscisse a sbarbarle.

Nessuno l'avrebbe voluta più, perchè a nessuno si sarebbe potuto cavar dal cuore l'idea che lei fosse il trastullo del signorino.

E non sapeva neppure che il signorino s'era vantato, cogli amici del paese insieme ai quali andava a giocare alle bocce e a dar veleno ai pesci nella gora, d'aver fatto con lei quel che gli era parso e piaciuto.

La Natalina non conosceva altro mondo, le sue colonne d'Ercole erano .

Partendo dal campo paterno, dove la matrigna irosa l'aspettava allo sforo della siepe col rastrello grosso in pugno, pronta a darglielo in testa, non conosceva che la via provinciale  tutta polverosa e strombettante d'automobili pazze e il cancello della casa del signor avvocato.

Avrebbe passata la vita a quel modo: lustrando scarpe all'alba, salendo e scendendo scale fino a mezzogiorno, servendo in tavola fino al tocco, baloccando un ragazzo fino alle cinque, facendo da cena fino alle otto, e andando a letto dopo le nove, quando il signor avvocato e la sora Irene non avevano gente per giocare a tombola.

In codeste sere, per lo più, il signorino, colla scusa d'alzarsi e d'andare in cucina a verificare se era pronta l'acqua per i pònci, le dava un assalto importante.

E lei, chi lo sa perchè, stava zitta.

Ci soffriva, ne era disgustata, lo avrebbe ammazzato, ma non fiatava.

Anzi, ora, ripensandoci, sentiva che una volta o l'altra sarebbe stata sua e, pur ribellandosi, non trovava nulla che giustificasse il contrario.

La sua anima si alzava, con ribrezzo, come una serpe sulla coda acciambellata quando sente la pésta dell'uomo, ma la lingua annodata dall'orrore invece di soffiare un no, sibilava un ....

Codesta sera di festa, dopo cena, il signor avvocato e donna Irene ebbero la buona idea d'andare a trovare dei conoscenti, distante dal paese qualche chilometro e si portarono dietro il signorino, imbronciato, la mezzana, contenta, e Leoncino che strascicava e frignava.

Ma lasciarono Natalina «a guardar la casa».

Era una serata tiepida, paradisiaca. La serva si mise a sedere sul gradino basso del cancello, colle spalle appoggiate a un pilastro e cominciò a contare le stelle.

Che cosa ci sarà stato lassù?

Buio. Buio lassù, buio quaggiù; ogni cosa eguale.... che noia!

La strada bianca pareva turchina perchè le siepi avevano appunto un color nero d'inchiostro: le stelle formicolavano e tremavano, tutto il cielo fremeva di scintille e le lucciole si tuffavano e uscivano fuori, tra il grano alto, giù nei campi, come cercassero qualche cosa col lume.

Ecco! appena l'avevano trovato, il lume si spengeva e ricominciavan da capo. Bel sugo!

Un rombo, un rullio di motore, e un'automobile vuota si fermò, nera anche lei, in mezzo alla strada verdazzurra.

La Natalina s'alzò, scese il viottolo e s'affacciò, incuriosita, a guardare.

Un giovinotto in gambali era curvo davanti alla macchina, e quando si alzò, con un lampione in mano per vedere non so che cosa, sbattè la luce in faccia alla Natalina, la illuminò meglio, tutta, poi rimise il lampione al suo posto e disse: Buona sera.

- Buona sera! rispose lei.

Allora lui, dopo aver dato un'occhiata d'intorno, le saltò addosso, l'abbracciò stretta e la baciò sulla bocca, sitibondo, a lungo.

Natalina non disse nulla, non diceva mai nulla, lei.

Il giovinotto le sussurrò, con alito che le bruciava l'orecchio: Vieni con me!

- Con lei?

- Con me! hai parenti?...

- È come se non li avessi....

- Su! monta....

- Ma.... dove si va?

- Con me.... starai con me.... il mondo è bello.... ti farò godere la vita.

La prese in collo, la depose sui cuscini dell'automobile, poi le gettò adesso una pelliccia d'orso. La ragazza rabbrividì a quel contatto.

- Stai buona.... giù.... sdraiati pure....

Girò una manovella, saltò sulla macchina, afferrò il volante e l'automobile sbuffando, sussultò.

Natalina fece per alzarsi, per cacciare un grido.

Le stelle fuggivano sulla sua testa, che le girava; ripiombò sui cuscini, sentì che la macchina la trascinava giù, giù, sempre più giù, come in un vortice irresistibile, verso un abisso sconfinato.

E si abbandonò, come sempre, senza fiatare.

 

 

 


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