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IL GUFO
Nessuno, in paese, si rammentava d'averlo mai visto passeggiare per le vie.
Di giorno, poi, non usciva nemmeno dal recinto del chiostro.
Quando scendeva la notte, dopo aver sonato l'un'ora, oltrepassava la soglia della porta che menava alle «case dei preti» si sedeva sopra un pilastrino sotto il fioco lume acceso davanti a un bassorilievo primitivo di marmo tutto corroso e ingiallito, accendeva una pipa corta, di terra, e si metteva a fumare.
Sopra a quell'uomo minuscolo, quasi nano, d'età indefinibile, vestito con un pastrano (d'estate e d'inverno) inverosimilmente rattoppato, il tempio enorme taceva, ergendosi, tutto nero, vigilato dalla scolta altissima della torre di pietra, come se volesse proteggerlo.
E in verità «il gufo», come ormai tutti lo chiamavano, non si sentiva sicuro che nell'ombra della chiesa.
Fuori dalle nere sagome geometriche formate dal portico, nel lume di luna, sull'acciottolato diseguale della piazza, il gufo era spaesato.
La camera, una cella, l'aveva in fondo al campanile.
Accanto al letto, a portata di mano, penzolavano le funi delle campane.
Il gufo era un orologio vivente.
Quando aveva rigovernato i piatti del signor proposto, buttava in una ciotola di legno gli avanzi che gli spettavano, empiva il quartuccio di buon vino toscano, mettendosi a mangiare sui gradini del pozzo trecentesco, in mezzo al chiostro, se non pioveva, o sotto le arcate snelle, sorrette dalle colonnine ottagonali di pietra coi capitelli a fiore di loto, se pioveva. Poi s'affacciava sulla piazza, faceva la sua fumatina e andava a cuccia.
Non aveva mai posseduto un orologio, ma alle tre precise, o alle quattro, o alle cinque, secondo le stagioni, si svegliava.
S'alzava sul letto e aspettava, coll'orecchio teso, che l'orologio meccanico della torre spandesse, gravemente, i suoi tocchi sulla campagna dormente.
Se l'orologio era guasto, usciva fuori e guardava le stelle, se le stelle non c'erano s'affidava a Sant'Antonio da Padova a cui aveva brontolato un pater avanti di coricarsi. Quindi si attaccava alla fune, sicuro del fatto suo, e squillava mattutino.
Dopo di che tornava a dormire, fino all'avemaria.
Nelle belle giornate di sole chiaro, specialmente d'autunno e d'inverno, «faceva un po' di moto».
Saliva adagio adagio le rampe ripide del campanile.
Ad ogni piano s'affacciava alle bifore e guardava, con supremo disprezzo, alle formicole umane che s'affaccendavano, giù, sulla piazza, tra i banchi dei venditori e le merci più umili sciorinate sulla nuda terra.
Passavano: il bove bianco muggendo perchè sentiva l'odor della morte, e il contadino che lo minacciava del randello per farlo star bòno, seguitando tuttavia a litigare per il prezzo col macellaio che li precedeva, attorcigliandosi il grembiule alle anche.
Sulla farmacia i soliti perdigiorno discutevano di politica, si arrabbiavano, coi colli rossi come tacchini, dandosi un daffare per mille mentre i disoccupati, tristi, li guardavano male di sulle panche dell'osteria.
Le donne andavano, venivano dal far la spesa, coi ragazzi mocciosi che strillavano attaccati alle sottane.
Il medico condotto traversava, in barroccino, di corsa.
Il curato tornava dal dar l'olio santo o da confessare le monache, tutto accaldato e polveroso.
L'arrotino cantava, sprizzando scintille dalla mola su cui il ferro strideva.
Si sentiva il picchiettìo delle incudini, l'ansare rauco delle seghe nelle botteghe di legnaiolo, il grido monotono del venditore d'ortaggi. Qualche volta le femminette s'accapigliavano vicino alla fonte per via d'una brocca, e le mezzine, già piene, ruzzolavano per i gradini rovesciando l'acqua attinta con tanta pena.
Il gufo rideva e saliva, adagio adagio, al piano superiore.
Di costì, di là dai tetti rossi delle fabbriche nuove e da quelli verdolini delle fabbriche vecchie, l'occhio spaziava sulla campagna violetta d'olivi, gialla di prati, cupa di boschi, colle sagome svelte dei cipressi blù e dei campanili bianchi, i nastri azzurri e rosei delle strade, l'indaco delle montagne lontane e, sopra, il cielo color del latte.
Per le strade si vedevano dei puntolini neri, per i campi dei puntolini bianchi, che si muovevano.
Persone che tornavano dal mercato, bovi che aravano i maggesi e le porche.
Voce umana lassù non giungeva; soltanto il gufo percepiva, fioco fioco, qualche remoto chicchirichì. Tutta quella gente l'aveva fatta nascere lui, e lui l'avrebbe fatta morire tutta quella gente.
Don don don don dolondon dolon....
A mezzogiorno, mentre la folla usciva dalla messa piana discorrendo d'affari, entravano le mammane vestite di seta col neonato in collo ravvolto in tele candide e dietro il compare e la comare, fidanzati, lei colla pezzòla inamidata in mano e lui col garofano o col giranio dietro l'orecchio, o il crisantemo all'occhiello, secondo le stagioni.
Dan... dan... dan... dan... dandandan... dan...
Il funerale esciva di chiesa, voltava alla cantonata, mentre il vento spengeva i torcetti e chi poteva svignarsela se la svignava.
Dan.... dan.... dan.... dan....
All'ultime case del paese tutti tornavano indietro, rabbrividendo sotto il tramontano, e il morto seguitava solo per il cimitero dei poveri, accompagnato da un lanternino sanguigno, o saliva, al passo di due cavalli bolsi, il monte dei ricchi, mentre i mortuari rovesciavano nel fango, per economia, le torce a vento.
Tutta quella roba, senza il gufo, non poteva succedere.
Lui faceva alzare gli operai, sonnacchiosi, maledicenti alle campane, inesorabilmente precise, e li mandava al lavoro.
Lui spediva il viatico ai moribondi.
Lui squillava la gioia delle feste solenni.
Lui suscitava il fumo dei camini, all'Angelus, e richiamava alle case i lavoratori cogli arnesi del lavoro in ispalla e riempiva le stalle e radunava al desco le famiglie, imponendo la pace dell'un'ora.
E la vigilia dei morti era lui che faceva pregare per tutti i poveri defunti.
In codesta sera il gufo era magnifico.
Squillava il doppio solenne lento, spaziato, terribile della cena dei morti, a occhi chiusi, pregando anche lui, e mentre pregava (macchinalmente per la grande abitudine) vedeva col pensiero tutte le case aprirsi e rivelargli le mamme e i vecchi inginocchiati accanto al cammino acceso coi ragazzi occhieggianti al tavolo dove fumavano le «bruciate» intanto che i giovani stavano a capo basso, in piedi, sotto la luce gialla del petrolio.
Pensando a tutte queste cose il gufo, dal secondo piano della torre, ascoltava perdersi nell'atmosfera cilestrina un altro chicchirichì, e allora saliva, coraggiosamente, per l'intrico delle travi, al ballatoio ultimo, e, dopo aver data un'occhiata affettuosa alle campane, sotto ai suoi piedi, s'affacciava fra due merli e girava lo sguardo, trionfalmente, dintorno.
Lassù non giungeva che un ronzìo sonoro, ma indistinto, il ronzìo del mondo affaticato, regolato, a suon di campana, da quel mostriciattolo, dalla nascita alla morte, come un orologio qualunque finchè non gli si spezzi la molla.
Il gufo ridicchiava, tra sè e sè, orgoglioso della sua forza, della sua potenza, della sua superiorità d'uomo perfettamente felice, come son felici tutti coloro i quali, raggiunta una sommità, contemplano l'affaccendarsi vano della gente e vedono, finalmente, i miserabili fili che ci muovono nella loro realtà.
Così trascorreva l'esistenza di quest'animale strano, analfabeta e filosofo, miserabile e felice, prigioniero e libero, che dagli imbecilli fu chiamato «il gufo» perchè non sapevano che, talvolta, la luce si può suscitare anche dall'ombra.
Mentre moriva, stese la mano, dal letto, alle funi delle sue campane e tentò, da sè, di squillare «a viatico». Le forze non gli bastarono. La mano scosse la fune, ma non la campana, e il bronzo tacque.
Allora il gufo, comprendendo che il suo compito su questa terra era esaurito, spirò.