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Arrivai in paese sull'ora delle nove.
La piazza grande era piena di gente che si preparava a partire colle vecchie diligenze sghangherate e di gente la quale si divertiva a veder quelli che partivano.
Dalla chiesa uscivano poche donne dopo avere ascoltato la messa dell'otto e il sole era chiaro, come filtrato dagli strati leggeri d'ovatta che un ventarello di collina sfioccava nel cielo d'un azzurro così inverosimile da parer tinto.
Io avevo la cassetta grande dei colori nella destra e il panchetto nella sinistra; la pipa spenta in bocca, il cappello a cencio di traverso, sugli occhi, e l'ombrellino bianco a tracolla. Ero fiero della mia aria di pittore e mi pareva che tutti guardassero me.
Infatti un ragazzo moccioso che giocava a nocino con degli altri accanto alla torre dell'orologio mi vide e annunziò allegramente: c'è quello che fa le fotografie!
Subito mi si fecero d'intorno, mentre io disponevo il panchetto all'ombra per riprendere la prospettiva della chiesa.
Mi toccò a scacciare i monelli che mi si paravano davanti.
Tutto andò bene finchè disegnai sulla tavoletta bianca. Adesso erano scesi dalle diligenze per vedere quel che facessi ed erano arrivati dei villeggianti; giovani in abito sportivo e signorine in vesti leggère, scollate, che scherzavano allegramente fra loro.
Principiai a metter giù i colori. Preparavo il cielo e il terreno con delle lacche per ottenere, dopo, una maggior vibrazione; stesi l'ombre violette per velarle dipoi, feci il campanile rosso di carminio per quindi ottenere, con dei tocchi verdi, gialli, bianchi, il suo fulgore di fiamma diritta nel sole.
Allora presero a dileggiarmi.
Una signorina, dal gran ridere, dovè mettersi a sedere per terra; i ragazzi, esilarati, mi presero a spinte e m'urtarono facendomi traballare sul mio sedile pericolante.
Perduta la pazienza, afferrai una pennellessa e la dètti traverso il muso ad uno dei più arditi, tappandogli un occhio con un bioccolo di giallo cromo.
I suoi compagni si torcevano le budella dal ridere, ma lui fuggì, scalzo, piangendo.
Di lì a poco, mentre le diligenze partivano, sentii un vetturino che smoccolava per via del ritardo, dire a qualcuno, parlando di me: - Gli è stato quello lì, accidenti a chi ce l'ha portato!
E subito un uomo si fece largo tra la folla e venne avanti ricoprendomi di parolacce.
Era il babbo del ragazzo. al quale avevo tirato la pennellata nell'occhio.
Mi levai di scatto e, chiuso il panchetto, l'alzai minaccioso urlando: - Chi t'ha insegnato l'educazione, maiale?
La folla si divise in due parti.
Chi dava ragione a me, chi al babbo del ragazzo, era un pandemonio infernale. Per fortuna arrivò il maresciallo dei carabinieri.
Ora la gente s'esaltava alla vista del graduato rappresentante della giustizia; gridavano: Ci mette in caricatura! porta via la chiesa vestita in maschera! dove l'ha vista gialla e turchina in quel modo?
Il maresciallo metteva pace, spiegava che la piazza è di tutti, che ognuno è padrone di fare le bestialità che gli pare.... ma io, per tagliar corto, presi un vecchio che passava, l'obbligai a sedersi s'un pilastrino, gli strillai, concitato, sul muso: Ti do due lire se stai fermo una mezz'ora, costì!
Agguantai pennelli e un cartone e cominciai a schizzargli la testa, col metodo degl'impressionisti, alla prima. Sporcai il cartone di bitume e terra gialla con acqua ragia, disegnai con un pennello intinto di terra verde, la faccia del vecchio, geometricamente.
Era facile, tutta angoli, luci ed ombre.
Riempii i triangoli degli scuri, levai rapidamente i chiari, apparvero le bozze frontali, l'arruffio dei capelli, la punta del naso bitorzoluto e lustro, le occhiaie ombreggiate dalle sopracciglia, i baffi, la «massa» verdastra della barba sulla quale feci risaltare qualche filo d'argento; poi con pochi tocchi d'un pennello nuovo, animai gli occhi, ricavai gli sbattimenti freddi, dètti la vita alla testa.
Uno, che veniva dalla cantonata, cacciò un grido: Ma è lui! è Birillo! tal quale! venite a vederlo di qui!
Galopparono tutti cinque o sei passi indietro e un grande urlo d'ammirazione salì alle stelle.
Profittai di quell'istante di favor popolare per dipingere in bocca al modello la pipa.
Allora l'entusiasmo non conobbe più limiti.
Il maresciallo mi domandò quanto volevo per dipingerlo in piedi, in alta uniforme, con le «buffetterìe» il pennacchio e lo «sciaccò». Non facessi complimenti; era disposto anche a spendere cinquanta lire! Ma il pennacchio lo voglio (e accennava col dito) di quel rosso lì....
Una vecchia mi disse in un orecchio: - Corro a casa a prendergli la fotografia del mi' figliolo morto in guerra e ritorno in un fiat!
Birillo s'alzò e volle vedersi.
- Sono così io?
- Siete così, proprio così - urlavano tutti.
- Ma... o se i bùtteri del vaiòlo non ce li ha fatti!
A mezzogiorno chiusi la cassetta, ripiegai il panchetto e andai a mangiare in una trattoria.
Costì, sotto un pergolato, in maniche di camicia, mi divertivo a guardare gli occhi d'oro pallido che il traforo del fogliame di sopra ricamava sulla tovaglia verde scintillando sui bicchieri e nelle pance delle bottiglie.
Mi sarei voluto persuadere di certe teorie del colore rispetto ai volumi e m'arrabbiavo perchè non mi riusciva.
Mentre mangiavo un'appetitosa minestra di magro e sorseggiavo un vinetto color del rubino, odoroso di viole e mammole, col frizzante che mette appetito, capitò nell'orto il babbo del ragazzo, quello che aveva leticato con me.
Si mise a sedere sopra una panca, di faccia, e si mescè, senza complimenti, un gran bicchiere di vino. Poi, mandandomi in faccia una zaffata d'alcool, mi sussurrò, curvandosi, al di sopra della tavola, vicino al mio viso: «La vòl ritrattare una bella ragazza? Mi dia cinque lire, gli mando subito la mia nipote».
- Vediamola!
Di lì a poco arrivò una giovane bionda, tarchiata, color del latte e del sangue, col petto abbondante e sodo, i fianchi larghi, le mani rozze, ma piccole, e gli occhi chiari, di felino affamato. E l'uomo sparì.
La gente, che giocava a un tavolino non lontano, dètte d'occhio al cameriere che abbozzo un gesto ambiguo.
La ragazza mi disse: - Se mi tiene con lei, a Firenze, per un po' di giorni, mi può dipingere come gli pare. Mi leverò anche la camicia.
Io tra il vino, il caldo e quei discorsi, sudavo tutto che era una passione e il cibo non m'andava nè su nè in giù.
- E poi, - chiesi così per dir qualcosa, - e poi che cosa si fa?
- Lei mi fa il ritratto, un bel ritratto, ignuda, e lo mette all'esposizione; domandano chi è quella bella ragazza e io fo i quattrini a palate!
- O che cosa devo fare, se no?
- Diavolo! Sposate un bravo, onesto operaio, mettete al mondo dei figliuoli e siate felice.
- Felice? Uhm! mia madre è morta dalle gran legnate che gli dava il marito, lo zio torna a casa briaco e ci picchia tutti, me mi rincorrono nei campi e poi, per tutta ricompensa, mi danno dei calci. Alla filanda mi hanno mandata via perchè gli uomini si bastonavano per via di me. E invece, senza fatica, posso mangiar bene e vestire come una signora. Che ci sto fare qui? L'imbecille?
Sei mesi dopo, a Firenze, un cronista del giornale mi chiese: Vuoi disegnare una cosa terribile? Vieni con me.
Presi l'album e si andò nella stanza di deposito dell'ospedale. Sopra una tavola, nella mezza luce di quella specie d'alcova macàbra, era distesa una ragazza tutta nuda, bellissima. Tra le mammelle grosse e sode, bianchissime, spiccava una ferita rossa che pareva un fiore di giranio. Gli occhi erano sbarrati e vitrei, come di felino affamato. Cominciai a prendere appunti e, disegnando, la riconobbi con raccappriccio.
Fu così che all'esposizione comparve, secondo la sua volontà, il ritratto della creatura, che voleva essere ritrattata ignuda.
Ma d'allora in poi non ho più dipinto che chiese gialle con il campanile rosso contro un cielo turchino.