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Che felicità! Abbandonare, per un mese lungo, le occupazioni monotone, uguali, sentirsi libero di se stesso, purificato dall'aria, dal verde, dal silenzio....
Il modesto impiegatuccio privato aspettava l'ultimo giorno del luglio con l'ansia del ferito che aspetta il chirurgo mandato a chiamare in fretta e furia.
La moglie aveva preparata la cesta con la biancheria, le spazzole, il pettine, il rasoio automatico, il Cirillino di stoppa per il bambino, e s'era data premura di ritirare dal libretto postale la sommetta messa insieme, a forza di privazioni, per potere andare a respirare quella boccata d'ossigeno sotto i pini.
Non molto in alto, veh! La montagna è roba da gran signori, come il mare.
Ma a loro bastava poco: più che altro la libertà, la quiete, e un alito fresco dopo calato il sole.
Capirono subito che nella stanza, affittata dentro il paese per spender meno, sarebbero stati male; però non dovevano, si può dire, starci quasi mai, fuorchè la notte e la notte si spalancano le finestre e tutto è accomodato.
Il letto, duro, sgrigliolante di foglie di gran turco, faceva buca nel mezzo e i travicelli minacciosi inseriti nelle travi maestre a due palmi dal naso, mettevano addosso un senso penoso di soffocazione.
Giù, nella strada del borgo, gran chiacchierio di gente fino al tocco o le due! La famiglia dell'impiegato abituata a coricarsi alle nove non riusciva a pigliar sonno con tutto quel fracasso: a chiudere le finestre c'era da impazzire dal soffoco, inoltre il lampione mandava il riflesso dentro la stanza richiamando il violino rabbioso di qualche zanzara vagabonda.
Nelle pause delle urlate acute dei ragazzi che davan la baia allo scemo del paese, il violino della zanzara s'avanzava minaccioso, bucava la penombra con un trapanio così risoluto da parere, di minuto in minuto, che si dovesse vedere apparire chi lo sonava.
Ma il sonatore era invisibile.
Soltanto, a un tratto, le zampe impalpabili si posavano sopra una gota e il violino smetteva.
Allora il classico ceffone, a vuoto, schioccava nella camera incandescente che esalava adagio, adagio, il riverbero del sole, succhiato, durante il giorno, dalle pareti scialbate a calce.
A mezzanotte la luce elettrica veniva tolta al paese; il chiasso di sotto non diminuiva, ma nel rettangolo della finestra si vedeva il bianco della casa di faccia inquadrarsi, e dava la precisa sensazione d'esser murati, vivi, dentro a quella stanza infernale.
Alle due, fine del chiasso, e da un orto vicino cominciava il richiamo dell'assiòlo.
Il grido desolato scandiva il tempo massiccio, forando come uno spillo l'aria afosa, grossa da tagliarsi col coltello.
A quell'ora si doveva star bene sul monte, fra i pini, guardando lo scintillio silenzioso delle costellazioni.
Ci sarebbero andati all'alba, a godersi quel ventolino che non ha ancora forza di sollevare la polvere fetida delle strade abburattate dai «camions».
Invece l'alba, dopo la fatica della notte e il rivoltarsi e il lottare tra il sonno e la veglia, li prostrava in un annichilimento di convalescenza.
Un fiato d'aria s'insinuava dal fondo, la parete di faccia s'allontanava, schiarendo, il violino (la zanzara satolla, dormiva colle zampe capillari attaccate a una screpolatura dell'intonaco) s'era chetato, e prima la moglie, poi il marito, mandavano un sospiro di sollievo beato.
Lei si faceva vento colla rimboccatura del lenzuolo, lui sporgeva il capo, come un pollo al becchime, godendo a sentirsi rasciugare dal fresco il sudore che gl'imperlava la zucca, e poltriva senza aver la forza di alzarsi.
Il ragazzo, nella fossa del letto, cogli occhi chiusi e la bocca aperta, pareva di cera.
Veniva la voglia di scivolare, giù, sotto le panchette accanto al vaso bigio, a vedere se fosse scolato mezzo di sotto.
Un sonaglio oscillante, uno zampettare sordo, qualche fischio soffocato.
Passavano le capre, col buon latte fervido nelle mammelle turchine.
E chi se la sentiva di balzar giù dai letto?
L'armento s'allontanava nella quiete violetta del lastrico sconnesso, fra le due file, uguali, di case dormenti con le finestre spalancate.
Il campanaccio s'affievoliva, lo zampettio, trovata la polvere della maestra oltre il lastricato del borgo, si spengeva di colpo insieme all'ultimo belato.
Pensavano: Domani s'anderà a veder mungere il latte fresco!
Ma non ne facevano nulla.
Risentivano forse del trapasso dalla vita febbrìle cittadina all'inerzia assoluta della campagna stordita dal solleone, dal fragore rombante e strombettante e scampanellante della folla, dei tranvai, delle automobili, al silenzio afoso del borgo dove ogni rumore, invece di fondersi con altri mille, arrivava solo e distinto: la «distesa» delle campane, il suono dell'oriòlo dalla torre, uno strider di lima dalla bottega d'un fabbro, l'abbaiare improvviso d'un cane.
Ma il secondo giorno, nel pomeriggio, fuggendo dalle pareti arroventate a bianco della camera ardente, si arrampicarono in pineta.
Per arrivarci s'arrostirono e s'impolverarono e, come vi furono giunti, il terreno scottava esalando aria tremante dove danzavano i moscerini.
L'erbe, le stoppie erano sparite e in quella vece gli aghi dei pini avevano formato un tappeto irsuto e maligno dove le scarpe senza bullette scivolavano come l'unghie d'un conigliolo sopra un piano levigato.
Tutto il poggio sembrava squassato diabolicamente, a guisa d'un cembalo selvaggio dalle cicale arrabbiate che sbattevano sui rami le sonagliere senza pace.
Provarono a rampicare più alto.
I cipressi parevano fiamme spente pietrificate e doverono accucciarsi all'ombra del muro alto del cimitero, girandosi, ogni tanto, col sole che veniva a scovarli quasi avesse giurato di farli impazzire.
Di lassù i monti turchini s'adagiavano nella luce implacabile, il cielo rovesciava sulle nuche la cupola di lamiera scaldata a bianco e nella pianura, gli olivi avevano, invece di foglie, tante fiammelle accese in vetta alle rame immobili.
La campagna arrabbiava nell'arsura.
Mosche cavalline, estri di smeraldo, pappataci impercettibili, bucavano le carni, di sopra le calze, di sotto ai calzoni; il ragazzo urlava, assalito da un calabrone nero come un diavolo.
Passando vicino a qualche macchia, in cerca disperata di fresco, da un sudiciume s'alzavano, avventandosi contro le faccie sudate, sciami di mosconi e di vespe.
Quando il sole ebbe nascosto il disco di porpora dietro il dente di una montagna, fu come se avessero spento un gran rogo e fosse rimasto il cumulo e lo sparpaglìo delle ceneri calde.
E poi venne il vento.
Venne stanco d'aver sollevato l'enormi lontane distese dell'acque marine, d'averle agitate a grandi masse, senza collera, ed ebbe appena la forza di far sussurrare le chiome delle pinete stente, decimate dai proprietarii per sete di lucro, durante la guerra.
Nell'ombra una cicala ammattita seguitava a scuotere il cembalo, come se avesse preso impegno di far danzare i grilli di giorno.
Allora apersero il paniere delle provviste e cenarono.
L'acqua era diventata, nel fiasco, tiepida come piscio e il marito dovè ridiscendere il monte e andare in paese a rifornirsi.
Arrivò col fiasco salvo tra le braccia, ma colle ginocchia sbucciate da un pattone sul tritume secco.
Il vento si riprovò a dare un brivido di voluttà ai pini vecchi e rachitici, senza riuscirvi, mentre il bambino buscava una labbrata per aver rovesciato il bicchiere del vino e la signora si doleva perchè non era avvezza a mangiare in quel modo, seduta sopra al terreno a sdrucciolo, senza sostegno.
Finirono di cenare appoggiati al tronco d'un pino, colle gambe per in sù, sbrodolandosi quando bevevano e non gli fece pro.
Il marito non riusciva a fumare, e cominciò a discorrere con nostalgia dei caffè di piazza Vittorio e delle granatine al limone.
Scesero, non si sa come, dal monte e quando arrivarono sulla piazza pareva che fossero reduci da una bastonatura.
Sulla farmacia, davanti a pochi tavolini, un gruppo di signori, inamidati e intirizziti, e di signore, in «toilettes» ultra leggere, davan la bèrta a chi passava, da padroni e da gente che non ha nulla da fare.
Appena apparve il terzetto scalcinato, qualcuno, dei meno cotennosi, buttò la frase:
- Paiono quelli del «Passaggio memorabile» di Fucini!...
Udiron le risa sguaiate e si misero a sedere sulla punta dei panchetti, davanti al caffè dei più poveri, vicino a un mucchio di operai in camiciola che puzzavan di sudore e giocavano a carte.
Poi il borgo li ringoiò e la stanza dall'atmosfera appiccicosa riabbassò sui tapini il soffitto di travicelli.
Sventolandosi, ignudo, alla finestra, il marito disse, solennemente, alla moglie: Domani, all'alba, zaino in ispalla e «marche»!
Nell'alba torbida, preannunziante un'altra giornata feroce, qualche manovale usciva di paese, dalla parte a monte, colla giacca sul braccio, fischiettando, mentre i meno fortunati, stivandosi in un automobile simile a uno strumento di tortura, al simulacro di «Moloch» che ingoiava la gente, scomparivano a valle, in fondo al viale dei cipressi polverosi, verso il bracere della città.
I due villeggianti, col bambino insonnolito, traballavano come ubriachi, stanchi per la notte insonne e non abituati a veder sorgere il sole.
Digiuni, sentivano lo stomaco languido e la testa vuota, il nastro roseo-azzurro della strada, tortuosa fra mezzo ai balzi immobili picchiettati di ginestre verdi sfiorite pareva, ai loro occhi abbagliati, che si muovesse, e il brivido freddo precedente l'aurora, invece di refrigerio, recò loro un senso improvviso di malessere.
Il ragazzo si fermò a gambe larghe in mezzo alla via, urlando a bocca aperta come se lo spennassero, incapace a proseguire, al babbo si presero degli urti di vomito, a secco, che lo facevano ripiegare sopra se stesso.
- Hai voluto accender la pipa a digiuno.... ben ti sta! - disse la moglie amorosa per consolarlo; ma un vecchio segantino che s'avviava col suo passo metodico e l'arnese in ispalla su, verso i poggi, disse scuotendo la testa:
- La torni addietro a bere un bicchierino...l'è stata la levataccia.... si sa, unn'ènno avvezzi.
E seguitò, tranquillo, quasi orgoglioso della sua forza, della sua salute, che gli permetteva di compassionare quei cittadini, lungo la strada bianca fra i balzi verdi, incontro al sole ormai alto.
Da quella mattina non ardirono uscire dai limiti del paese dove s'aggiravano circospetti come i gatti senza padrone, evitando la farmacia dove i famosi «panchetti» li aspettavano al varco per isbeffarli e i barroccini dei fruttaioli i quali, avvistisi che non compravano frutta, cominciavano a urlare, appena comparivano:
Tutti i «domani» eran peggiori dell'«ieri» finchè un bel giorno, per caso, il terzetto famoso, entrato in una chiesa per riposarsi un poco all'ombra, riuscendo dalla parte dei chiostri, s'accorse, a un tratto, d'aver trovato, finalmente, il refrigerio.
Un doppio ordine di svelte colonne ricorreva intorno al cortile col pozzo nel mezzo.
Il chiostro superiore era animato dai guizzi capricciosi e fulminei, dallo schiamazzo giocondo delle rondini che avevano nidificato fra le travi.
A terreno, ali bianche di suore della carità; ali rosee e turchine di colombi gemebondi, vesti azzurre di monache e grembiali multicolori di ragazzi: l'asilo infantile che faceva scuola all'aperto.
La torre, altissima, diritta come il carattere degli uomini che la edificarono, vigilava a quella pace la quale pareva dovesse esser sempre stata uguale, da secoli, tanto la quiete del luogo allontanava l'idea della morte con un senso riposato di eternità.
Dallo spessore dei muri in pietra alitava fresco, un po' umido, come quello che sale dagli abissi.
Lo spazio di cielo azzurro contro il quale si scagliava dall'ombra viola l'enorme stelo color di rosa della torre era tutto un tripudio di strida, un saettare fremente di ali.
Il ragazzo si mise a battere le mani alle rondini, il babbo e la mamma rimasero a bocca aperta, come i rondinotti dei nidi, a respirare l'aria trepidante di voli; in quella piccola selva di colonne si sentivano meno a disagio che nella vera selva, godevano la protezione di una solitudine fatta per gli umili e per i poveri, erano al sicuro dagli uomini e dalle bestie (tutt'eguali!) sotto lo sguardo d'Iddio.
Il tempo passava senza che se ne avvedessero, finchè un uomo incappato di bianco salì su a domandare cosa volessero, chè se aspettavano il signor Proposto era inutile perchè aveva dovuto recarsi in città.
Allora capirono di non essere come in chiesa che è la casa di tutti e, a capo basso, il marito avanti, la moglie dietro col bambino per mano, uscirono.
Sulla porta il marito, rialzando la testa, disse solennemente alla moglie: Domani....
Ma si chetò e traballò, perchè uno scampanio improvviso scosse l'edificio dai fondamenti facendo fuggire le rondini. La torre aveva cominciato a suonare a morto.