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I NON DESIDERATI
Eugenia sentì guaiolare a lungo il cane da caccia, il quale, evidentemente, aveva avuto un calcio da qualcheduno, in cucina, e si compresse il cuore, che le doleva, con le due mani pallide.
Stava facendo pulizia alla camera della cognata: eppure non uno scatto d'ira la prendeva, non la velleità di scaraventare ed infrangere, sul pavimento di legno tirato a lucido, uno dei mille ninnoli di vetro o di biscuit che gremivano i cassettoni, le mensole e le toilettes rendendo difficilissimo e sommamente pericoloso il toglier via la polvere col cencio e con la spazzola di padule.
Ma Eugenia era buona e ora, dopo la sventura, era divenuta anche più remissiva, anche più umile, più curva.
Tutta chiusa nel suo modesto abito di lanetta, nero, da lutto rigoroso, coi capelli ancora disfatti, magnifici, giù per il collo e le spalle, si muoveva per gli anditi e per le camere da letto e per le stanze severe di quella immensa casa patriarcale, come un automa.
Suo marito, il figliolo minore del sor Giuseppe, ricco proprietario e fittavolo, era stato, da vivo, uno spirito indipendente e invece di seguire i consigli del babbo e del fratello maggiore i quali volevano mandarlo a commerciar vini in città e accasarlo con una zitella loro vicina, che gli avrebbe portato tanto capitale bastevole per il primo impianto, s'era intestato di fare il pittore, ed aveva sposato quell'orfana (orfana di un modesto impiegato) con cui s'era messo a battere la bohème sul serio, finchè, non si sa come, dopo aver patito la fame ed essersi trovati a fare Dio sa quante brutte figure, la vittoria di un certo concorso lo slanciava di colpo insegnante dell'Accademia, assicurandogli almeno il pane....
Ma sì! dopo un anno il tifo se l'era portato via, e la vedova aveva dovuto presentarsi alla fattoria del sor Giuseppe, coll'abito, ritinto a lutto, che indossava nel momento della morte dell'artista, con un fascio di giornali e di riviste dove si diceva come, se fosse vissuto, avrebbe fatto un'immensa fortuna, e un canino da caccia.
Il sor Giuseppe, aveva ritirato in casa, subito dopo le nozze, il figliolo maggiore, destinato ad accudire alla azienda, sostituire il genitore e continuarne l'opera, e sua moglie aveva preso senz'altro le redini di ogni cosa, affibbiandosi alla cintura del grembiale il mazzo di chiavi della signora Assunta, buon'anima, e rificcando in un calcetto la zia Eufrasia che ci piangeva di rabbia.
Figuriamoci che cosa avrà pensato, in cuor suo, la pomposa Anna quando il sor Giuseppe le presentò la grama Eugenia!
Lì per lì, con un sorriso da tigre, l'abbracciò forte, la baciò sulle guancie e si fece spuntare una lacrimetta di tra i peli delle ciglia, ma non potè stare che non domandasse, con quel suo accento mellifluo e falsamente cortese, capace di trapassarti il cuore come uno stile:
- Brava! Anche il cane hai portato? Se ne sentiva proprio il bisogno! Giusto siam senza!
Eugenia, facendosi più pallida del solito, rispose a mezza voce:
- Che cosa vuoi, non s'è avuto figliuoli, e questa bestiola rappresenta il ricordo vivo e più caro di lui....
E Anna allungava con ritegno la mano per fare una carezza alla bestia, la quale, con quell'intuito infallibile che hanno gli animali domestici, ma specialmente i cani, rizzò il pelo rugliando.
- Buono Tago.... cuccia.... giù.
- Vedremo - concluse il marito di Anna buttando via una boccata di fumo dalla pipa - se è buono da caccia. In tal caso si ha un ricordo del povero fratello e un'utilità....
Ma se Tago non fosse andato dalla zia Eufrasia, alla quale fino dal primo momento prodigò le maggiori carezze e le feste più liete, chi avrebbe pensato a dare un boccone di pane alla povera bestia?
Pensavano invece a dargli dei calci, ad ogni proposito, e per Eugenia, che udiva i «caì, caì» laceranti dell'animale, era come se quei calci fossero stati dati a lei.
In realtà, intenzionalmente, specie se partivano da Anna, quelle pedate venivano misurate ad Eugenia, e, nel desiderio di levarsi di torno il cane, si rivelava tutto il desiderio di togliersi di torno quell'altra.
E «quell'altra», come ormai la chiamavano tutti, fuor che la sora Eufrasia e il sor Giuseppe, non sapeva a che cosa attribuire tanta ostilità.
Si faceva piccina, piccina, obbediva come una schiava, si riserbava tutti gli uffici più umili, non rispondeva mai verbo, mangiava, pochino, veh! quel che le davano, non beveva vino, non chiedeva i dolci, se c'erano in tavola....
Il sor Giuseppe le diceva: - -Su! figliola! mangia, bevi! e togliti di dosso cotesta malinconia! Ormai si sa, quello che è stato è stato.... Eppoi qui c'è anche la tua parte e nessuno te la toccherà, stà sicura!
L'Anna faceva il viso verde dalla gran bile a que' discorsi, e dava, di sotto alla tavola, di gran pedate negli stinchi al marito perchè capisse.
Eppoi se ne lavava la bocca per tutto il vicinato.
- Non le credete con quell'aria di santa! È un'ipocrita! Il suo marito era troppo buono, si sa.... Gli artisti.... ma gli appiccicarono un ferro guasto a quel pover'uomo! Se ve lo dico io! Non lo vedete? Non è stata capace neppure a mettere al mondo una creatura!
- Oh! per codesto, - rispose una comare di quelle che non hanno peli sulla lingua e, come suol dirsi, comprerebbero le questioni - per codesto, stia zitta perchè non è stata capace neppur lei!
L'Anna si morse le labbra e non disse altro, ma quell'estate il marito la portò a Salsomaggiore.
E per quindici giorni nell'immenso edificio della fattoria del sor Giuseppe tutto fu quiete e tranquillità; la signora Eufrasia accudiva alla cucina, al pollaio, ai contadini; la casa, sotto le dita leggere di Eugenia, lustrava come uno specchio e Tago dormiva pacifico, acciambellato sotto il pagliaio.
In quei pomeriggi torpidi, mentre le cicale si sbatacchiavano disperatamente sui pioppi e le strade bianche fra le siepi polverose parevano colate di lava incandescente, Eugenia non sapeva resistere all'incubo della grande casa fresca e silenziosa.
La zia dormiva, distesa quant'era lunga nel gran letto a colonne, dal baldacchino sfrangiato, colla bocca aperta, gli occhi chiusi, le mani ossute e diafane incrociate sul ventre piatto, di ragazza invecchiata, e pareva morta.
Allora Eugenia, con un moto di ribrezzo, scendeva in cerca di luce, andava sull'aia, abbandonata anche quella perchè i contadini riposavano all'ombra cerulea dei gelsi o sull'erba dei fossati e, non trovando nessuno con cui barattar due parole, chiamava il cane.
Tago si scuoteva nel sonno, scodinzolando, senza decidersi a sgranchirsi e la padrona gli si metteva vicino sussurrandogli in un orecchio tante cose dolci e dolenti.
Gli parlava del marito, ne ricordava le abitudini, ne decantava la bontà.
Seduta in terra, con le spalle appoggiate al pagliaio, accarezzava la testa morbida del cane che, ogni tanto, sollevava dalla maschera nera che glielo copriva come una toppa, un occhio rossastro e mugolava assentendo.
Quando gli sposi tornarono, la florida Anna ebbe un lampo di dispetto nelle pupille piccole, sotto le palpebre senza ciglia affondate nel lardo del viso.
Aveva sperato di poter trovare da ridir qualche cosa, e invece trovava tutto assestato e lustro, come se non si fosse mai mossa da casa o ci avesse lasciato un esercito di servitori!
Ma la sua rabbia non ebbe più limiti quando udì il marito lodare la cognata per la cura che aveva avuto delle stanze durante la sua assenza.
Due mattine dopo, mentre Eugenia, facendo le spese del desinare sulla piazza del paese, passava davanti alla farmacia, si sentì chiamare dallo speziale che era sulla porta e si fermò.
- Desidera me?
- Per l'appunto. Ieri sera ho acconsentito a una richiesta giustissima della signora Anna.... Ma poi m'è saltato in testa uno scrupolo.... lei mi capisce.... tante volte una distrazione, una mancanza di riguardo.... le disgrazie fan presto a succedere e non vorrei andarci di mezzo....
Eugenia che non capiva una parola su tre mormorò, insospettita, una frase generica:
- Allude forse?...
- Sì.... alla stricnina che mi chiese iersera la signora per disperdere i topi.... S'è ricordata, non è vero, di avvertire in famiglia?...
Eugenia ebbe un tuffo al sangue, ma si ricompose, con uno sforzo, e rispose fiocamente:
- Diamine!
- Posso star tranquillo?
- S'immagini!
- Conto su lei!
- Ci può contare. Arrivederlo.
E corse, quanto poteva correre, su, verso casa.
In mezzo all'aia giaceva, morto stecchito, il gatto dei contadini. Allora si precipitò nell'orto, girò dietro i pagliai, tornò sotto il portico, chiamando affannosamente: Tago! Tago! Tago! Dove sei?
Stava per abbandonarsi alla disperazione, quando la bestia le corse incontro scodinzolando, saltandole al collo, cercando di leccarle la faccia lacrimosa....
E alla donna non parve irriverente il confronto fra quella gioia del cane, e quella del marito, quando tornava la sera, stanco e impolverato, dall'aver dipinto all'aperto, e saliti i gradini della scala, due a due, e correva incontro ad Eugenia, gridando d'allegrezza, come un fanciullo, e l'abbracciava, e la baciava, mugolando quelle piccole, innumerevoli parole senza senso, alle quali gli amanti sanno trovare significati così profondi e reconditi!
Anche il cane tornava da una passeggiata.... L'aveva portato con sè il sor Giuseppe, e la sera, a tavola, chiamò Tago e, buttandogli un osso con un pezzo di lesso attaccato, disse che era una gran brava bestiola, obbediente, «umano» e puntava i coniglioli senza strozzarli.
Poi, mutando discorso: È morto il «Bigio»... ci devono essere, sparse, delle polpette; domani me ne informerò, e intanto, per questa volta, Tago, dormirà in casa.
Anna diventò livida, ma Eugenia, nello sguardo bieco che la cognata gettò alla bestia, intuì la sentenza del cane.
E quella notte non dormì. Fino all'alba s'avvolse in tristi pensieri e le pareva di vedere il cane minacciato da pericoli misteriosi, le pareva di stare ad aspettarlo, come il marito, ed egli non tornava....
Ma era il cane o era il marito che ella attendeva? A un tratto, svegliandosi a forza dall'incubo, comprese che il cane era l'ultimo anello della catena ideale di ricordi per la quale ancora il defunto viveva accanto a lei, e, subito, lo spavento la colse di vedere infrangersi la catena e il ricordo allontanarsi, iniziare quel lento viaggio, lungo le interminabili serie di archi neri degli anni, mutamente, nell'ombra, risalire il cammino misterioso della dimenticanza, dove, ad ogni passo del caro fantasma che dilegua, cala una cortina di nebbia....
L'Ave Maria suonava nel cielo violetto, ed Eugenia, a cui l'angoscia diveniva intollerabile, s'alzò e cominciò a vestirsi, febbrilmente.
Radunò in un fagotto i suoi pochi cenci, vi cacciò dentro il ritratto di Enrico, annodò le cocche, se le infilò nel braccio, poi, a tentoni, traversò l'andito e il salotto e scese in cucina.
Placò, a furia di carezze, le smanie di Tago che guaiolava dalla gioia, aprì la porta, respirando l'aria fresca della mattina con un senso di liberazione, uscì fuori, all'aperto, e prese la via maestra, mentre il cane correva su e giù, scodinzolando e abbaiando.
Dietro i monti celesti, il cielo d'oro sfumava adagio, in cobalto, e l'ultima stella impallidiva a vista d'occhio, mentre le chiome degli olivi si agitavano lievemente in attesa del sole.
La strada pareva un ruscello color di rosa.
Dove andava, Eugenia? Che cosa sarebbe stato di lei? Il sor Giuseppe non avrebbe mandato gente a riprenderla col cavallo?
In quel momento non pensava, non poteva pensare a nulla.
Eugenia camminava, libera, soavemente, attraverso al mondo deserto; le pareva che l'ombra di Enrico procedesse al suo fianco. Era dopo tanto tempo, felice.