Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Novelle selvagge
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ASTUZIA.

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ASTUZIA.

 

A Francesco Coselscki.

 

Aveva una brutta faccia, tutta solcata di rughe incrociate per ogni verso, con due occhi accesi e scerpellini sotto le sopracciglia grigie lunghe ed irsute simili a quelle d'un satiro, colla bocca sdegnosa e il mento quadrato, completamente raso, baffi, barba e capelli come un galeotto, il collo rosso di un rosso fiammante di sverzino, le spalle curve che davano alla sua andatura un'aria d'agguato perenne, le mani enormi intrecciate di vene violette grosse come corde e con un nodo nel mezzo.

Aveva ammazzato uno, da giovanissimo, e nonostante la premeditazione accertata, se l'era scapolata alla meglio; soltanto, espiata la pena, tornato al paese, non aveva trovato (solite storie!) un cane che lo pigliasse a lavorare.

E lui s'era messo a fare il bracconiere.

Avvezzo da bambino a scorazzare per le boscaglie rubando i nidi agli alberi e il miele alle api, conosceva tutti i viottoli, tutte le scorciatoie, tutti i nascondigli e tutti i covi.

Bastava che uscisse di casa, innanzi l'alba, scrutasse l'orizzonte e annusasse l'aria per sapervi dire a un puntino che tempo avrebbe fatto e dove bramava d'accucciarsi la lepre.

Oggi è nuvolo e tira scirocco; pioverà di certo. Bisogna cercare, basso, giù per i fossi, le son rivoltate nelle macchie. – Oppure: Soffia tramontàno! mi par di vederle, le stanno allo striscio fra le zolle o nel gabbreto.

E non sbagliava mai.

Pratico delle pasture e dei passaggi, nessuno l'uguagliava nel fabbricare certi lacci di fil d'ottone che tendeva con maestria insuperabile allo sbocco dei crocicchi, ai fóri delle siepi, fra 'l trifoglio giovine e quando, a notte alta, andava a riguardarli, era un caso raro che non ci trovasse una bella lepre impiccata, col muso gonfio e le quattro zampe irrigidite.

In paese gli avevan messo il curioso soprannome d'Astuzia, ma non per questa furbesca abilità nel tendere i lacci o nel balzellare gli animali, sibbene perchè quel tale omicidio da giovine, lo commise per liberarsi d'un rivale in amore, con un'astuzia diabolica davvero.

I vecchi raccontavano che lui, appena seppe che con la Ghita ci discorreva quell'altro, si mise a fargli l'amico e a figurare di non pensarci più neanche per idea, e la fece tanto bene che il disgraziato finì per eleggerselo a confidente delle sue ansie e delle sue contentezze, insomma per isceglierlo a depositario di quegli sfoghi che gli innamorati sogliono sempre versare nel seno prudente di qualche sodale affezionato.

Così usando insieme, l'uno, inconsapevolmente, stillava nel cuore dell'altro un veleno lento che dava la febbre e le vertigini al povero Astuzia, finchè questi una sera invitò l'amico e rivale a casa propria e gli cosse da , a puntino, i roventini e , tra un bicchiere di vino e l'altro, si fece raccontare ogni cosa, proprio ogni cosa senza tralasciar punti particolari. Ma quando gli parve, traverso le rozze frasi colorite dal gesto eloquente e rese vivaci dal vino frizzante, quando gli parve proprio di vederlo curvarsi sulla spalla della Ghita e morderle la gota bianca e vermiglia, allora scattò come la molla d'una trappola da lupi, e con quelle mani lunghe e poderose lo chiappò per il collo, lo rovesciò sulla tovaglia che si chiazzò del vino di un bicchiere rovesciato, ve lo abbattè, ve lo conficcò, ve lo abbandonò senza vita, colla testa inerte su quella gran macchia che pareva di sangue.

Era proprio questo l'uomo che io avevo scelto perchè mi guidasse a caccia per la boscaglia, di cui non ero pratico e che era difficile ad esser battuta, densa di burroni, di forteti, di nascondigli.

Ma Astuzia sapeva vita morte e miracoli di tutte le bestie e in pochi giorni mi fece ammazzare moltissime starne, parecchie lepri e un bellissimo tasso dal pelo lungo e bruno e con una simpaticissima stella color latte sul naso camuso.

Io, però, avevo voglia d'una volpe, per farla impagliare e tenermela sul tavolo da lavoro; ormai avevo preso cotesta fissazione ed era inutile perfettamente che Astuzia mi facesse osservare (con molto rispetto, del resto) che le volpi oltre a non esser buone da mangiarsi, fanno faticare un mondo prima di poterle sorprendere e, una volta uccise, puzzano come avelli.

Ogni ragione fu dunque vana e fu deciso che avremmo balzellata la volpe.

Il "Masseto" si leva in un punto il più deserto della selva di "Bifonica", sorge a picco sopra un torrente scheggiato di macigni, avaro d'acque, con l'aspetto strano di un castello demolito a colpi d'ariete.

Sono centinaia di blocchi informi, accavallati l'uno sull'altro e in cima è una specie di monolite puntuto, che, a guisa di vedetta, pende sull'abisso e pare, quando il vento soffia facendo ululare i quercioleti come una torma di dannati, che debba oscillare, crollarsi e precipitare rimbalzando giù per la china come il sasso di manzoniana memoria.

Ma i muschi, l'edere, i lichèni hanno vegetato, hanno prolificato, hanno stretto quella congerie ciclopica in un amplesso verde, l'acqua colando e i ghiacci disgelando vi hanno aperto delle buche profonde dove i falchi nidificano e che, viste dal basso, paiono occhi della pietra sbarrati dallo stupore del tempo. Quando sorge l'alba il Masseto è color di rosa contro uno sfondo cupo di cipressi e di pini, a mezzodì lampeggia come il cristallo di ròcca, al tramonto sanguina come un rogo, la notte, sotto la luna, assume un color verde, spettrale; è insomma una cosa fantastica, bella e terribile, un rifugio da sognatori o da malandrini, un covo di rapaci ebbri di sole o di nittàlopi viscidi e paurosi.

Ma solamente si poteva esser sicuri di uccidere un bell'esemplare di volpe, e si andò.

La luna si sarebbe levata prima della mezzanotte e il mio compagno mi condusse, due ore prima, per certi viottoli noti a lui solo, al luogo dell'agguato.

Astuzia camminava innanzi voltandosi ogni poco ad ammonirmi di stare attento a quella radice o a quella buca; pareva che fosse in casa sua. Io lo seguivo cercando di vedere in terra, ma invano, e tenendolo un po' d'occhio colla destra sulla cinghia del fucile che mi pendeva dalla spalla, pronto ad ogni evenienza.

Se ne serva pure, mi avevano detto, è capace; però.... lo tenga d'occhio!

Parole poco rassicuranti.

Nel bosco si camminava male; nel Masseto peggio, e ci volle la mano robusta d'Astuzia a sorreggermi fino a un macigno alto, coperto di borraccino, dove arrivai trafelato dopo aver corso cento volte il risico di fiaccarmi l'osso del collo.

– Si metta costì, mi disse la strana guida; il vento soffia verso di noi e la volpe verrà di (indicò un punto, nel buio, che lui solo vedeva) e non ci sentirà. Io mi metto qui, dietro a lei, ma per carità, stia fermo, non tiri neppure il fiato!

C'era poco da obiettare, benchè quell'idea di voltare le spalle all'assassino mi solleticasse mediocremente; per cui, accomodatomi alla meglio, caricai l'arme, misi i cani al punto e aspettai, collo schioppo sulle ginocchia, disposto santamente alla pazienza.

Chi ha provato la noia della fazione, in sentinella a una polveriera o ad uno stabilimento carcerario, non può farsi che una pallida idea di quel che sieno l'angoscie d'un balzello.

Dopo un'ora gli occhi mi dolevano per lo sforzo di cercare nell'ombra, le gambe mi s'erano informicolite, le mani gelate sulle canne del fucile, tutta la persona sentivo pervasa da mille volontà strane, di mutar posizione, di sternutire, di tossicchiare, fosse pure per un secondo.

Il bosco era d'un silenzio cupo, rotto a quando a quando da certi fremiti uniformi del frascame che parevano sospiri della notte; in quanto al mio compagno non lo sentivo neanche respirare, pareva che la terra l'avesse inghiottito.

Come Dio volle, un chiarore mi rivelò il crinale della montagna, una luce lattea montò, si diffuse, scivolò fra i tronchi dei pini, la foresta s'aprì ai miei occhi come uno scenario, un nottolone sbattè il becco sopra un macigno, una volpe abbaiò lontana, un'altra le rispose più vicina, la luna ruppe i nuvoli e rovesciò dall'urna d'argento il suo lume più abbagliante.

Finalmente! Di fronte a me era uno spianato erboso, rotto qua e da qualche scheggia di macigno che riluceva bianca e nera come tagliata nettamente in due dalla propria ombra: di sarebbe venuta la volpe e sarei riuscito a stenderla con un colpo ben diretto.

L'istinto della caccia fece scomparire, per incanto, tutta la mia sensibilità nervosa; il fucile mi tremava nelle mani pronto a salire insensibilmente verso la spalla, l'occhio si dilatava nell'ansia della ricerca; quand'ecco un batuffolo nero saltare, ruzzolare dal limite del bosco verso l'erbe alte.

Una discreta tiratina alla mia cacciatora mi avvertì che Astuzia non dormiva.

Mi fermai, sul punto di mirare; non era la volpe, era qualche cosa che il mio compagno avrebbe preferito, una magnifica lepre, vecchia e pelosa, che si rotolava con voluttà sull'erba umida di guazza. Contemporaneamente un altro batuffolo, molto più grosso, sbucò dalla stessa parte e a furia di ruzzoloni pazzeschi venne a scivolare, balzellon balzelloni, fin presso la lepre che seguitava il suo gioco.

Ora distinguevo benissimo la lunga coda a spazzola, le orecchie a punta d'un superbo volpone, forse una femmina, d'un color rosso fulvo che, sotto la luna, pareva grigioargento. Bel colpo doppio!

Ed ecco la volpe che, sdraiata a pancia all'aria, faceva mille lazzi buffoneschi, mille capriole strane, colle zampe davanti distese prima e rattratte poi contro il petto biancastro come a invitare la compagna selvaggia a giocare con lei; era un'orgia di capriòle frenetiche, di salti pazzi, di dolcissimi mugolii....

Un'altra tirata, più energica, alla mia cacciatora, m'avvertì che Astuzia si meravigliava dell'indugio.

Ma quello ch'io vedevo m'interessava troppo; la lepre consentiva all'invito, accucciata come un cane festoso, gli orecchi ritti, si muoveva strisciando verso la volpe sempre supina, immobile, quasi in un'estasi di piacere. Le avrei uccise entrambe con una fucilata sola.

Ad un tratto la lepre distese i piè deretani, scattò come un baleno, passò sopra la volpe, si rialzò, s'abbaruffò con lei, si svincolò, giacque alla sua volta con le quattro zampe in aria belando lievemente.

La volpe si mosse tra 'l palèo come il cane sulla passata delle quaglie, strascicando a serpente la lunga coda, colla punta del muso protesa; si avvicinava in modo insensibile alla lepre che ora faceva mirabilmente la morta, come una gatta soriana solleticata con un filo di paglia; finalmente le fu vicina, fulminea, spalancò, le mascelle, l'abbrancò per la gola palpitante, spense a mezzo il belato fievole, la roteò per l'aria con uno sforzo del collo, l'abbattè sul terreno, strangolata d'un tratto, mentre quasi subito rintronava il colpo di fucile e l'animale da preda s'accasciava accanto alla vittima, senza voce e senza movimento.

Il dramma era terminato e la notizia se ne propagò per la gran selva per mezzo degli echi che tutte le grotte accoglievano, si rimandavano, si contendevano.

Balzammo in piedi, d'un lancio fummo sulla radura, io mi chinai sulla volpe, ma Astuzia mi frenò con un gesto energico.

Aspetti! Potrebbe non esser morta.... Delle volte fingono per mordere il cacciatore.

La voce gli tremava stranamente; lo guardai mentre proseguiva:

Capisce? Fingono! Non ha visto? con che furberia l'ha ammazzata?... Come un essere umano capisce? Come un essere umano!

La faccia d'Astuzia era contratta, corrugata, increspata ad una smorfia spaventevole, mentre si rialzava, colla luna che gli splendeva sul viso, le zampe della lepre strette nel pugno.

È certo che quell'uomo piangeva; a modo suo, ma piangeva.

 



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