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IL PANTANO.
A Toni Beltramelli.
Il vecchio bracconiere rimaneva immobile sotto la cappa del cielo plumbea livida che pareva pesargli addosso, schiacciarlo, ripiegandolo come una cosa miserabile a' piedi dell'enorme quercia fronzuta.
L'umidità, il freddo della sera, l'alito micidiale del padule lo lasciavano indifferente.
Che cosa potevano fargli, ormai? Ammazzarlo. Meglio; ma che una volta fosse la buona e non ci si pensasse più; anche la notte avanti quando era scattata la trappola da cignale, il micidiale spago teso da macchia a macchia e attaccato ai grilletti di due spingarde puntate, e aveva ucciso Dore, il silenzioso, gli era rincresciuto quelle pallottole di non essersele sentite entrar nelle viscere.
Tanto, che ci faceva al mondo? solo, come un cane, costretto a vivere d'espedienti e a marcirsi lungo le lame fetide, senz'aver più a casa un boccone di minestra calda, una fiammata allegra per isgranchirsi.... e non sentirsi neppure il fegato d'uccidere o di uccidersi! Meglio allora che la morte venisse da sè.
E coi polmoni guasti aspirava il fiato formidabile della palude assopita, come soleva assorbire il fumo della pipa rocciosa nei pomeriggi freddi quando lo stomaco era vuoto e gelato, per ingannarlo un poco.
Ma la macchia si pigliava chi le paresse e piacesse. Gli Aquilani feroci e lavoratori, quelli sì, li ammazzava col loro gruzzolo rimediato a stento in fondo alle fosse umide tra gli argini alti, li fulminava, gialli e gozzuti, sulla via del ritorno, quando pensavano i loro casolari alpestri e le loro donne alte dal naso arcuato e da' grandi pendenti d'oro alle orecchie.... lui no, non lo voleva, la febbre.
Il grido si ripetè nella sera senza tramonto, bucò le nebbie che salivano dense dalla gran valle chiusa che un lago morto impaludava, arrivò distinto fino agli orecchi del Monco, lacerante, acuto, terribile.
Allora il Monco si alzò, collo schioppo all'in giù, il cappello calato sugli occhi, il bavero della cacciatora di fustagno rialzato, la barba tremolante al vento della notte, e lungamente scrutò in giro l'orizzonte cupo contro il quale si disegnavano i profili mostruosi delle foreste lontane.
Poi si mosse, dinoccolato, adagio, in direzione del grido che ora si ripeteva più fioco e più spaventoso che mai.
Chi sarà stato a implorare in quel modo? Certo qualcheduno caduto nel pantano mobile, nella " mémma".... Se avesse trovato la sua donna che affondava? O se fosse stato qualche cacciatore smarrito nell'acquastrino? che buona mancia!
E se (e si fermò) avesse visto lui, lo Spezza, impantanato, invischiato, e si fosse messo lì a guardarlo morire adagio adagio adagio?
Non aveva finito d'accarezzare quest'idea che, a un tratto, dalla scesa d'un argine gli apparve la cosa tremenda.
Un uomo, ma che d'uomo non aveva più neanche l'effige, era affondato nel pantano mobile, nel punto pericoloso noto soltanto ai bracconieri di notte, ai cacciatori di frodo, usi a passarlo con una tavola di pino leggero nelle notti di luna quando avevano ammazzato un capo grosso all'abbeverata.
Nel crepuscolo tutto violetto che ricopriva d'una molle e languida nebbia d'una trasparenza azzurra, fantasmagorica, il terribile paesaggio dell'acquitrino, tra pochi ciuffi palustri, emergeva il capo della persona o dell'animale.
Le mani battevano convulse la mota turchina, si volevano distendere lunghe e larghe, in piano, sul terribile elemento mezzo liquido, la bocca taceva, gli occhi (non si discernevano bene) dovevano balenare orrendi come quelli d'un lupo attenagliato; poi il ribrezzo la vinceva sulla ragione e le dita s'increspavano sul motriglio che sfuggiva, la testa si piegava, la bocca s'apriva a un grand'urlo e le spalle affondavano d'un altro centimetro!
Solo il cappello, slanciato avanti a distanza, come a sondare il terreno traditore, a guisa d'una bussola e d'una speranza, rimaneva a galla, fermo, siccome tutto il resto di quel tragico paesaggio dove nulla si moveva all'infuori della nebbia che saliva saliva, continuamente saliva, ricoprendo ogni cosa.
Davanti alla testa del moribondo, di traverso, era una lunga cosa oscura, forse il fucile delicatamente posato con la calma della disperazione sulla fanghiglia immonda per ritardare l'attimo inorridente.... ma anche quella cosa lunga e scura affondava, scompariva, inghiottita dal moto che agitava, per entro, l'abisso di fango.
Come il Monco mise piede, fuor dell'argine, sulle prime canne lacustri stroncate da un passaggio recente, parve che dall'altra banda l'enorme lago vischioso si sollevasse, oscillando, come una lastra di ghiaccio staccata dalla riva e l'uomo affondò un altro poco mugghiando come un toro impastoiato.
Allora il Monco fece un giro, passò tastando col piede ferrato e col calcio dello schioppo i rimasugli di terreno borraccinoso emergenti a fior del limo e s'accostò, cautamente, a pochi passi da colui che implorava; si fermò sopra un'isoletta di mezzo metro, si accomodò sur un tronco marcito che sporgeva fra i licheni grassi al par di funghi, poi, colla mano sulla fronte, scrutò fisso davanti a sè.
E lo riconobbe.
Lo riconobbe, e, senza perder tempo, tentò col calcio dell'arme la "mémma"; la tentò appena, la "mémma" si mosse e l'altro se la sentì arrivare al mento e, rovesciando la testa fino a infangarsi i capelli arruffati cacciò un grand'urlo.
– Finiscimi!
– Mi riconosci?
– Tirami una schioppettata nel capo, te lo chiedo per l'anime sante del Purgatorio!
– Io? io, ammazzare un cristiano? L'avrei dovuto fare quando era tempo e non l'ho fatto, dunque.... aspettavo che ci pensasse chi ci doveva pensare e ora veggo che il prete ha ragione: un Dio c'è!
– Ammazzami! vigliacco! ammazzami!... no.... vigliacco, no! sei bono, te.... sei un angelo di Dio.... e Dio t'ha mandato a salvarmi....
La mota gli radeva le labbra. Spezza durava fatica a discorrere, farneticava, mugolando piangendo ridendo....
Ma il Monco seguitava, implacabile: O come ho a fare a salvarti, se ho un braccio solo.... tu sei tanto forte.... mi piegasti in due, come un giunco, quella volta, te ne rammenti?... cosa gli può fare il Monco allo Spezza?
– Te lo giuro.... è stata lei.... io non ci ho colpa.... è una donnaccia.... non ne posso più nemmen io.... tirami fuori di qui e ti vendico io, te lo giuro!
– Non t'arrabbiare così, se no tra poco t'arriverà agli occhi....
– Aiuto.... aiutooo.... aiutoooo!!!
Ora lo Spezza urlava, come impazzito, quasi che gli alberi lo potessero sentire o i suoi urli potessero arrivare ai casolari di là dal bosco, ai casolari che, certo, a quell'ora accendevano i loro fuochi e aprivano gli occhi gialli delle finestre nel buio: e si dimenava in modo tremendo colle dita contorte che cercavano un ciuffo, uno stelo, un fil d'erba, qualcosa da attaccarsi, qualcosa da stringere, qualcosa da tirare; ma invano.
E il Monco caricava la pipa, ridicchiando: C'è un Dio!
– C'è.... c'è.... e per questo, salvami!
– Adagio. E se, dopo, appena sentita sotto i piedi la terraferma....
– Ti do quel che vòi! infame! ammazzami.... liberami.... una mano.... il calcio dello schioppo!
– E se, dopo, me lo dai te, il calcio dello schioppo, sul capo?
– Te lo giuro per la Madonna! te lo giuro per quella creatura innocente!
– Ecco, ecco.... di chi è la creatura, secondo te?
– Tua, Monco, tua! te lo giuro per Gesù crocifisso!
– O bravo Spezza! – E il Monco s'alzò; – la creatura è mia.... e io ti salvo. Ma non me ne voglio pentire.
– Stai quieto! stai fermo come un olio e t'assicuro che la "mémma" ti regge per un altro quarto d'ora.... però se ti muovi, se urli, se fai un gesto, son guai!
– Mi lasceresti.... così?
– Stà zitto, ti dico. Non voglio rimorsi, io! fermo, senza tirare il fiato, e io ti mando la donna; a ciascuno il suo, caro te! io mi piglio la creatura, che è mia, tu ti pigli la donna, che ora è tua.... ma stà fermo, io te lo dico, se no la rischia di non trovarci più nessuno.
Lo Spezza sbatteva i denti; nel buio fitto si sentivano scricchiolare l'uno contro l'altro come quelli d'un cane sopra un osso, mentre il Monco, col fucile all'in giù, il bavero della giacchetta rialzato, il cappello sugli occhi, si perdeva, quasi ingoiato dalla nebbia dentro la quale si tuffò a salti rapidi e sicuri, camminando sulla palude come sopra un'aia battuta.
Poi si levò il vento; segno che il sole era calato da un pezzetto, le rane gracidarono una volta due tre, poi tutte insieme innalzarono un coro assordante, mentre fra l'erbe alte e nel frascame lontano si sentivano quei tremiti e fruscii che indicano lo svegliarsi degli animali nemici della luce alla rapace vita notturna.
La Diavola cantava rabbiosamente stuzzicando un fascio di sarmenti secchi sul focolare e il ragazzo mugolava che aveva fame, dando, ogni tanto, un'occhiata all'uscio di dove credeva, di minuto in minuto, di veder entrare lo Spezza, quando si sentì bussare con forza.
– Eccolo!
La Diavola andò ad aprire di corsa e cacciò un urlo, esterrefatta.
Il Monco era lì, sulla soglia, col fucile in braccio e lo sguardo cattivo.
– E chi vi dà il coraggio?!...
– A me? chi me l'ha a dare il coraggio? Se non l'ho, il coraggio! Ma neanche ho avuto quello di salvartelo, il tu' ganzo, affondato nel pantano, qui, vicino al tomboleto....
– Non è vero, assassino! assassino!
E si spingeva innanzi, coll'ugne pronte, come avesse ragione lei, mentre il ragazzo le si attaccava alle gonnelle, piangendo.
––Non urlare! e fà presto, invece. Mi vòi più conciliante di così?
– Gigino! la fune!... cosa fai?... cerca, imbecille.... aspetta.... quella del pozzo.... questa è corta.... io perdo il capo!
– E, te lo dico, hai poco tempo da perdere, anche....
– Io? nemmen per sogno. Ma nemmeno l'ho salvato! tocca a te, se gli vòi bene.... io ho fatto i patti chiari.... te a lui.... e la creatura....
– E la creatura?
–A me!
– Prima t'ammazzo che rendertela!
Il Monco ebbe un baleno nelle pupille, ma si dominò e riprese, calmo:
– E va bene. Intanto và avanti e sbrigati, se la faccenda ti preme....
– Un lanternino.... un covon di paglia....
– Macchè lumi! o non ci son io? lesti, venite con me.... – e se li spinse innanzi, nell'ombra, come due pecore.
Andavano, muti, ansimando, fra mezzo le nugolate della nebbia che entrava loro in gola, tappando le bocche, mozzando il fiato, andavano incespicando, tentoni, come tre ciechi.
– Dov'è, dov'è?
– Laggiù.... scendi l'argine.... ci sei? il bambino? è con me, l'ho per la mano io.... a sinistra, ora a destra...
– Ma dov'è? Assassino!
– Non t'ho mai detto nulla.... t'ho lasciato fare quel che t'è parso.... Vi ho lasciato padroni in casa mia.... ma rimetterlo in piedi, io?... Via! era un po' troppo!...
Ora il Monco urlava, che la donna era già lontana sul piano di fango, poi si mise in ascolto, terribile, cogli occhi dilatati nell'ombra, stringendo il ragazzo contro di sè, cuoprendogli il capo col mantello pesante.
Si mise in ascolto e pregava Dio che non lo costringesse a fare una pazzia, ora che avrebbe avuto il fegato di sdraiarli tutti e due con la sua vecchia spingarda, se fossero ritornati per ripigliargli la creatura; sua, sua....
E sporgeva il collo, nell'ombra, fuori del bavero alzato.
Un grido, un altro, poi.... più nulla; la nebbia morbida, spessa, densa, attutì ogni romore, nascose ogni oggetto; ma il Monco l'aveva riconosciuta bene, la voce acuta della Diavola. Dio gli aveva fatto la grazia! E si cacciò nel pattume col ragazzo in collo, tenuto stretto, sotto il mantello, col braccio buono.
Volava, più che non corresse, tastando l'aria col moncherino, in quel mare che li ricingeva di sopra, di sotto, dai lati, finchè un baglior fioco sbaluginò tra l'opacità fumosa, una porta cedette alla pressione febbrile della spalla e la bella vampata ormai alta e crepitante avvolse il vecchio e il ragazzo di calore e di luce.
Era tanto che non mangiava così bene, al calduccino, e mangiò e bevve e si scaldò e fece scaldare e mangiare e sopra tutto bere anche Gigino che, da ultimo, gli dormicolava in grembo. Allora lo mise a letto dopo averlo spogliato con ogni cautela, e nel rimboccargli il lenzuolo e rincalzargli la coltre tastava, tastava ogni cosa, coperte, guanciali, traverse, asserelle, quasi a ripigliar possesso di tutto, oggetto per oggetto; poi, come il bimbo giacque coi piccoli pugni chiusi, la bocca aperta e le palpebre abbassate sulle visioni oscure del sonno, tirò la tavola e la panca vicino al fuoco, ribevve ancora e pianse lungamente, pianse di commozione, pianse di felicità.
Ma ogni tanto si voltava cogli occhi sbarrati e rimaneva, fisso alla porta, donde temea, di minuto in minuto, di vedere entrare lo Spezza e la Diavola, brutti di fango, spaventevoli, e gettarsi sulla creatura per ripigliarla.
Infine, non resse più all'incubo atroce, aprì l'uscio, guardò di fuori; poi lo richiuse, lo sprangò, si mise accanto al bambino, col fucile carico tra le ginocchia, e tutta la notte vegliò il figliuolo così, spiandone ogni moto, anche il più lieve, guardandolo con intensità frenetica fino a scolpirsene nella memoria i tratti più fuggevoli, ma tendendo l'orecchio, col cuore sossopra, verso la porta....
Ma la notte passò lunga e muta, come se la nebbia avesse sepolto il mondo, e quando il sole ruppe da levante con un tramontanino secco che pulì il cielo come la spugna lava un vetro, il Monco per la cognita scaletta della casa, ritornata sua, s'arrampicò a cor leggèro sul tetto, d'onde si spaziava su tutto il padule; e non vide nulla, altro che un immenso specchio azzurrastro con dei riflessi di rosa e dei bagliori d'acciaio.
E ridiscese, ringraziando il cielo, e baciò disperatamente il fanciullo che si svegliava piangendo perchè la barba del Monco gli aveva punto una gota.