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A Gherardo della Gherardesca.
Tutta la mandria alzò dalla pastura i colli sui quali i crini lunghi s'agitavano come bandiere e annitrendo insieme staccò il galoppo e fuggì.
Lo stecconato tremava ancora, i pini lungo la strada ferrata agitavano ancora le chiome irsute quasi per iscuoterne i lembi capricciosi di fumo che vi si erano impigliati per entro, e già il treno scompariva ululando con gran fragore di catene sbattute.
Un puledrino bluastro, riccioluto, dalle gambe troppo lunghe, dalla coda troppo prolissa, trotterellava in mezzo al prato fiorito colla testina piegata capricciosamente sul petto, stronfiando dalle froge umide e tènere per la rabbia d'essere stato lasciato indietro.
Ma la corsa dei puledri si piegò in arco, cinse il cavallino, lo prese in mezzo a un vortice di criniere di zampe di musi, di occhi lagrimosi e lucenti, poi s'acquietò di nuovo con romor sordo di zampate sul terreno molle, di criniere fluttuanti, di colli che si squassano, di labbra che brucano e il puledrino si rimise a pascolare anche lui.
Ogni giorno succedeva così, ogni giorno, dacchè aveva avuto il bene della vista ancora imperfetta, e del finissimo udito.
Adagio adagio imparava a conoscer la vita.
Staccato dalle mammelle della madre, una morella elegante che lo mordeva sui fianchi quando la poppava con troppa forza, era stato preso una volta nel vortice di groppe irsute, trascinato fuori dall'ombra fitta delle grandi piante, aveva visto davanti a sè un gran mare di luce e di verde, un mare che l'invitava a tuffarvisi colla voluttà dei colori e degli odori.
In mezzo a maschi alti e ringhiosi, che, al contatto dell'erbe lunghe e fresche, mettevano il muso fra le zampe anteriori e sparavano all'aria coppie di calci giocondi, dimenticate le giumente dall'occhio spaurito che i grossi cavalli colle pupille fiammeggianti solevano azzannare pel collo a sommo della criniera ondeggiante come le chiome della tamerice, s'era lasciato condurre dall'ondata folle della mandria incontro alla libertà inebbriante e sconfinata della pastura libera.
La mandria galoppava tra le stoppie altissime verso il prato dove luceva la pozza d'acqua salmastra ed egli stentava a seguirla barcollando sulle zampe lunghe, scuotendo la cervice riccioluta da cui il ciuffo bipartito gli velava ogni tanto gli occhi con un'ombra che lo spingeva a scartare bruscamente per paura dell'ignoto; poi si fermava, erti gli orecchi aguzzi, ascoltando, e tentando di raccapezzar qualche cosa in questo caos di colori e di romori che è il mondo; e udiva benissimo gli urli sordi, le rombe possenti come di tuoni lontani del mare a lui sconosciuto e vedeva alla linea lontana dell'orizzonte passare e ripassare delle strane fantasime, le piante scapigliate dal libeccio che si disperavano al vento.
Crebbe così libero e inconsapevole, timido e selvaggio; seppe la dolcezza della pastura, il furor della rissa quando i vecchi puledri si battono ringhiando con dei rivolgimenti di groppe più rapidi del lampo, a morsi e a calci, per l'odore di qualche giumenta che galoppa nel prato opposto separata da loro per mezzo della staggionata alta, conobbe il terrore della bufera, l'abbacinamento della folgore, lo schianto secco come di una gigantesca frustata che laceri il gran velario delle nuvole, la fuga al riparo sotto le querci spinto coi giovani innanzi a colpi di muso dalla mandria furibonda lanciata a un galoppo di tregenda, gli zoccoli allungati e riuniti col ritmo stesso del mostro nero fuggente e fumante, sulla prateria che palpita commossa simile all'onde dietro la vela.
Poi una notte, mentre un arco di luna, cereo, tranquillo, pendea tra due fiocchi di bambagia dalla nera profondità gemmata di stelle, e per le prata sinuose di ondeggiamenti molli, come di flutti rigonfi immobili per incantesimo, riposavano in gruppi oscuri i cavalli bradi, sentì il desiderio di saltare lo stecconato e, urgendolo col muso, protendeva il collo flessibile verso la stoppia di fronte dove una giumenta ascoltava, ferma sulle quattro zampe, la coda pendula che strascicava sull'erbe, la criniera abbandonata che non increspava alito di brezza, gli orecchi aguzzi voltati dalla sua parte e gli occhi che, spettrali, balenavano specchiando, nel girarsi, una stella.
Allora sentì che dentro di lui accadeva qualche cosa di strano e d'ignoto, le gambe nervose cominciarono a tremargli convulse, aprì le froge, soffiò con forza bava e sospiri, scoprì i primi denti, fece l'atto di slanciarsi contro l'assito, vi appoggiò le zampe anteriori, vi sdrucciolò sopra, ricadde coi quattro piedi sull'erba e sollevando il capo alle stelle per tre volte lungamente nitrì.
La giumenta rispose; i cavalli bradi eressero le teste aguzze nel buio, un cane lontano abbaiò disperatamente alla luna.
E appena fu l'alba sul prato che si dipingeva di viole e di rosa, l'uomo entrò come un fulmine, sulla grande giumenta dalle forme snelle; arrivò di galoppo inchiodato fra gli arcioni della sella bestiaia, coi gambali di pelle di capra, la casacca di bufalo, la pipa in bocca, l'enorme pertica in pugno.
Il cavallino galoppò dietro alla giumenta, mentre la mandria correndo si sbandava urtandosi, incontrandosi, montandosi l'un l'altro addosso in abbracciamenti strani colle zampe incerte che ricadevano; galoppò a distanza scrutando coll'occhio inesperto la grande asta che l'uomo bilanciava nel sole, poi nel cielo azzurro un gran serpe si snodò velocissimo; una stretta dolorosa, uno strappo, un inciampicone e il cavallino morello giacque vinto sull'erbe, mentre da ogni parte altri uomini accorrevano sobbalzando sulle giumente, si precipitavano a terra, lo immobilizzavano con venti mani artigliate, e un dolore feroce, cocente, indicibile gli si imprimeva nel fianco rotondo da cui esalava odore acre di pelo strinato e di carne abbruciacchiata.
E lo stallone, col marchio impresso della sua buona razza, rimase lì, sotto il sole ormai ardente, coll'occhio torbo da cui scendevano lente lagrime amare, guardando sparire la bella giumenta complice e schiava dell'uomo che lo aveva ingannato così.
Dov'era la bella giumenta, quando l'uomo a viva forza, appoggiandosi al garrese, balzato sulla groppa del recalcitrante, stringendogli i fianchi colle ginocchia aspre fino a mozzargli il respiro, lo tempestava col nerbo rigandogli il pelo irsuto, mentre l'aria tagliata dalla corsa furibonda fischiava d'intorno come quando impazza scirocco?
Così, mal domo ancora, coll'acciaio duro cacciato fra i robusti picozzi, il bel puledro morello pomellato di macchie bizzarre disegnate a pena sotto il pelame ribelle, divenuto sicuro, scappatore, un po' sitoso, pronto ad inalberarsi e darsi al saltamontone a un fiato di cavalla, colla coda a tromba, l'incollatura in arco, l'arresto elegante, fu condotto alla tosatura.
La forbice crudele tagliò quei riccioli bruni, difesa dall'incostanza dei venti nelle notti di riposo senza riparo, corresse la criniera capricciosa come i ciuffi di tifa, scorciò la coda terror di mosche e di tafani azzurri.
E poi che lo scatto del puledro era potente, il galoppo serrato ed unito, l'ambio vastissimo, fu chiamato "Baleno".
Ma nessuno, fuori del bùttero che l'aveva domato, potè mai azzardarsi a montarlo senza far conoscenza col terreno, e perchè il bùttero era tutto nervi ed ossa, adusto dal sole e dal vento come la pelle degli otri posti a seccare, dovè accompagnare Baleno in uno sconquassato vagone dove l'uomo e la bestia, tra gli scossoni del treno, sonnecchiavano sognando le lande luminose abbandonate.
Per quanto?
Cavallo e fantino, storditi e disorientati, ritrovarono sè stessi sulla grande prateria di smeraldo, cinta in giro di stecconate celesti, di là dalle quali si pigiava fremendo la moltitudine ansiosa.
E come i cavalli furono in riga, oscillanti, e i piccoli uomini vestiti di seta rossa arancione turchina schioccavano le palme sui colli nervosi per placare la volontà di gettarsi avanti, qualcuno abbassò una bandiera e le redini s'allentarono a un tratto.
Fu una vertigine di volo, e nel terreno fresco per pioggie non remote le orme dell'unghie calde de' cavalli di razza s'affondavano come colpi di pali ferrati; così cavallo e fantino, colle teste protese, avvicinate nell'ansia della gara, rovinavano in mezzo agli schizzi potenti del terreno che trentadue zoccoli avventavano in aria urtando la pista sulla quale parevan sospesi.
L'urlo della folla alla prima voltata fu come il vino che inebbria, la bocca docile sentì trattenersi, la spalla che non ancora sudava sotto la criniera arruffata s'avvicinò allo steccato, poi il morso tornò lento tra i denti verdastri, le zampe deretane springarono come due suste d'acciaio liberate dai vincoli, l'occhio s'iniettò di lampi sanguigni, il ciuffo bipartito alto ora nel vento lasciava scorgere lo spazio libero innanzi e Baleno vi si precipitò furibondo.
Accanto era l'ombra del grande cavallo inglese....
La testa! Oltrepassarne la testa, dominare, per sè solo, la gran distesa verde, lasciarsi alle reni il respiro enorme, il romore frenetico di sette uomini e di sette cavalli....
Il collo di Baleno scattò di tra le spalle come il capo del serpe aggrovigliato alla pianta, s'allungò disperatamente insieme colle quattro zampe nervose e, sulla seconda voltata, spuntò nero fra i colli rossicci de' concorrenti inclinati l'uno sull'altro quasi per un prodigio, sorretti in equilibrio da una forza soprannaturale, e in mezzo all'urlo folle che s'espandeva sull'ampio prato sotto il gran sole di maggio, gli otto cavalli scalati ormai l'uno dietro l'altro, Baleno in testa, sparirono confusi in un insieme multicolore di nerbi di giubbe e di criniere.
Ah! come triste la pupilla del cavallo selvaggio interrogava più tardi nell'ombra tiepida della stalla, fitta di gente silenziosa e affaccendata, il suo bùttero adusto colla giubba di seta sanguinosa, e come fu eloquente in questo il desiderio di ritornare sulle spiagge róse dallo scirocco afoso e dal libeccio fresco, insieme col suo stallone azzoppito!
Cosa importava se Baleno non avrebbe serbato altro che il suo solo gran nome, ricordo di quello che fu? La razza rimaneva; era il cavallo generoso il quale aveva nel suo oscuro istinto, alimentato da avene di pasture eccellenti, la forza della vittoria, era lo stallone il quale avrebbe potuto perpetuare una stirpe meravigliosa....
Il fantino spogliò con un respiro di liberazione la giubba di seta e calcò sulla fronte bassa e sfuggente il cappelluccio verde da cui spuntavano i riccioli irsuti, simili a quelli che un giorno lontano eran caduti a Baleno sotto le forbici del tosatore che le menava, cantando di gioia, a tondo sulla schiena del puledro impastoiato, fremente dalle orecchie alla coda come un nervo teso.
Il bùttero indossò la cacciatora di frustagno, tolse dal carniere ampio la vecchia pipa grommosa e vi cacciò, a ricordo, la giubba di seta insanguinata; poi si rinchiuse, con cuore più lieve, insieme col suo cavallo zoppo, nel vagone sconquassato dove l'uomo e la bestia, fra gli scossoni del treno, sonnecchiarono ancora risognando le lande luminose abbandonate.
Ma ora correvano loro incontro; l'aria salsa della maremma si faceva sentire, già le grandi nuvole veleggianti sul cielo sconvolto annunziavano la vicinanza dell'acque; ecco le prata, ecco le mucche, ecco le bufale che mugghiano lente alla vaporiera strisciante tra i pini che trattengono prigionieri i lembi stracciati del fumo; ecco la romba sorda lontana a cui risponde dall'alto il grido atroce della cornacchia, ecco le mandrie che pascono, ecco la galoppata dei puledri, colle criniere agitate come le ciocche della tifa o delle tamerici, girare intorno ai prati all'avvicinarsi del treno....
L'uomo dal grande sporto spalancato del vagone, appoggiato perdutamente alle sbarre di ferro, colla pipa accesa in bocca, contemplava cogli occhi umidi.
Ecco il canale lucente sopra al quale si curvano i cignalotti Aquilani finchè la febbre non li fulmini sugli argini molli, ecco i vergai forti in sella fra mezzo l'armento che ondeggia come i cavalloni, ecco in una lieve depressione del piano la vergheria colle sue lavorazioni, coi suoi impostìni, colle sue casette, ecco un cacciatore colla nicchia a tracolla, ecco la macchia nera fremente, formidabile, ecco le lande, ecco il mare!
E Baleno premè di nuovo collo zoccolo ferrato l'erbe rigermogliate là dove aveva stampata l'orma greggia e in giro al largo staggionato mandò il fiero saluto a cui fecero eco i cavalli bradi che ringhiavano in crocchio sotto l'olmo solitario, le puledre che caracollavano sotto le querci, i vecchi che sognavano in mezzo alla stoppia.
Fu re.
Gli portarono le giumente dall'occhio di fiamma, nella primavera calda quando i giovani puledri condotti alla scrinatura empiono come di risate squillanti la vallata ed il monte. Fu re: quanti alberi si contavano all'ingiro del suo reame ebbe figli: sauri, roani, morelli, bai, pomellati, stellati, macchiati, balzani....
Io lo vidi. Contro il fiammeggiar d'un tramonto lo stallone pascolava in cima d'un colle, senza vincoli, ignudo.
A un soffio di maestrale alzò la testa aguzza. Il bùttero, appoggiato con un braccio all'alto garrese, guardava nel vuoto con beatitudine stanca e il gran cavallo nitrì.
Allora, da tutte le parti, dalla foresta vicina al mare invisibile che sciacquava lontano, le puledre e i giumenti risposero; tutto il cielo fu pieno dei tremoli acuti richiami del grande armento di bronzo il quale si riuniva sulla sterminata radura in uno sventolare incessante di code e di criniere come per esser passato in rivista dai due campioni, umano ed equino, della razza gagliarda e randagia che soli governano i venti.