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IV
Al cimitero dissi alla comitiva che non mi aspettassero quella sera, perché non era prudente dormire nella camera d’un morto; ma la signora Brigida fu presta a offrirmi il letto di Gioconda, che sarebbe restata qualche notte da una sua zia, un buon letto grande ed elastico. Risposi che aveva già data parola al signor Leonardo, il droghiere, e mi sbrigai, lanciando un’occhiata alla Gioconda, che si fece rossa rossa come innanzi al riverbero d’un fornello. Da molto tempo supponevo che la fanciulla avesse una brace sul cuore per me, sebbene Marcello non tirasse tanto alle gonnelle, e osservandola bene, mi pareva che quel suo volto di cacio fresco, circondato da capelli più rossi delle barboline del formentone, non fosse privo d’una certa espressione malinconica, propria d’una donna che peli cipolle.
Li lasciai dunque con una buona bugia e presi la mia strada verso la casa del Lucini, dove aveva fissato di arrivare, senza dare nell’occhio. Forse il mio pallore insolito, le mie parole più spicciative e più che tutto quel tabarro col cappelletto verde, lasciarono nell’animo dei signori Tanelli un malcontento indefinibile, una confusione, che non si sapevano spiegare. Voltandomi dopo trenta passi, li ravvisai ancora fermi nel mezzo del viale, colle candele strette nei fazzoletti bianchi, babbo e mamma alle costole di Gioconda, che s’era fatta restia, e che metteva qualche dispettuccio. Se ella piangeva non era certo per pietà di quel sotterra, ma pel modo riciso, onde avevo rifiutato il suo letto elastico, nel quale forse aveva preparato uno stregamento. Cara questa frinfrina! s’è fitta in capo che io bruci per lei, e babbo e mamma, nell’idea di un partito, soffiano sul fuoco; ma quand’è che l’ho degnata d’uno sguardo poetico? chi è che pensa alle barboline di formentone? Marcello, figliuola mia, è foderato doppio ed ora ha tra le mani una matassa sì aggrovigliata, che a trovarne il capo è un miracolo.
Lucini abitava una camera presa a pigione per un mese in una casa a mezzo il Corso, dove calano d’ordinario a frotte quegli uccelli di passaggio, che una volta si chiamavano virtuosi e che oggidì fanno senza anche del nome; tenori e prime donne e impresari, che il vento spazza via e porta qui, a seconda della stagione. Giova sapere che un giorno prima di morire, egli mi aveva mandato a cercarvi delle carte e che, premendogli nel peggior caso, che la sua morte restasse nascosta, mi aveva pregato di andarvi verso sera, nel suo [86] mantello e col cappelletto verde, che saltava subito agli occhi, in modo da evitare ogni cicaleggio colla portinaia. Costei, che in quel porto di mare non soleva guardare per la sottile, non conoscendo il Lucini che all’ingrosso, per averlo veduto due o tre volte, mi lasciò passare e ripassare senza scompaginarsi dalla sua poltrona rossa. La scala era libera, il cancello sempre aperto ed essendovi in quella casa due o tre magazzini, pare che la gente si curasse da sé. Come la prima volta, passai franco anche la seconda, anzi meglio, perché la signora Paola, riconosciuto il mio cappello, mi chiamò presso alla gabbia di vetro posta nel vano della scala e mi disse:
– Signor Violino, hanno portato questa lettera per lei.
Là sotto era abbastanza buio, perché io potessi sembrare un violino, e la sera, che nelle giornate d’inverno non si fa tanto aspettare, dopo quel lungo tragitto fino al cimitero, e una fermatina che feci, per mangiare un boccone, scendeva a tempo a scombuiarmi la fisionomia.
– Grazie e buona sera, madama, – dissi, voltando le spalle, e adattando la voce a un accento stretto; salii pian piano le scale, col muso sulla soprascritta, soffermandomi ad ogni pianerottolo, per levar ben bene il disegno della casa. Al primo piano un magazzino di camicie, con tanto d’iscrizione francese sul vetro e una stuoia sulla soglia con scritto Willkommen; in fondo d’ogni pianerottolo, un uscio riusciva in una corte quadrata, circondata tutta all’intorno d’una ringhiera libera, per tre piani, con molti altri usci abbastanza eleganti, specialmente nei fiocchi dei campanelli.
All’altezza del primo piano giungeva un’invetriata, coperta da un retino di ferro, una specie di cupola schiacciata, che ricopriva tutta la corte, ridotta a sala di scherma.
Sulla ringhiera del secondo piano un pappagallo verde, alzando una gamba dopo l’altra, ripeteva una parola inglese, che aveva l’aria d’una contumelia per chi d’inglese ne sapeva meno di lui. Una voce di donna gorgheggiava le scale sul pianoforte: un vestito di seta, con tre spanne di falpalà, era disteso sopra la sbarra innanzi a una porta, dove aspettavano d’essere introdotti una scopa e un inaffiatoio. Un signore, grasso, col bavero di pelo come il mio, mi passò innanzi, fumando un enorme trabucos; una bionda uscì e sparì; al primo piano tre signore cicalavano in francese, tutte cose importanti, ch’io osservai colla curiosità d’un fanciullo nuovo affatto del mondo. Marcello sognava già avventure, che la mamma e il babbo non dovevano sapere.
Entrato nella camera, essendo le griglie socchiuse, mi accostai tentoni alla finestra, le spalancai, per rifare l’aria, spingendo nello [87] stesso tempo l’occhio a sinistra giù giù per la lunghezza del corso fino alla colonna di San Babila, e a destra alla schiena larga e bigia del duomo, di cui vedevo mezzo finestrone e la cupola coll’aguglia, profilata e rarefatta (se si può dirlo) da una nebbiolina, che pugnava ancora cogli ultimi colori del giorno. Sull’angolo di Campo Santo splendeva già una lampada, che spiccava, fra la nebbia d’un lume freddo, vicino al rosso; un lumicino, piccolo come una lucciola, si vedeva avanzarsi, soffermarsi, ridestare altre fiamme, incontro a un’altra lucciola, che veniva in su; anzi una lampada rispondeva già da San Babila e intanto la folla, col solito bollichio, batteva in due correnti contrarie i marciapiedi, lasciando nel mezzo un selciato umidiccio ai carri e alle carrozze.
Chiusi i vetri con quell’esclamazione dei provinciali: – È un gran Milano!
Stetti un po’ sospeso sul da farsi, grattandomi la zucca come smarrito e smemorato, in cerca di quel filo, che mi aveva condotto fin là e che per un momento mi si spezzava in mano. Dopo mezzo minuto una risoluzione era presa, cioè mi chiusi in camera con due giri di chiave, parendomi così di uscire da un brutto pericolo. Viste a spiccare innanzi alla specchiera, posta sul camino, due candele ritte, come sentinelle, presi la seconda risoluzione di accenderne una; dalli, dalli, ci consumai addosso dieci zolfini, perché, essendo una candela vergine, la fiamma non voleva attecchire. Si sparpagliò finalmente un bagliore per la camera, che ricadde subito in una quasi oscurità, perché il lucignolo non voleva lasciarsi mordere, luce e tenebre, che a un poveraccio già timido per natura, avevano un non so che di malauguroso. Tenendo gli occhi fissi a quel barlume, che andava prendendo anima e corpo, al tornare della luce netta, vidi oltre la candela il Lucini, pallido, immobile, che mi guardava, cioè mi rividi nello specchio. Il mio volto quella sera non era men bianco del suo, gli occhi solamente meno vivi e le guancie più fatticcie; egli aveva due baffetti neri, io no; i suoi capelli erano ricciuti e scappavano di sotto al cappelletto verde in una bella zazzera; i miei egualmente neri, ma rasati alla canonica. Forse eccedevo due dita la sua statura, ma se mi rannicchiava un poco nelle spalle, con quella stanchezza e floscezza, che in Lucini pareva natura, la differenza per un occhio distratto era invisibile. Queste attenenze spiegavano meglio l’inganno della portinaia e per rispetto ai baffetti e alla chioma qual è l’uomo, che non possa disporne liberamente?
Con un raschio di voce richiamai a sé Marcello, che cominciava a venir meno, e poiché la fortuna mi aveva messo in quel ballo, [88] era meglio ballare con disinvoltura, anzi che cascare sulle gambe, dopo una sacra promessa fatta al buonanima.
Lungo la parete di fronte al caminetto (fra la cenere giacevano due legni abbruciacchiati) stava il letto, poi una greppina, coperta di teletta a fiori, colle sponde rivoltate e frastagliate a coda di delfino, in terra un tappeto forse troppo spelacchiato; fra il letto e la greppina un portapanni massiccio, ramoso come una quercia sfrondata e irrigidita; a sinistra dell’uscio un canterano con la bella pietra di marmo e sopra una cappelliera di cartone a righe rosse, un astuccio di violino e un paio di guanti raffrignati; alcune sedie, una poltroncina imbottita presso il camino, e innanzi alla specchiera, sospesa al muro l’orribile morte del conte Ugolino, che coi capelli irti stringendo un ginocchio per la fame, cominciò a pigliarsela con me.
In un angolo buio, fra l’uscio e il camino, una cassa lunga, tutta d’un colore, disgustosa a vedersi; fra il camino e la finestra una scrivania, a’ piedi del letto due scarpe rivolte verso l’uscio, una pipa sul camino, della musica sopra una sedia, eccetera. Meno il mobilio, il resto apparteneva al povero Lucini; sua quella borsa del tabacco ricamata in perline d’argento, suoi quegli scritti sulla scrivania, sua quella cravatta appiccata alla maniglia della finestra; mi pareva che quelle scarpe lo aspettassero, che quella cassa... non parliamo di quella cassa.
Suonarono sei ore, solenni, più che le ore fatali del teatro Commenda e, per canzonare la paura, mi provai a ridere e rideva veramente, mentre sospendeva il mantello a un ramo del portapanni e di sopra il cappelletto, che ricadde colla tesa sopra il bavero, dando così la linea del Lucini, visto di dietro nelle giornate più rigide. Forse aveva sbagliato a venir issofatto quello stesso giorno, con tante memorie fresche, ma vedendo che il tornarmene via avrebbe dato pretesto alla portinaia e ai vicini di arzigogolare sul mio conto, pensai di accendere un po’ di fuoco e di rifare il disegno di quell’avventura. Sentendomi alquanto impacciato nelle mani, guardai e vidi la lettera ricevuta poco fa alla porta, e che avevo dimenticato nella confusione della mente, né più né meno che uno dimentica le dita, quando non le adopra. Accesi il fuoco con due querciuoli raccattati in un angolo del camino, e lo schioppettìo delle fiamme mi tenne un po’ di compagnia. Ecco la lettera:
[89]
Stante che Ella mi ha scritto che ha dovuto partire per l’improvvisa malattia di suo padre, visto che sono tre giorni che le circostanze non gli permettono di ritornare alla sua obbligazione verso di me, credo opportuno e necessario, in vista della mia presente attualità, d’avvertirla che io a malincuore ho dovuto sostituire un altro violino, che non accettò, se non in quanto io gli prometteva la scritturazione fino a stagione finita. Per il che la sciolgo da ogni legame, sperando che Ella, in vista del danno che la sua assenza mi reca, non vorrà esigere gli arretrati di questo mese.
Passando a salutarla, mi dichiaro col massimo rispetto
suo devotissimo servo
Cav. Emanuele Gangamela».
Era l’impresario, al quale io stesso il giorno innanzi, in nome di Lucini, aveva scritto una buona scusa, per impedire ogni seccatura; ma il signor cavaliere non si era perduto di spirito e dolce dolce mi rubava venticinque giorni di stipendio. Non so dire quali rapporti avesse il titolo di cavaliere con queste abitudini.
Le gambe distese, le mani in tasca, il capo ritratto nell’abito, tenevo gli occhi fissi nella rosa irradiata dalla fiamma della candela, che si gingillava nello specchio, e così seguitai a rimasticare il perché e il per come io mi trovassi in loco et foco del quondam benedetto. Il Lucini aveva svelato al gentilissimo signor delegato, che nel portafogli, oltre a poche lire, v’era il ritratto di una donna, e la notte prima che morisse, presentendo forse la brutta smorfia, chiamatomi a sé, mi aveva detto: – Signor Marcello, amo questa donna; l’improvvisa notizia della mia morte le sarebbe troppo fatale; mi fido a lei, perché a tempo opportuno le annunci...
E dopo un istante ancora: – Signor Marcello, ho di mio un capitale di sette mila lire in libretti di risparmio: li troverà nel mio baule insieme ad altre carte. Non ho parenti al mondo, e quei denari devono pervenire segretamente nelle mani di quella donna: ella sola è l’erede, nessuno però lo sappia... Povera Marina!
Cominciò a piangere e, non accorgendosi che io aspettava indicazioni di maggior rilievo, si perdeva in parole vane, in querimonie che laceravano il cuore, pregandomi sempre con lo sguardo tenero e lungo di non tradire le sue raccomandazioni. Il nome di Marina, [90] come se fosse divenuto facile a quelle labbra per l’abitudine di pronunciarlo, consolò l’agonia di quel derelitto.
La camera era rischiarata da un lampadino a olio, velato da un cerchio di carta verde e posto in terra dietro la testa del moribondo. La fantasia si aggirava in quell’aria verdognola con l’instabilità di un pipistrello che vola, impaurita dai fantasmi, che si appiattano sotto al letto di chi muore; negli spigoli e dietro i mobili si rannicchiavano ombre angolose popolate di spaventi, e lo scricchiolio di un mobile, che urtava quel silenzio notturno, largo, diffuso fino agli estremi limiti dell’orizzonte, pareva che mi sospingesse a rovescio il corso del sangue. Quella fu la gran notte di Marcello. Alla vista d’un povero figliuolo, che moriva davvero, col nome di una donna sulle labbra, tutte quelle vecchie idee, che da molti anni mi corazzano a guisa di squame contro gli eccessi del bene e del male, si levavano ad una ad una, lasciando a nudo la natura. Nasceva perciò nel mio capo una babele, una sordia, come se una mano vigorosa agitasse un branco di sassolini in una zucca; e nel cuore, in questo cuore alla buona, entravano per la prima volta sentimenti straordinari. Nel genere umano, tanto citato sui libri e sul pulpito e che solevo considerare all’ingrosso, non più che un formicolaio di vivi, esisteva adunque anche la donna? La donna! – ne aveva vedute moltissime in campagna, ravvolte nei loro fazzoletti neri, in ginocchio presso il confessionale, o all’altare della madonna, biascicanti una corona: la signora Brigida e la Gioconda mie vicine, per paura, non osavano accostarsi al letto del morente, ma pregavano certamente per lui. Ecco là mia madre, una donnetta del Signore, un vero tesoro per la famiglia, che non perdeva mai di vista le vigilie d’olio, le mie calze nere, la libbra di cioccolatte pel suo prete, i quarti di luna e le loro influenze sulle uova e sulle galline. La Mariona serviva da trent’anni in casa mia, e non v’era certamente al mondo una persona più sincera; non diceva mai una cosa per un’altra, neppure a’ suoi padroni, e così perdute nei tempi e nello spazio ricordavo tante altre buone zie e sorelle, per le quali Marcello chiudeva in petto affezione, riverenza, stima; ma poesia, buon Dio! poesia, no.
Perché dunque il nome di Marina quella notte chiamò le lagrime su’ miei occhi? donde sbucavano queste imagini color d’aria, che attraversavano le meditazioni di Marcello, nell’atteggiamento di sante e di angeli scappati giù dai loro quadri?
Povero Lucini! non aveva conosciuto nessuno dei suoi parenti e a sette anni (così mi raccontava spesso) s’era smarrito girondolone per le vie di Parigi, con un violino e quattro canzonette napoletane, finché raccolto da una brava persona in un conservatorio, e fatto [91] educare, solamente da tre anni aveva finito di pagare le spese del suo benefattore. Viveva del suo lavoro, accettando ogni occasione, risparmiando fin l’aria; ma non aveva altro nome, che gli fosse caro il ricordare, nemmeno quello del suo benefattore, che a conti giusti, aveva guadagnato il trenta o il quaranta per cento sulle spese.
Quando, interrompendo una cavatina, si fermava a discorrere del suo passato, un malinconico sorriso gli scorreva a fior di labbro, i suoi occhi illanguidivano, si faceva pochino nelle spalle, pauroso di trovarsi tanto solo nel mondo; allora era necessario che si abbracciasse al suo violino, che ritornasse al lento e al concitato dei tempi, perché la pover’anima riconosceva quella voce e le rispondeva. Si lasciava cadere dietro le note morenti, si rizzava al tornare della voce e gli occhi scintillavano all’incontro d’un accordo prediletto e venivano a illuminare i tuoi, a dirti il segreto di tante belle cose, che esistono nell’universo; tornava il sangue alle sue gote, socchiudeva gli occhi, respirava colle labbra schiuse quell’aria tutta sua, scuoteva i capelli come un re sdegnato, urtava la testa contro gli aggrovigliamenti delle crome, e snodava colla mano sinistra, magra, nervosa, elettrica e se nell’ardore della musica una corda per caso scattava, Lucini impallidiva dello spavento. Questa era l’anima; egli stesso però confessava di sentirsi molto pigro nelle mani, che odiava, specialmente la sinistra. Quando si metteva a leggere una pagina difficile, la rimproverava, la stuzzicava colla voce, la copriva di vituperi, di lodi, di bestemmie napoletane graziosissime. Quelle mani ora sono troppo pigre.
Di Marina non aggiunse altro, se non che l’aveva conosciuta a Venezia; ma se le sue carte non cantavano più chiaro, come uscirne?
– Eccomi qui! – dissi a voce alta per svegliarmi da quella sonnolenza pensierosa, in cui ricascavo volentieri; ma il capo, volere o no, seguitava a inciampare nei ragnateli. – Cos’è la vita? meno sicura e solida di quelle due scarpe, che aspettano inutilmente. Egli dormì tre giorni fa in quel letto...
Voltandomi un po’, vidi che il letto era ancora sfatto, colle coltri cascanti, il piumino rivoltato, i guanciali in croce e nel mezzo di quel poltriccio un solco, che pareva lo stampo d’una statua di gesso. Non avrei dormito là sotto, certo certo, e poiché la mia poltroncina mi offriva un buon capezzale, mi pareva migliore starmene quatto, finché il sonno venisse a portarmi via. Ma come dormire? Man mano che il tempo passava – e passava adagio – la camera diventava più tenebrosa e i mobili scricchiolavano di più. A volte vedeva una mano bianca posarsi sulla spalla sinistra e Marcello avrebbe dato la testa, piuttosto che piegarsi a guardare; tal altra un uomo intabarrato [92] mi aspettava in un angolo, con un sacchetto sotto al braccio; ora seguitavo una ruota, che andava da sé per vicoli e straducole e calli e chiassuoli, e vedeva l’ombra saltellante del signor Gaspare, e la Gioconda co’ suoi capelli rossi come le barboline del formentone, e il signor Placido, che spennava un pappagallo inglese e Marcello nello zimarrone tané, che, venendomi incontro, mi raccontava una lunga e ingarbugliata storia di Gioconda e di letto elastico. Erano sonnellini brevi, che a dispetto di ogni sentimento succedevano alle fatiche del giorno; ritornava in me con una scossa, ricadeva, e così per un pezzo, finché tra un tintinnamento di campanelli sentii chiaramente: – Signor Lucini! – e un picchio allo stomaco. Giuro che non sognavo in quel momento, sebbene avessi gli occhi tra i peli e come affumicati.
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