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VII
Il signor Leonardo droghiere, venuto a Milano nel ’54, aveva la sua bottega nelle vicinanze di porta Vigentina, quartiere un po’ solitario, che conserva ancora un’idea di borgo, e posto quasi sulla strada delle più grosse possessioni dei nostri affittaiuoli. Sei dì la settimana il commercio del signor Leonardo era scarso, sebbene perenne come l’acqua d’un buon fontanino; ma al sabato, quando passano le carrozze dei ricchi campagnuoli, col loro villano a cassetta, in cravatta bianca, col cappello a nappa e le mani sporche, al sabato nessuno può fare i conti di quel che il signor Leonardo guadagni sullo zuccaro, caffè e altri generi.
La bottega ha una meschina apparenza, un po’ all’antica, ma non importa: dalla inferriata del voltino pendono le candele di legno, che hanno fatto lume a una dozzina di padroni, e la mostra sembra un confessionale messo là sul passaggio. In questa vetrina c’è un po’ di tutto: un vaso di biscotti sempre freschi, per gli ammalati; due vasi di confetti e di caramelle per la tosse; un altro pieno di stecchi; due pacchi di candele steariche, sospese in bilico ai lati d’un pane di zuccaro; scatolette di colori ordinari per i fanciulli; candelette per altarini, liquirizia in legno e in pasta, per tirare i fanciulli che passano; lamine trasparenti di colla di pesce, attraverso le quali il signor Leonardo può vedere il mondo a scacchi rossi, verdi e gialli; fiaschi impagliati, caffè di ghiande e mosche morte.
La bottega non è più grande d’una diligenza: una panchina presso l’uscio per gli amici, tre botticelli sopra un trespolo, fasci e rotoli di cordame raggruppati negli angoli, o pendenti come lasagne insieme alle torcie a vento del soffitto; sacchi di caffè, di zuccaro, e risme di carta greggia a mucchio; casse vuote, tirate in piedi, assicelle sopra mensole, ingombre di barattoli, di cartocci, di scatole, di bottacci, di imbuti; il banco, una piccola madia, un leggío sotto la finestra, un barile di turaccioli e cento altre cianfrusaglie lasciano appena un viottolo al padrone, che per passare fra il barile e il banco deve alzarsi sulla punta dei piedi e stringer il ventre.
L’odore che predomina è quel misto, che risulta dallo zafferano e dall’aceto: però una volta la settimana si tosta il caffè e allora si spande per tutto il corso un soave profumo. Il signor Verga, ombrellaio, cioè quel mio vicino del secondo piano, che ha la bottega a dieci passi dalla drogheria, in quest’occasione fa una visita al caro [102] signor Leonardo, che in pantofole, e in calotta, gira solennemente il tostino. L’ombrellaio viene ad assorbire un po’ di quel profumo poetico, a far quattro chiacchiere, a leggere i foglietti stampati che il signor Leonardo compera a caso dai librai per uso del lucido e dei generi comuni, o a dargli una mano, se il droghiere sia costretto a troncare a mezzo la cottura. Il caffè va abbronzato tutto eguale, perché se la grana è zoppa, prende il sapore d’acqua di mare.
Qualche volta vien terzo anche il barbiere dirimpetto, che abita una stanzuccia tappezzata, nella quale filtra l’acqua della via: da due mesi il Lella dovrebbe riparare un vetro rotto, ma se può uscire dall’inverno senza metter mano alla spesa, non sarebbero tanti risparmiati? Perciò viene volentieri a scaldarsi le mani sul fornello del caffè o in bottega del droghiere, da dove con le sue mani in tasca e col naso e le labbra schiacciate sul vetro dell’uscio, può da lontano sorvegliare i propri affari. Lella è un povero diavolo, che raccomando a chi passa di là. Egli passeggia molto innanzi alla sua bottega per non rimanere esposto all’aria fissa del vetro rotto e per sentir meno il freddo, che gli gela l’acqua nei bricchi e nelle catinelle. Da due anni veste certi calzoni attaccati alla pelle, strofinati sulle ginocchia, e ripicchiati di dietro, fin dove dovrebbe, per un certo riguardo, giungere la giacchetta color mattone, anch’essa stretta sotto le ascelle, lucida, anzi brunita sul bavero e agli orli delle maniche, con certe striscie di sapone, che segnano il posto della pipa e dei bottoni e che scendono fin sopra le tasche dei calzoni e sui polpacci che egli gratta volentieri.
Si parla in compagnia di varie cose: o della bracina giù in fondo, che sposa un negoziante di legnami: o della Russia che si muove, e della Russia che non si muove.
I topi sono la disperazione del signor Leonardo: rosicchiano i sacchetti di carta dello zuccaro grasso e quando fa per levarli, plaf! – come quello che prese la gallina per la coda e gli restarono le penne.
Il signor Verga, che qualche volta aiuta l’amico a involgere i cioccolatini nelle carte di prima, di seconda e di terza qualità, ha preso a cuore i topi del signor Leonardo e promette, parola d’onore, che in meno d’una settimana li metterà a dovere con una certa trappola a equilibrio, di sua invenzione, stata lodata anche da un ingegnere. Il droghiere per riconoscenza offre quattro cioccolatini all’ombrellaio, sapendo che sono il suo tallone d’Achille e che non vi rinuncierà neppure in paradiso.
Lella fa la questione se vi saranno topi in paradiso e si ride con [103] un certo gusto di miscredenza, che fa sembrare più bello il signor Leonardo, il quale da un pezzo non crede più né ai preti, né ai frati.
Un giorno, di parola in parola, si venne a parlare di me, e l’ombrellaio, che mi conosceva un poco di vista, disse che la mia era stata una brutta disgrazia e che non dovevo trovarmi troppo caldo sotto la neve del camposanto. Egli parlava naturalmente, e credendo, per dirla con lui, di portare nottole ad Atene, supponeva che il signor Leonardo sapesse della mia morte già fin “dalle calende greche”.
L’ombrellaio, tornando a casa soltanto a dormire e colla testa preoccupata, aveva inteso parlare di colpi assassini, di amori fra Marcello e Gioconda, di morto e funerale ed era venuto a una conclusione alquanto inesatta.
Il povero droghiere, che stentava a capire, – Giusto! – esclamò – che n’è avvenuto di Marcello?
– È morto.
– Oh! – Il droghiere voltò le spalle e collocò al suo posto il vaso del pepe rotto.
– Morto, le dico, morto e sepolto da tre giorni.
– Ma che! – Il droghiere sparì dietro il banco per ripicchiare un chiodo, che gli aveva graffiato la pelle. A un tratto si ricordò che sotto la banchina vi doveva essere un fagotto in un fazzoletto turchino, portato due giorni prima da una donna come roba del signor Marcello.
Il droghiere, occupato in quel giorno, non ci aveva pensato più che tanto; ma ora lo tirò di sotto, lo sgruppò e lo sciolse per terra, mentre l’ombrellaio narrava, con una mano sulla coscienza, quel che aveva udito nella corte. Marcello doveva sposare la Gioconda, ma una donna gelosa, certo una donna di perduti costumi, che credeva prendere il merlotto alla rete, aveva pagato perché mi picchiassero tra il chiaro e il fosco in via delle Tanaglie. Forse picchiarono troppo, perché Marcello ne morì: la Gioconda era in agonia, malata di crepacuore; i Tanelli disperati, e il fatto grave, ma grave assai.
Lella non pareva disposto a credere, per la ragione che mi aveva tagliati i capelli la settimana prima; ma il signor Leonardo, vedendo e palpando il mio zimarrone tané, le mie calze lunghe e nere, i miei libri latini e il resto della biancheria, che la signora Brigida, per dispetto, gli aveva mandato alla rinfusa, guardò stupefatto a vicenda il Lella e il Verga.
Ma l’ombrellaio che, giovandosi della comodità, aveva preso e masticava due cioccolatini per volta, tacque e si rannicchiò nel bavero come dicesse: Quel che Dio vuole.
Quella sera il droghiere fu dai Tanelli, trovò infatti la Gioconda [104] malata, ma quando udì le parole amare della signora Brigida, cominciò a cascare dalle nuvole. Raccolse la sua barba nera nella destra e parve riflettere. Il caso era diverso, ma più grave. Le lagrime di una madre, il pallore di Gioconda, i sospiri del sarto da uomo mi accusavano troppo apertamente. Dov’era Marcello? mistero: travestito e fuggito. Chi era questo morto, questo suonatore di violino? a che punto erano arrivate le mie indiscrezioni colla Gioconda? Comunque fosse la cosa, egli avrebbe scritto una lettera di fuoco a mio padre, perché m’insegnasse la legge. La signora Brigida pare che cercasse versare dell’acqua su quel fuoco e pregasse di mettere ogni cosa sotto un piede; ma il signor droghiere, che si sentiva una certa responsabilità, fu inesorabile e scrisse e mandò una lettera di fuoco profumata di zafferano d’Aquila.
Marcello fra tanti raggiri, fatto giuramento di non tornare più vivo, si chiuse nella camera del povero Lucini, non uscendo che la sera tardi per un po’ di desinare e la mattina di buon’ora per non incontrarsi colla Martina. Ma presto parve tolto anche il pericolo d’essere preso in mala parte da questa buona donna, la quale, incontratomi una sera sulle scale, tutto imbacuccato in una sciarpa di lana, mi compassionò sapendo che a Napoli il clima è un altro paio di maniche.
Fatto sicuro in quella casa tornai al pensiero di Marina. Il nome di questa donna pareva divenuto già abituale alla mia mente, perché anche quando, distratto da altre noie, non vi pensava direttamente, io lo sentiva in modo confuso presente a me, come quel rosicchio dei denti, che non vi lascia mai anche nel sonno, e che si soffre, dirò, quasi di seconda mano.
La storia di Marina mi era nota, avendo frugato nelle carte del defunto: aveva letto molti scritti, e comprendeva la pena, onde era stato sorpreso il moribondo al pensiero di lei.
Tornando quella mattina indietro dai Tanelli, con una voglia rabbiosa di strozzare serpenti, trovai confitta in un traversino della portineria una lettera, di carta sottile, scritta a caratteri minuti e col bollo postale di Venezia. Era diretta a me, cioè al Lucini, che fa lo stesso. La presi con mano tremante e salii pian piano i gradini della scala, soffermandomi a prendere il fiato: un’ambascia, un contento misterioso, una specie di paura, una curiosità immensa, un desiderio d’amore, una pietà profonda confluivano rapidamente e si raggruppavano intorno al cuore. Mi lasciai cadere sul letto stanco e sfiaccolato, colla lettera fra le dita, gli occhi fissi al nome di Giorgio Lucini, e non sapeva distinguere chi veramente soffrisse in me, se io o lui.
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