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IX
In generale Marina nelle sue lettere divaga in confessioni intime, che toccano il mistico, sulla vita delle creature umane, sull’avvicendarsi delle speranze e degli sconforti, sulla mutua intelligenza degli spiriti. Per ora le tengo in serbo, finché mi sia dato di farne un piccolo epistolario ad uso delle anime silenziose intanto non rifinivo di guardarle parola per parola, ingegnandomi di intendere anche quelle cose che di solito vanno perdute nell’inchiostro. Ognuno sa che nelle lettere amorose il bello e il buono è quello che si tace, perché il pensiero infervorato sfugge alle leggi sistematiche della logica, e parla meglio con uno sguardo e con un tremito delle labbra. Passavo alcune ore, muto, a contemplare lo spazio bianco fra le righe, dove erano passati senza posarsi i desideri di Marina, e frattanto davo ascolto a una voce non mia, che mi parlava dal fondo del cuore.
Che uno spirito fosse disceso in me, quasi non era da dubitarne. Anche la Sacra Scrittura parla di spiriti erranti, per non dire dei casi confermati da certe scienze magnetiche e cabalistiche. Se l’anima dopo la morte è libera di sé e può intercedere grazie all’Eterno, quella del Lucini, scendendo nel mio corpo, era meno lontana da Marina e poteva seguitare l’illusione della vita. Che fosse propriamente così chi oserebbe giurarlo? Dico solamente che Marcello sentiva in modo assai diverso e stravagante, che rabbrividiva al minimo soffio d’aria, che vedeva più netto e sentiva quasi l’armonia degli atomi intorno a lui. Non solo, ma in me avveniva anche un conflitto fra due anime, che cercavano farsi posto, e alle quali la respirazione comune quasi non bastava più; le cose mi apparivano doppie, come se per ciascuno degli occhi guardasse un’anima diversa.
Divenni più agile e più delicato nei movimenti, più gentile nel tratto, più concitato nelle parole, e perfino nell’accento io contraffaceva sì bene il Lucini, che qualche volta io rideva di lui od egli di me, o si rideva insieme. Il meraviglioso poi (e qui penso al miracolo) si è che nei brevi giorni da me vissuti in quella cameretta, esercitandomi sul violino, sentivo la mano destra più scorrevole e la sinistra più nervosa ed entrambe agire sulle corde con bell’arte e trarne suoni non mai uditi.
Non posso costringere altri a credermi, sebbene la fede sia fatta per le cose incredibili; ma questa duplice esistenza, che dico, mi appariva specialmente quando io tornava per caso alla mia prima [111] abitazione del numero ventitré. Allora le anime si staccavano come certe fiamme, che si raddoppiano nello specchio; fra quelle pareti umide e allumacate la vecchia anima di Marcello si faceva più avanti, mentre l’altra si ritraeva in disparte. Allora rivedevo il mondo circostante del solito colore sbiadito, mi sentivo contento di poco, tornavo imbarazzato, sospettoso, timido, strascicavo le scarpe. Invece riposando l’occhio sul ritratto di Marina, le pareti della stanza, i mobili, i quadri, il calamaio e i libri pigliavano riflessi di madreperla e di lapislazzuli. La mia era stata una giovinezza pigra fra gente buona e semplice, che si rallegravano soltanto della mia bella ciera e, ripensando a quel tempo, non vedo che nasi lunghi, ribaditi, ricascanti, nasi a rostro, a bomba, a spugna; nicchi o berretti pesti e bertucciati, zimarroni e soprane tané, color pulce, nerigne, cangianti, verdastre, verde pisello.
Il nome di Marina all’incontro aveva in sé stesso e nelle sue vocali non so quale melodia, e a ripeterlo arrossiva fino allo scarlatto, e dormendo non vedevo che lei tra pelo e pelo, fissa innanzi nelle tenebre, come un fiocco di bambagia, e tutti i miei nervi soffrivano una contrazione penosa forse per la dilatazione dello spirito. Ne veniva un’irrequietezza febbrile, un desiderio vago di compiere qualche grande impresa, una strana compiacenza del mio pallore, una specie di concupiscenza del dolore.
Questa era la mia vita artificiale da due o tre giorni, quando mi giunse la lettera di Marina. Dovevo aprirla? Marcello non era indiscreto e sleale contro l’amico? Quel turbamento da cui era preso nel salire le scale e quel tremito delle mani, non indicavano la cattiva azione?
Riflettendo meglio ai casi, vidi che ad ogni modo quella lettera m’avrebbe indicato una via da tenersi per l’avvenire. Non dubitavo più che il Lucini fosse stato ucciso dal marito geloso, e dal modo della lettera avrei scoperto se anche Marina presentisse già prima la sventura. Tremavo nell’aprire il foglio, perché sentivo d’essere innanzi a un delitto, di cui io solo aveva la chiave e anche per la memoria del poverino, cui quelle parole eran dirette e che mi gridava dal fondo del cuore:
– Perché mi tradisci?
Ecco intanto la lettera:
«Amico, cosa significa questo vostro silenzio? Forse vi spiacquero le mie proibizioni e i miei rimproveri. Se è così, voi vi date [112] questa volta per poco filosofo, anzi per poco generoso. Sono sola, lo sapete: nella solitudine io mi vedo meglio e soffro di più. Perché non scrivete una parola a chi ve la chiede in nome di Dio? Mi sono avvezzata a vivere nel vostro pensiero e non mi pare possibile uscire da quest’atmosfera senza morirne. Egli mi ha scritto due volte, e una da Milano: vi è dunque passato vicino e non ve ne siete accorto? Ora è a Napoli e fra sei giorni scrive che tornerà a Venezia. Mi troverà molto invecchiata: mentre vi scrivo vo considerandomi nello specchio e scopro una ruga attraverso la fronte, segno di immatura decrepitezza. Chi direbbe che il mio cuore è giovine? A ventitré anni, mi fermo a meditare sulla morte, come una donnicciuola cadente. Mi pare di essere abbandonata da Dio e dagli uomini e che la città sia un’immensa necropoli; e il mare una tomba senza fondo. «Mio padre è triste più del solito: mi raccontò una lunga istoria, che non seppi intendere bene, perché il filo del suo discorso spesse volte si spezza. Pare che il marito di Anzela, un ubriacone di cattiva fama, abbia voluto sapere il segreto delle molte lettere, che Anzela prendeva alla posta. Perciò, seguitando a scrivere ad Anzela Marzani, mandate la lettera in via del Cavalletto, n. 28; o avete giurato di non scrivere più? Voi siete saggio e forse vi sembra conveniente per mio e per vostro bene troncare una commedia che fa piangere? Nella serenità del vostro giudizio questa donna che vi scrive è cieca a ogni legge morale? è degna più di compassione che di rispetto? È così o è peggio ancora? Scrivetemi almeno addio e lasciate che l’azzurro sfumi in quella tinta bigia che piace al vostro tempo. Chi pensa alle stelle cadenti, se l’ordine delle sfere non è turbato? Ma io non potrò dimenticare e questo sarà il mio castigo. Addio.
Vostra Marina».
Da questa lettera, degna d’un carattere bizzarro e che spirava una disperata malinconia, risultavano troppo chiaramente due circostanze, voglio dire che il marito di Anzela aveva scoperto il segreto delle lettere, e che il Sultano era passato da Milano verso il tempo appunto che il Lucini fu morto. Una poteva essere conseguenza dell’altra, e il filo invisibile che le collegava diventa ora abbastanza manifesto, mi pare. L’avidità di un brutto guadagno (e i fatti mi diedero ragione) aveva spinto quel malvivente a consegnare qualche lettera a un uomo, che per sua sventura non era cieco. Da quanto tempo durasse il tradimento è incerto ancora; ma io ricordo certe notizie date ingenuamente da Marina, quando parla della visita [113] fatta dal marito a suo padre e dello scrigno sotto la finestra e sento di mettere la mano sulla verità.
È impossibile che Marina quel giorno con un battere di palpebra non rivelasse il nascondiglio delle altre lettere e che il geloso, minacciando Anzela, non piombasse su quel tesoro nascosto. Anzela infatti lasciò la casa del vecchio solitario e si faceva credere malata. Marina si lamentava già nelle altre lettere che Giorgio fosse diventato pigro a scrivere, e forse le lettere erano fermate a mezza via: la preoccupazione finta dal ricco speculatore per una perdita di poco momento, era artificio crudele per ritardare e assaporare la vendetta: la sua improvvisa fiducia, la sua partenza e la sua comparsa a Milano, dicevano il resto.
Marcello non si era trovato mai in più brutto imbarazzo, perché tanto il tacere come il parlare potevano riuscire a funeste conseguenze. L’eroe, che tratto tratto si dibatteva ne’ miei panni, avrebbe voluto, senza mettere tempo in mezzo, accusare il reo, farlo arrestare prima ch’egli tornasse a Venezia, liberare la schiava, vendicare il Lucini; ma la mia accusa ne avrebbe tirata con sé un’altra, contro un vecchio solitario, pel quale Marina aveva fatto sacrificio di tutta sé stessa. Ella che aveva pagato colla sua giovinezza un silenzio, ancora per noi inesplicabile, non mi avrebbe ringraziato del servigio; quando anche sì, bisognava dirle, che il Lucini era morto. D’altro lato la coscienza dignitosa non sapeva rassegnarsi a questi consigli della prudenza, molto più che questa vendetta subdola, meditata in un palazzo della Serenissima ed eseguita da mani volgari in un viottolo di Milano, non era finita. Al Sultano che ritornava, puro da ogni sospetto e coll’orgoglio della propria potenza, restava Marina. Chi può immaginare il raccapriccio della donna al suono conosciuto di quel passo? chi può dare una piccola idea del suo spavento alle prime parole dell’assassino? Gli uomini, che compiono ogni sorta di delitti, non hanno inventate tutte le parole per nominarli. Anche il morire non valeva a sottrarre Marina da ogni pena, perché dopo di lei restava suo padre in balia del geloso. Marcello vedeva innanzi a sé questi fatti, che sarebbero accaduti, se Dio non vi poneva un dito.
Stretto fra il sì e il no, presi il partito di mezzo di scrivere alla signora, prima che il marito tornasse. Chi sa? nella disperazione ella avrebbe potuto trovare un rimedio, mentre era libera di sé. Chi le avrebbe impedito di fuggire con suo padre? Cominciai: «Marina, fuggite con vostro padre: egli sa tutto, vi aspetto...».
Mi fermai di botto e deposi la penna che pareva arroventata. Il mio modo di scrivere per verità era goffo e selvatico, e anche le [114] parole nere sul bianco avevano un non so che d’angoloso, che faceva orrore. Con quale autorità mi presentava a lei? Marcello in questo istante mi parve l’uomo più abbietto del mondo; egli si era intromesso fra due anime innamorate, e raccolte le loro timide confessioni balzava oltre con un grido di morte. I polsi del capo martellavano: un sudore freddo mi bagnava la fronte e le mani, e stringendomi la testa fra i pugni, pregava Dio che mi spirasse un buon pensiero. Marina aspettava una risposta, almeno un addio. Se io pronunciassi in nome del Lucini questo addio? il nuovo disegno mi parve migliore. Avrei scritto in nome del Lucini dicendo che, troncando una relazione pericolosa, io partiva per l’America, sperando in un avvenire più giusto; per costringere il geloso a tacere, avrei pensato un mezzo di fargli un po’ di paura.
La mia risoluzione forse non avrebbe persuaso del tutto il cuore di Marina, già inclinata alla diffidenza e al sospetto; ma io, traendo pretesto della venuta del Sultano a Milano, avrei potuto vagamente accennare a un gran pericolo e alla necessità di nascondersi per qualche tempo. Caldo di quest’invenzione pensai il modo di far credere anche alla mia scritturaccia da canonico, ed ecco come:
«Da tre giorni sono malato di febbre e vi rispondo dal letto; perciò scusate la mia scrittura un po’ tremolante. Qualche mia lettera forse si è smarrita per via, e i vostri rimproveri, grazie al cielo, non li merito. Ho incontrato il Sultano, e non so perché sentii rimescolarmi il sangue: quel che voi mi dite aumenta i miei sospetti, e per la prima volta io mi accorgo a qual pericolo, o amica, io vi lascio. Sì, io sono prudente, a mio malcosto; questo è l’ultimo addio... La mia penna trema a scrivere questa parola, e il pianto mi confonde la vista. Vi amo, Marina».
Marcello si arrestò innanzi a questa frase e si accorse veramente di due anime, che si accapigliavano dentro di lui.
«Vi amo, Marina, come avrei amata mia madre, come amo la luce e l’arte, perché sento che l’anima vostra corrisponde alla mia. Piangiamo insieme e inventiamo soltanto per noi la voluttà delle lagrime.
«Se io potessi in questo istante essere ai vostri piedi prendervi ambo le mani per farvi sentire quanto batte il mio cuore al vostro nome, voi non sareste tanto crudele con me».
[115] Il cuore di Marcello batteva davvero, come alla vigilia d’una battaglia, e io non sapeva più distinguere in nome di chi tenesse la penna. Sentivo un impulso ignoto, che mi spingeva innanzi, la mente scopriva con sua meraviglia parole nuove, e concetti fantastici, che avevano del diabolico; i nervi fremevano per un piacere muto e indecifrabile, e superbo della mia missione, gustando quasi l’acre sapore della violenza e della gelosia, scrissi senza levare gli occhi dalla carta:
«La mia è una schiavitù più dolorosa della vostra, perché la riverenza, l’obbedienza e l’onore mi tengono avvinto senza togliermi le lusinghe: essere schiavo di sé stesso è un patimento senza conforto e senza ira. Mi parlate della vostra decrepitezza; o Marina, è impossibile che le anime nostre non siano eterne? non ci siamo noi conosciuti in quell’atmosfera luminosa, fra i raggi puri del sole, e l’infinita estensione del cielo? Anch’io piango...».
Ed era vero. Una lagrima cadde sul foglio e Marcello se ne spaventò, come se altri piangesse in lui. A mente fredda non so ricordare tutto quanto la mano scrisse senza posa in tre pagine fitte; dovevo essere trasfigurato e ancora porto nell’anima i segni di quell’ora.
Mi pare che non scrivessi addio per sempre, perché per un desiderio alcun poco maligno, sperai che gli avvenimenti mi avrebbero avvicinato un giorno a questa donna, né fu una vana speranza, purtroppo!
Lasciai cadere quella lettera in una buca della posta, e fuggendo via, come un ladroncello, girandolai qualche ora attraverso la città, con passo lesto, distratto in mezzo alla gente, che brulicava intorno a me, finché mi trovai nel viale solitario dei bastioni di porta Venezia.
Era sul mezzodì d’una bella giornata, e nell’aria si sentiva una timida fragranza di primavera, o così pareva a me. Il viale era asciutto, ma nei declivi molli e nell’aiuole del giardino pubblico, biancheggiavano ancora alcune striscie di neve: il raggio del sole sopra i rami stecchiti dei castagni si scaldava in una tinta rosea, il colore de’ miei pensieri.
Incontratomi in qualche frotta di persone, mi accorsi al loro vestire che era giorno di festa, e precisamente la Santa Purificazione. Per la prima volta Marcello mancava a’ suoi doveri religiosi e ne chiesi perdono a Dio con una rapida aspirazione verso il cielo [116] limpido e benevolo: mi fermava tratto tratto innanzi un tronco, ne carezzava i muscoli, e alzando gli occhi all’intrecciamento dei rami, e giù abbasso ai nudi boschetti o alla fontana, o alla serra dei fiori, sentiva la vita delle cose e l’armonia dei rumori. Una bambina povera e scalza mi chiese l’elemosina. Que’ piedini lividi, la gonnella corta e i capelli irti e rovesciati sugli occhi mi fecero tanta pietà, che, radunati tre o quattro soldi, li nascosi nel palmo della sua piccola mano gelata. Si chiamava Annetta e questo nome l’ho scritto in una pagina bianca della mia memoria.
Ritornai fra le case, e allo svoltare d’una cantonata, diedi in tre brave persone, che al rivedermi, ruppero in un’esclamazione. Erano il signor Pietro Manganelli, imbiancatore, che mette in opera campanelli, il signor Verga e il Lella; l’ombrellaio si appoggiò al muro e il barbiere restò conficcato sopra una lampada, mentre il più grasso, presomi secondo il solito per un bottone del vestito, mi disse: – Sono contento d’incontrarla, signor Marcello, perché da molto tempo, sa bene, volevo parlarle. Io sono un uomo che, grazie al cielo, vivo del mio, n’è vero? – e qui guardava i due amici, che non cessavano di contemplarmi. Lella, che mi aveva tagliato i capelli due settimane prima, pareva più contento che stupefatto, ma il Verga pensava forse alla metempsicosi.
– So che ella aveva delle intenzioni sopra la Gioconda – disse il signor Pietro.
– Cioè; domando scusa – cominciai – lo dicono, ma non è vero.
– Ecco quel che ho pensato anch’io. Deve sapere che da un anno io tengo gli occhi sopra questa figliuola; sono vecchio... cioè vecchio... non sono più un giovinotto, e la Gioconda sarebbe il deus fecit.
Il signor Manganelli andava intanto raggirando come una vite il bottone del mio vestito; ma era un modo per insinuarsi.
– Che cosa posso fare per lei?
– Lei ha già fatto abbastanza al momento che non pensa alla giovine... cioè giovine... la Gioconda avrà i suoi ventisette anni, n’è vero?
Il signor Pietro rivolse di nuovo uno sguardo a’ suoi amici, che sussurravano in disparte.
– Anzi dirò, in confidenza, che è contenta.
– Chi? la Gioconda? – esclamai.
– Qualche volta ci siamo trovati sulla scala, e, sa bene, una sera tardi ho lanciata una parolina, cioè le ho chiesto se voleva essere mia moglie. Ella aveva in mano un cesto di biancheria e mi rispose: «Parli alla mamma e al papà».
[117] – Parli ed ella è sicuro. I parenti di Gioconda farebbero un sacrilegio per maritarla.
Quando il signor Manganelli lasciò il mio bottone, me ne andai ben volentieri, perché il Verga apriva già l’astuccio degli occhiali.
Innanzi all’uscio della mia camera aspettava un signore, colla mano sul cordone del campanello.
Vedendomi fermo innanzi, mi ficcò gli occhi in viso e mi chiese:
– Sissignore – risposi abbassando la voce con un po’ di imbarazzo. Egli mi si accostò di qualche passo, e curvatosi quasi fino al mio orecchio, susurrò con voce tremante:
– Vostro padre desidera parlarvi.
– Lucini non conobbe mai suo padre – risposi, afferrandomi alla maniglia dell’uscio per sorreggermi.
– Mi cacciate forse? – L’accento melanconico di queste parole mi toccò: noi ci guardammo fissi.
[118]