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I MIEI DUE PADRI - ARRESTO IMPORTANTE
La sua pupilla languida mi ricordò la tenerezza dello sguardo del Lucini, il quale, parlandomi di suo padre, non aveva mai detto ch’egli fosse morto.
Apersi l’uscio con un po’ d’imbarazzo, procurando nel medesimo tempo di preparare una risposta, che andasse bene per entrambi. Entrati, lo feci sedere nella poltroncina e anch’io presi una sedia innanzi a lui, ma cogli occhi bassi.
Passò un buon quarto di minuto prima che l’uno o l’altro aprisse bocca, il padre, s’intende, preso da un’improvvisa tenerezza e io sotto il governo d’un imbarazzo non mai provato.
– Lucini – cominciò quel bravo signore, che pretendeva essere mio padre – mi avvedo che la mia visita vi dispiace; infatti non ho alcun merito in faccia a voi.
Io credo che, precipitando nell’aria dentro un pallone che sfiata, non si provino più strani capogiri de’ miei in quel momento. Vedevo la necessità di togliere quel povero signore dal brutto inganno, in cui era caduto, ma sentivo la difficoltà di trovare una frase, che andasse.
– Sì, vostro padre desidera esser perdonato, Giorgio. Finora ha fatto a fidanza colla sua coscienza, ma il giungere dei sessant’anni, il corpo infiacchito non regge ai pugni della coscienza, che non invecchia mai. Io vi chiamo Lucini, perché così vi piace, ma voi non avete la curiosità di sapere il vostro vero nome? non osate nemmeno osservare come è fatto quell’uomo, che fu causa dei vostri mali?
Levai allora gli occhi colla pietà d’un moribondo, che cerca la luce. Il mio signore – se volete conoscerlo del tutto – era un omiciattolo tondo, ravvolto in un soprabito largo e lungo fino alla noce dei piedi, con maniche alla cappuccina foderate in flanella, e con due tasche, dall’una delle quali spuntava la cocca d’un fazzoletto di seta gialla. Aveva la fronte lustra, il cocuzzolo mondo e liscio come una palla d’avorio usato, meno due liste di capelli impastati, che venendo dalla nuca, si arroncigliavano alle orecchie. I baffi tinti e incerati finivano in punta di spillo, e giravano come due sfere d’orologio dietro le contrazioni delle labbra.
Sedendo, riempiva tutta la poltroncina e toccava a stento il suolo colla punta di due scarpette di pelle inverniciata. Mi guardava fisso, [119] come un incantatore, in modo che le pupille, ingrossandosi, prendevano la bianchezza della porcellana.
– Signore – dissi finalmente, quando a Dio piacque – ella s’inganna sul mio conto. Io non sono Giorgio Lucini.
– Voi? ho capito: vi conviene questo contegno dal momento che non volete riconoscermi. Però sappiate che, prima di venire fino a voi, ho fatte le mie ricerche, ho chiesto di voi alla portinaia, che mi diede ragguagli precisi e che convengono a’ miei: vi ho atteso un’ora innanzi all’uscio, e anche voi poco fa, colto all’improvviso, non confessaste?...
– Ma... – interruppi.
– Parlo io. Desiderate delle prove ancora più stringenti?
– Creda...
– Volete che vi racconti tutta la vostra vita? – seguitava spinto da buon vento quel signore. – Ebbene, vi dirò che vengo or ora da Napoli e che ho parlato con la Giuditta pescivendola.
– Ah! Giorgio! – esclamò, abbandonandosi sullo schienale e incrociando le braccia sul petto – potete dire di non conoscere la Giuditta pescivendola?
Marcello cominciava a diventare stupido e avrebbe volentieri cambiato il posto colla sua sedia.
– La Giuditta pescivendola era amica di vostra madre e voi lo sapete meglio di me, perché le mandaste or non è molto alcune lire per comperare una corona di fiori. Io ho veduto quella corona, sopra una povera croce di legno, piegata dal vento e sepolta fra le ortiche. Là sotterra giace una donna, che mi ha amato e che anch’io forse amai in un istante di leggerezza, ma che poi ho vilmente abbandonata... Oh sì! maleditemi, ma intendete questi dolori... – Il bravo signore si asciugò un occhio per volta col suo fazzoletto giallo. – Giuditta mi raccontò gli ultimi istanti di vostra madre. Mi disse come rimasta sola, con voi piccino, reietta e maledetta da tutti i suoi parenti, morisse in breve di stento e di corruccio. E così? sono prove parlanti? I parenti per liberarsi di voi vi abbandonarono a gente prezzolata, che fanno la tratta dei fanciulli, ed eccovi a Parigi, vagabondo, con uno strumento fra le mani, il canto e il sorriso sul labbro, la fame nello stomaco e la disperazione nel cuore. Giorgio, voi non avete pietà a farmi raccontare questi dolori.
– Basta! – dissi, alzandomi rapidamente.
– Ancora una parola. Una persona di cuore vi raccolse e vi prestò il suo nome; infatti nel conservatorio di Napoli foste iscritto col nome Linucci: è vero? è vero? Per ragioni, che non so vedere, qui vi fate chiamare Lucini, e questo nome, col vostro indirizzo preciso, [120] il numero della porta, il piano stesso, voi lo avete scritto a Giuditta in questa lettera, che vi presento. Eccola! negate voi stesso.
Riconobbi i caratteri del Lucini, ma tante parole, tante prove, che venivano ad assaltarmi da ogni parte, finirono per stordirmi. Invidiai ad occhi chiusi la sorte di quel qualunque antipodo, che passeggiasse sotto di me nell’altro emisfero.
– Non vi chiedo un perdono, che non volete dare, mio Giorgio; ma fate un segno colle palpebre che quel ch’io dico è vero, e lasciate che vi contempli in silenzio. Poi, se vi pare, cacciatemi all’uscio.
Man mano che egli parlava, la sua voce diveniva più tremante e mista di pianto. Era un gran colpevole, ma il pentimento, ispirato da un impulso naturale d’affetto, mi pareva sincero. Come dirgli ad un tratto che quel suo figlio era morto? Tirai un lungo respiro e socchiudendo gli occhi risposi:
– Quanto ella mi disse, signore, è vero; ma vi è di mezzo una circostanza fatale, dolorosa. Insomma le dirò che io mi chiamo bensì Lucini, ma che questo nome io l’aveva prestato al mio povero amico Giorgio, che abitava con me in questa camera. Gli era piaciuto questo nome, aveva per me dell’amicizia. Più volte mi raccontò la sua storia, mi parlò di suo padre, della Giuditta pescivendola, ma come diceva, oggi non è a Milano, è andato lontano, molto lontano... in America.
Un pappagallo avrebbe forse parlato peggio, ma con più coscienza: le parole, venendo di per sé alle labbra, spiccavano ad una ad una seguendo un tenuissimo filo di ragione.
– Ammetto quel che ella mi dice – aggiunse dopo un lungo silenzio il mio interlocutore – ma dal suo turbamento, o signore, dubito che ella obbedisca di mala voglia a ordini ricevuti. In questa lettera, Giorgio assicura che per tutto carnevale sarebbe rimasto a Milano.
Ero sconfitto. Caddi come morto sulla sedia, e nascosi il volto tra le mani sospirando. Quanto volentieri sarei ritornato il Marcello di prima, nel mio zimarrone tané! quanto mi pentii d’aver voluto per un po’ di tempo essere un altro! Qualunque sia la nostra via, noi abbiamo in noi stessi rimedi, che meglio convengono ai nostri mali, come ogni cane guarisce le sue piaghe colla propria lingua.
– Mi dica dunque la verità – esclamò, spingendosi con un po’ di violenza verso di me. – Giorgio... è morto?
– Sì – risposi con voce, che veniva dai piedi.
– Morto! – ripeté a fior di labbro e non parlò più. Mi pareva che il mio corpo pesasse il doppio sulla sedia, e, sollevato lo sguardo, vidi che il volto già ulivigno del mio compagno, fatto più tetro dal [121] pallore, aveva qua e là delle chiazze cadaveriche. Però si sarebbe detto che quella notizia non gli giungesse tutt’affatto nuova.
Io sentii la necessità di spiegarmi di più, e distesamente e con la maggior calma possibile raccontai il fatto, come era accaduto, e i sospetti che m’erano nati, e le prove scritte, che aveva in mano. Non tacqui del vecchio marito geloso, né di Marina, né del rapporto medico e delle note prese dalla polizia. Mi dichiarai pronto, quando egli volesse, a sciogliere questa matassa per vendicare l’amico.
L’accento delle mie parole e una lagrimetta, che mi spuntò sul ciglio, dovevano persuaderlo della mia sincerità: infatti egli non domandò altro. Stette sopra di sé, raccogliendo nella increspatura della fronte i più dolorosi pensieri, e agitando i pollici dei piedi sotto la pelle sottile delle scarpe. Finalmente domandò:
– Potrei vedere il ritratto di questa donna?
Mentre io stavo per cercarlo fra le altre carte, udii di fuori una voce ben nota, la quale diceva a qualcuno:
– Dove s’è cacciato questo can da pagliaio?
Era la voce più sincera che obbligante di mio padre, il quale, avvertito per lettera dal signor Leonardo, droghiere, veniva a insegnarmi la legge. Egli spalancò francamente l’uscio e lo tenne aperto col bastone, stando fermo sulla soglia.
– Venite avanti, padre mio, – dissi, avvicinandomi all’uscio, dopo aver consegnato il ritratto al poveretto, che sospirava.
– È Marcello costui? – domandò il babbo al droghiere che gli stava alle spalle.
– Venite innanzi – ripetei.
– Questi Marcello? ma io sono in un labirinto.
– Signore – disse lo sconosciuto, alzandosi e stendendomi la mano – perdoni il disturbo: potrebbe venire da me all’albergo Milano qualche sera di questa settimana?
– Sissignore.
– Ma sopra tutto silenzio.
Il babbo, che teneva il bastone disteso, fece due passi avanti per lasciarlo passare, lo squadrò dalla testa alle calcagna, poi squadrò me dalle calcagna alla testa e voltossi di nuovo al droghiere, domandando: – Siete sicuro di non aver sbagliato?
– Sono io, sono Marcello – dissi accostandomi. – È questo mantello che vi dà le traveggole? Eccomi quel di prima.
Il babbo sollevò col bastone il lembo del mantello, che io aveva sospeso al portapanni, toccò le gambe delle sedie e dello scrittoio per assicurarsi di non essere in un labirinto incantato e mi disse: – Ho piacere di far la sua conoscenza.
[122] – Come avete scoperto il mio nascondiglio?
– Diteglielo voi, Leonardo.
– Dal registro della questura.
– Come? – esclamai con un piccolo spavento – la questura si occupa dei fatti miei?
– Ditegli, Leonardo, perché sono venuto a Milano.
– Questo lo indovino. Vi avranno scritto delle infamie sul mio conto e voi le avete credute. Vi avranno detto che io ho tradito una barbolina, una frinfrina schifiltosa, una madonnina infilzata, della quale non mi sogno nemmeno, e voi avete creduto. Ma è giunto il tempo ormai che anch’io levi la maschera a questi codardi, che si prendono beffe dell’ingenuità di un povero diavolo piovuto dalla montagna. Non è permesso, per Dio, seminare la discordia nelle famiglie, accusare altri prima di conoscere i fatti, vilipendere, lacerare l’onestà d’un galantuomo per servire a bassi istinti d’interesse. Finora ho tergiversato, ma giuraddio...
– Andiamo, Leonardo; questi non è mio figlio – si diede a gridare il povero babbo, turandosi le orecchie.
Io passeggiava concitato per la camera, stringendo i pugni, acceso in volto, collo sguardo fiammeggiante, mentre il signor droghiere cercava trattenere il babbo, che voleva ad ogni costo andarsene.
– Mio figlio è un matto, un bestemmiatore?... Di’, can da pagliaio, ti avrebbero veramente stregato? non sai tu che tua madre fu in fin di vita per le tue immodestie? non sai che si consultò perfino la santa di Pusiano per avere un buon consiglio? E il buon consiglio te lo dò io e subito. Vieni con me.
– Dove?
– A casa.
– Non posso.
– Perché?
– Perché un’altra missione, e una sacra promessa fatta ad un moribondo me lo proibiscono.
– Ebbene, io mi siedo qui, e non me ne andrò senza di te, dovessi rimanere cinquant’anni.
Il babbo sedette nella poltrona e si collocò in una posizione comoda anche per un secolo e mezzo.
La santa di Pusiano, per chi non lo sa, è una donna che ha tutte le confidenze del Signore, e che vive in una certa stanzuccia a pian terreno, dove rovescia continuamente secchi d’acqua di pozzo per indicare che per quanto l’anima umana si lavi, non è mai degna di Dio. In quel molliccio crescono funghi e licheni e le gambe della santa ingrossano come due fusti di quercia. Nei tempi che vestivo [123] ancora la soprana, ella aveva profetizzato che io diverrei il martello degli eretici, ed ora, avendo udito il racconto delle mie scappate: – È niente, buona donna, – rispose a mia madre – uno spirito è disceso in lui, ma vi starà per poco; procurate di condurlo innanzi a un cimitero e sarà come strappare un dente. Vi darò intanto un moccoletto della candela, che rischiarò l’agonia di suor Clementina, una santa, morta nel convento di Monza.
Mio padre, sebbene non credesse a tutte queste profezie, aveva perciò in tasca il moccolo sacrosanto, e cominciò a considerarmi con occhio di falchetto e a sogguatare il droghiere, che si mostrava offeso delle mie parole.
– Scusi, signor Marcello, – disse costui – può ella negare d’aver lusingato con vane promesse la Gioconda, di averla fermata sulle scale sul far della sera, e d’averle parlato di matrimonio?
Era la storia del signor Manganelli e cominciai a dubitare che i Tanelli fossero in buona fede.
– Hai capito, Marcello? io non ti lascio più – ripeté mio padre, fisso in quest’idea.
– Io non posso disobbedirvi: vi darò prove della mia onestà e andremo insieme a consolare la povera mamma.
Allora mi feci a spiegargli come io mi trovassi in quella casa e nei panni d’altri; parlai di fatti tenebrosi e ad ogni parola il babbo si rizzava sulla vita, come preso da paura, e apriva di più le occhiaie. Io, che volevo intenerirlo, gli presi ambo le mani nelle mie, gli giurai sul capo de’ miei poveri morti d’essere innocente, piansi tocco da una invincibile compassione, piansi come un fanciullo. Il babbo andava osservandomi parte a parte e specialmente i capelli irti del capo. Credetti fargli piacere toccando il violino, ma alle prime note gridò: – Basta! Basta! – E cadde in profonde riflessioni. – Che la santa avesse detto il vero? – Difatti io dovevo sembrargli troppo irascibile, troppo ciarliero e il violino... quand’è che Marcello aveva imparato il violino?
Mio padre e il signor Leonardo mi stettero alle costole tutto il giorno, come due gendarmi, e mi avvidi che con le belle e con le buone volevano condurmi via; perciò provai il più gran dispetto del mondo. Vedendo che tutti i miei grandi progetti, le mie promesse e i miei sogni d’amore erano per svanire e che Marcello ritornava Marcello, fui preso da un coraggio che aveva un po’ del cattivo. Raccolsi il ritratto di Marina, i pochi denari del Lucini, le lettere, e bel bello uscii di casa co’ miei due angioli custodi, mostrandomi buono e pronto all’obbedienza, ma covando nell’anima un tradimento. Si pranzò assieme al solito albergo del Biscione, e [124] sull’imbrunire, colto il momento che mio padre esaminava il conterello dell’oste, scrissi sopra un foglietto due parole di addio e di perdono, uscii dall’osteria, balzai in una vettura che aveva già prima adocchiata e dissi: – Alla stazione.
Mi parve così di ritrovare il filo, che doveva condurmi da Marina, e non provai nemmeno quel rimorso, che risento ora a scrivere: una furia s’era cacciata nel mio corpo, e l’orgoglio di credermi più d’un fanciullo aveva la sua parte in quel coraggio straordinario.
Lungo la strada, passando al numero ventitré mi fermai, salii a precipizio le scalette dei Tanelli, mentre era già abbastanza buio, entrai senza dir altro e passai nel salotto. Erano tutti radunati intorno al signor Manganelli, che pareva in atto di spiegare la dottrina e al vedermi trasalirono, specialmente la Gioconda. Io dissi loro:
– Forse verrà mio padre a cercare di me: dicano che io ho dovuto partire da Milano e che fra quattro o cinque giorni sarò di ritorno.
Quindi uscii senza dare il tempo di rispondere, e discesi a precipizio, ripresi la vettura, e mentre si accendevano le lampade per le vie, e la gente si affollava di qua e di là, – era giorno di festa – col cervello in fiamme, colla ribellione e col rimorso nel cuore, fra il sì e il no, fra l’amore e il dovere, fra il dispetto e la compassione, Marcello giunse alla stazione.
Il momento non era stato scelto a capriccio, perché da più giorni studiavo a memoria l’orario delle partenze per Venezia. Buttandomi in un vagone, dopo un sonno di una notte, io avrei aperto gli occhi a Venezia. Oh il bel sogno!
Sotto l’immensa cupola di vetro della stazione era un via vai, un formicolio di persone affaccendate, che mi davano la sordia.
Le poche lampade accese lanciavano grandi striscie luminose nel seno di ombre profonde, cupe come caverne. Io tremavo un pochino, com’è naturale, e mi lasciai sospingere fra gli staggi di legno, che menano allo sportellino dei biglietti.
Un grassotto accanto a me, colla divisa di sorvegliante, gridò trenta o quaranta stazioni, senza perderne una, finché tuonò il nome di Venezia. Questo nome mi dava un fremito. Venezia per me voleva dire Marina.
Dietro le grandi vetriate passavano e ripassavano fischiando le macchine, e ne nasceva un rombo infernale, uno scatenamento di spiriti, che finiva per togliermi ogni sentimento.
Io mi guardava intorno con sospetto e il mio mantelletto e il mio andare incerto e pauroso fermarono l’attenzione d’un signore, che nell’angolo più buio faceva la sentinella alla sua valigia. Io voltai [125] lo sguardo, affrettai il passo, entrai nella sala d’aspetto, cercando col pensiero dove e quando avessi veduto quella ciera. Ma il mio pensiero da mezz’ora pareva una macchina guasta, e mentre stringeva un filo, ne filava un altro. Però quella faccia io l’aveva veduta, sono pronto a giurarlo.
Frugando nelle tasche del mantelletto, mi venne tra le dita un rotoletto, come sarebbe a dire, giudicando al tatto, zuccaro o cioccolatte incartato. La sala era affollata e tutti cicalavano, ritti innanzi alla porta con le valigie e i sacchi in mano e sulle spalle. Stretto tra un prete e una vecchia, Marcello si sentiva strappare da tutte le parti il lembo del tabarro e ogni voce gli pareva quella del babbo, e mi veniva in mente anche la mamma, e intanto andava svestendo quel non so che di rotondo e di molle, che al riverbero d’una lampada conobbi per un moccoletto di cera.
Allora io non sapeva ancor nulla delle profezie della santa, e si può immaginare il garbuglio dei pensieri stravaganti, delle paure, delle meraviglie!
Marcello però indovinava la mamma, la sentiva in quel piccolo segno di pietà e di fede, e sarebbe tornato indietro, se la folla all’aprirsi delle porte, sbucando come un torrente, non avesse trascinato anche lui nel precipizio. Era l’inferno! mi pareva di scendere gradinate di carbone, di scavalcare montagne di ferro, di arrampicarmi sopra una gabbia.
Una mano mi impedì il passo d’uno scompartimento.
Era ancora quel signore di poco fa, che io aveva conosciuto nel mondo e che ora non sapeva collocare a suo posto.
Passai oltre, balzai in uno scompartimento e mi sedetti, allorché un signore, gentilissimo, saltando come un passero sul primo gradino e levandosi il cappello, mi disse: – È lei il signor Marcello Marcelli?
– Sissignore.
– Ella fu l’amico di quel Giorgio Lucini...
– Sissignore.
– E abita ora sul corso, nella camera stessa del Lucini...
– Sissign... – e qui mancò la voce.
– Mi rincresce darle un piccolo disturbo, ma ella deve seguirmi. Noi ci conosciamo, n’è vero?
– Noi?... – Era il gentilissimo delegato di polizia, che aveva promesso tante belle cose al povero Lucini.
– Ma, scusi, perché... Che c’entro io?
Il gentiluomo signore mi offrì la mano per aiutarmi a [126] discendere, io spiccai un salto a terra e vidi a tre passi di distanza due gigantesche persone, che si accarezzavano i baffi.
Il conduttore serrava ad uno ad uno gli sportelli gridando: – Partenza, partenza, Venezia, Venezia.
Si può dire quel che io provassi in quel momento? Qualche lampionaio si soffermava a guardarmi, e quando il convoglio si mosse tutti dalle finestrelle non guardavano che me. Che ne sapevano essi più di Marcello? Da un posto di prima classe rividi per la terza volta la ciera di quel signore, che io aveva conosciuto forse prima di nascere... I suoi occhi erano fissi ne’ miei, e ingrossandosi divennero bianchi come la porcellana.
– Dobbiamo andare, signori? – disse il gentilissimo signor delegato.
I signori, pur troppo, eravamo noi quattro.
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