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XIII
Quella confusione di spiriti di cui parlai quasi per burla, divenne vera e patente al tornare da questo strano processo nella mia prigione: tanto fa che la chiami così. Io non distinguevo più me stesso dagli altri e dalle cose intorno: io non sapeva se fossi un morto risuscitato o un poveretto sotterrato vivo.
Marcello era accusato solamente di assassinio e di falsificazione, e bisognava proprio essere in due per scontare tutta quella pena, che sta scritta sulla legge.
Se in me si faceva un po’ di silenzio, sedendo sul mio letticciuolo a guardare in quei gorghi, vedevo come due personaggi, posti nel medesimo atteggiamento del mio, che si movevano l’uno a fianco dell’altro a somiglianza di certi fenomeni viventi, esposti nei baracconi. Alcune volte al contrario la coscienza ch’io fossi il Lucini tornava così schietta e sicura, che io pensavo a Marcello, come a un buon giovinetto conosciuto da me alla trattoria e che abitava una casipola laggiù.
Ma questo fu il tormento di poche ore. A poco a poco tornarono le cose ai colori di prima e coll’aiuto del mio avvocato cominciai a mettere un po’ d’ordine in quello scompiglio di fatti e di speranze.
Confesso che un po’ di colpa era mia, perché non aveva saputo ribattere i capi d’accusa come dovevo, ma io vorrei mettervi fra tanta gente vestita di nero, in un salone tetro, col carabiniere alle spalle, gli uscieri che scrivono scrivono, e innanzi un indiscreto che entra nel vostro cuore, vi fruga tutti gli angoli più riposti, e racconta al rispettabile pubblico quel che non avete coraggio di confessare a voi stesso...
Il nome di Marina, che io tenevo gelosamente riguardato nel mio pensiero, e che mi aveva insegnato un po’ di poesia, era scritto e trascritto da quelle penne, veniva cantato in musica, commentato e ricamato da susurri e da sorrisi indecenti. Marcello ebbe lampi di sdegno sì feroce, che fu un pelo per romperla in uno scandalo o diventar matto.
Bastava ch’io indicassi alla Corte com’era venuto a scoprire, presso a poco, l’indirizzo di Marina: le indagini della giustizia si erano fermate ad Anzela Marzani, la quale aveva scavato fra i gendarmi e il colpevole la sua fossa. Non dico che col tempo l’astuzia dei segugi non sarebbe arrivata a sciogliere il nodo, ma intanto si [135] perdeva tempo, e il Sultano guadagnava dello spazio. Ma come parlare, senza ricadere nel pericolo già previsto, di trascinare al processo il padre di Marina, e forse lei stessa? Non sentendomi questo barbaro coraggio preferii aspettare un’occasione più favorevole, se Dio volesse.
Io era nel caso di un navigante che a due passi dalla riva per l’urto dell’onda non può mettere piede a secco: non c’è un vero pericolo, e lo si potrebbe chiamare una lotta scherzosa col flutto, ma guai se dura a lungo! Un colpo di vento potrebbe slanciare il guscio a capofitto.
Ragionando con pace sugli avvenimenti, un punto oscuro mi restavano le tre lettere dell’incognito G. P., che io non aveva mai trovate fra le carte del Lucini. Come si erano nascoste nello stereoscopio? Chi mi giuocava questo brutto scherzo?
Non v’era più dubbio. Il Sultano, quello stesso che mi accusava, aveva creduto coll’accumulare sul mio capo una duplice accusa, appoggiata da tante prove vicine e parlanti, di complicare il processo e di guadagnar tempo, non solo, ma di rendersi sottomessa fino all’estremo la sua diletta Marina, colla paura che quelle lettere presentate al tribunale dovevano fare a lei e a suo padre.
Il segreto di questo vecchio, ospite del Lucini, e che dalle lettere appariva appena in isfumatura, diventa manifesto. G. P. aveva scritto, per avidità di ricchezza o di sfarzo, alcune firme di biglietti falsi, e questo grande delitto, scoperto da L... divenne il punto di leva per ottenere dal colpevole qualunque concessione. L... non era che il Sultano, il marito di Marina.
I fatti spiccavano di qua e di là come le reti al calare della marea. Le tre lettere, che il ricco e vecchio amante teneva in serbo, erano il pegno d’una devozione coniugale, costante fino alla morte. Io lo vedevo quest’uomo, sebbene non avessi di lui che un contorno grossolano. Ma in questo contorno ora si presentava, son per dire, un’ombra chinese, che aveva lineamenti più recisi; quasi contro mia voglia, scaturiva un’immagine tozza, rotonda, sormontata da una palla d’avorio usato, o per dir meglio da una testa monda, solcata da due strisce di capelli arroncigliati alle orecchie, e punzecchiata da due pupille biancastre come la porcellana.
Quest’uomo era venuto in casa mia, mi aveva raccontato una pietosa storia, non aveva creduto ai pietosi inganni d’un amico. Quest’uomo, che preso da un amore selvatico per la bellezza e la giovinezza di Marina, non lesinava sui mezzi di conservarla, aveva finto delle lagrime per commuovermi, per cavarmi di bocca tutto quel che io sapessi sulla morte di Giorgio Lucini. Visto che io, [136] spettro inesorabile, era venuto a conclusioni troppo precise, e che il sottrarmi le lettere di Marina ormai era inutile, nel breve spazio concessogli per salvarsi, mentre io ero occupato e preoccupato nel ricevere mio padre, nascose quelle tre lettere e uscì a scrivere l’accusa. Nella mia ingenuità io aveva parlato troppo ed egli feriva colle mie stesse armi.
Quest’uomo io l’aveva incontrato due volte alla stazione – ora me ne sovvengo – ma trasformato, senza mustacchi, e con una bella parrucca rossigna; erano suoi però quegli occhi di porcellana che all’allontanarsi del convoglio si fissarono in me. Marcello non seppe tener conto del tempo, ma senza dubbio erano passati giorni parecchi, perché il reo avesse potuto guadagnare i confini e trascinarsi in qualche lontano paese la sua bella schiava.
Il mio amore per Marina, incominciato come tanti altri amori, da una fantasticheria, passando attraverso a queste dure prove, a poco a poco andava temprandosi: pareva assiderato, ma innanzi all’immenso pericolo mio e suo, tornò a pulseggiare di una nuova vita. Marcello e Marina finalmente avevano una causa in comune, e se il mio martirio avesse potuto salvar lei e renderle tutta quella felicità che forse aveva desiderato a sedici anni, io, povero Marcello, avrei allungate le braccia alle catene.
Ma la sua schiavitù era più triste della mia. Il marito, tornando, le avrebbe raccontato lentamente i casi della sua vendetta, stringendo per acre voluttà d’amore la vittima tra le braccia; quel che Marina doveva soffrire, se io potessi immaginarlo, non lo direi.
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