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III
A mestre si prese un calesse chiuso e preceduti un quarto d’ora dai due amici a cavallo, io e il gentilissimo signor delegato ci ponemmo in viaggio per una strada postale che si addentrava certamente nel Friuli, ma di cui non saprei or ora riprodurre gli indizi. Era già notte quando ci movemmo. Il signor delegato a qualche mia domanda rispondeva con parsimonia, come uomo che sa la prudenza non essere mai troppa; però venni a sapere d’una villa, dove il Sultano s’era ritirato, per aver l’Alpi fra le gambe a un minimo segno di burrasca. Come il mio compagno avesse scoperto questo nascondiglio, non resterà sempre avvolto nelle tenebre del mistero: io era dunque sicuro che al primo sole avrei veduta Marina.
Eravamo, come sapete, ai primi di marzo, e non si deve far punto meraviglia se dopo mezz’ora di viaggio cominciò a nevicare. Io, Marcello, raggomitolato nel mio mantelletto, troppo poco al bisogno, nell’angolo destro del calesse, cercavo di formarmi una tana, tirando le orecchie nel bavero di pelo, il naso sotto l’ombra del cappello verde, e le mani e le ginocchia sotto un coltrone di cavallo preso a sorte nello stallazzo. Il sempre amabile signor delegato dormiva o fingeva.
Non c’era modo di chiuder occhio con quel freddo acuto: ma a lungo andare fra i tentennamenti del legno e gli strapazzi della giornata e per il lungo tacere, caddi anch’io in un mezzo sonno; dormigliando via via, mi pareva di ritirarmi più ancora dentro di me, senza mai perder d’occhio la carrozza, il delegato, e Marina. Ne nasceva a tratti un bel miscuglio, perché prendendo a modo mio le cose non avvenute, le intrecciava alle già avvenute, con altre licenze da sornottone, con certe contraddizioni spaventose, che io stesso ne rimbalzavo. Allora, asciugata la bocca con una falda del mantello, mi rimetteva a piombo, fregava l’uno e l’altro polpaccio, speculando al di là del vetro la strada e il tempo. Nevicava alla bella e la strada grossa, già fracida per le vecchie nevi, andava coprendosi di lanuggine fresca. Il fanale della carrozza, passando via, gettava bagliori sfacciati sulle siepi, su muriccioli, sulle cappellette dei morti, sulle croci dei viottoli, sopra i mucchi di ghiaia, tutte cose che restavano dietro più profondamente immerse nelle tenebre, e che io perseguitavo e inseguivo ancora fra me e me col pensiero. Quel fanale mi [165] serviva di lanterna magica, e devo la cognizione di moltissime cose a un moccoletto di mezzo soldo.
Il falso-bordone delle quattro ruote, uniforme per miglia e miglia, su per una strada che non finiva mai, ora più stridente al passare d’un villaggio, ora sordo nel vincere una riva, accompagnava i miei ragionamenti, e io mi accordava alle ruote; onde fra me e la carrozza era difficile scegliere chi argomentasse meglio. A volte tornavo anch’io al mondo reale, alla vista d’una ruota gigantesca e d’una lanterna a vento, che rasentava il legno: udivansi delle voci, degli uh!..., un tintinnìo, poi nulla più, se non il falso-bordone delle mie quattro ruote. Si andava sempre in un mondo per me ignoto, e lascio pensare se Marcello potesse avere una chiara coscienza di sé. Mi ero già avvezzato a considerarmi come qualche cosa di inerte, supponiamo un fagotto, che altri portasse qua e là a capriccio e deponesse ben volentieri in un angolo sicuro. Tuttavia nello smarrimento nervoso e intellettuale mi restava acceso un desiderio, che era proprio come l’ultimo lucignolo della mia vita, e che mi lusingava a resistere fino all’ultimo; intendo il desiderio di veder Marina e il sole.
Che questo desiderio di Marina fosse amore io non lo so; ma senza dubbio sarei andato a piedi e in ginocchio alla fine di quella strada (doveva pur finire come tutte le cose umane), anziché tornarmene senza averla veduta. Non solamente io speravo nella sua gratitudine, ma soffrivo già del ritardo, come se al viver mio Marina fosse necessaria non meno del sole. Tant’è: avevo bisogno di assicurarmi che questa Marina fosse veramente persona viva, e non ombra o fantasma, e per me questa donna doveva essere una conclusione, il fine di una sinfonia agitata, varia, piena di tenerezza e di passione. Il troncarla a mezza battuta era dare uno strappo all’anima.
Me la imaginavo vicina vicina e nei momenti d’un dormire più denso mi pareva quasi di toccare colle mie ginocchia le sue, sotto il coltrone di cavallo.
Correvo a imaginare i suoi spaventi. Il Sultano le aveva forse narrata la morte dell’amante, e, succhiando il piacere della vendetta, se la trascinava dietro, come una schiava al carro del vincitore. Ah Sultano! noi ti arriveremo alle calcagna, mentre tu non l’aspetti, e io, Marcello, erede d’un morto, ti stringerò la gola colle mie unghie di spettro. Io sarò per te l’ombra del Lucini seguito dall’angelo della vendetta.
L’angelo della vendetta, seduto alla mia sinistra, russava amorosamente; ma il caro signor delegato non aveva più nulla a pensare, e si teneva il colpevole già bell’in saccoccia.
[166] Di cosa in cosa io giunsi fino ad imaginare una fuga insieme alla mia Marina, per esempio, in una carrozza chiusa, per una strada postale, di notte, smarriti soli nell’immenso deserto dell’oscurità, l’ira sul labbro, l’amore nel cuore...
Provate a viaggiare d’inverno con un tabarrello leggiero e farete dei sogni più brutti.
Mi agito un po’, caccio via dalla testa le idee più fastidiose, guardo oltre il vetro... Ghiaia, siepi, muricciuoli, croci, neve, strada. Ma questa volta le due ombre a cavallo sono ai fianchi della carrozza, avvolte nei mantelli e accompagnate da un tintinnìo, che ha del diabolico.
Oh se venisse un raggio di sole!
– Dove siamo? – mi chiede con un grazioso grugnito il mio compagno.
– Dove? nel mondo forse: non ne so altro.
– Che ora è?
– Questa è l’eternità.
– Dormendo, m’è venuto un sospetto: che il Sultano ci abbia lasciate le indicazioni false.
– E allora?
– Tempo gettato. Bisognerà riassumere le idee,
Picchiò nei vetri e una delle ombre venne al finestrino e si piegò sulla testa del cavallo. Il caro delegato ripeté le domande, ma le risposte non giunsero fino a me.
– Fra poco ci fermeremo all’osteria d’un sindaco, che ci darà buone indicazioni.
– Da quanto tempo il Sultano ha lasciato Venezia?
– Da molti giorni: a quest’ora poteva essere in salvo, son per dire, a Calcutta; ma il contratto di vendita delle case e di poche sue terre è ancora in mano al notaio. Il Sultano non si allontanerà, senza aver prima regolato i suoi interessi. Un biglietto da me raccolto fra la cenere del caminetto, nel suo studio, portava scritto il nome villa Carnica, insieme all’indirizzo del notaio.
– È questa, dove andiamo, la villa Carnica?
– È questa. Il Sultano stava per scrivere al notaio il suo indirizzo, ma non gli parve prudente; buttò il già scritto sul fuoco, e gli fece sapere invece che a tempo opportuno sarebbe tornato egli stesso a Venezia.
– Possibile?
– Non tornerà, se vede il pericolo: è naturale che egli abbia seguito il vostro processo, e che stia sull’armi.
[167] – È l'osteria del signor sindaco – disse il delegato, e abbassò il vetro della carrozza. Una delle ombre, rizzandosi sulle staffe, suonò il tamburo nei vetri del primo piano d’una casetta isolata, la prima d’un gruppetto di case, collocate sul ciglione d’una riva.
Dopo un minuto di aspettazione apparve un lume: un’ombra si agitò, poi disparve insieme al lume, tambussò di dentro, finché si aperse uno spiraglio della porta. Il signor sindaco ci aveva riconosciuti, e pieno di sonno obbediva alle necessità senza contraddire.
– Dateci del fuoco e del vino – disse una delle ombre, scivolando dal cavallo, che legò all’inferriata di una finestra, e così entrammo.
Il signor sindaco chiuse la porta, pose il visto alla carta di via dei due soldati e scese per il vino; il vetturale, uomo muto, io credo, che lungo il viaggio non aveva dato segno di sé, accese il fuoco e tutti all’intorno a disgelare.
Il sindaco, interrogato in confidenza, disse: – Villa Carnica è a tre miglia di qui, un bel palazzotto veneziano, con una loggia del cinquecento, sulla schiena d’una collina. Era dei Zeno di Venezia, ma so che l’hanno venduta e che quest’altro anno passò in mano d’un ricco straniero. Infatti mi dicono d’averne vedute le finestre aperte in questi giorni, caso strano, perché è come il palazzotto dei dormienti.
Tre miglia!... Il mio cuore, man mano che il vecchietto parlava, alzava un certo schiamazzo che mi pareva non del tutto naturale. Dunque io era a tre miglia da Marina, a tre miglia dal Sultano; dunque fra un’ora...
I due gendarmi e il delegato bisbigliavano intorno a un fiasco, ed io mi chinai colle palme aperte a adorare il fuoco. Certamente il Sultano dormiva i suoi sonni lontano le mille miglia d’avere i nemici alle coste.
– Signor Marcello, – mi disse il caro signor delegato, sedendosi a me vicino in atto di confidenza – Signor Marcello, ora comincia la sua azione. Nessuno di noi conosce il colpevole, che mi pare un vecchio topo capace di rubare il cacio alla trappola. Al primo albeggiare noi due andremo a piedi verso villa Carnica.
– Noi due? – risposi tanto per rispondere.
– La mattina si dorme volentieri anche con qualche rimorso sull’anima e spero di essere il primo ad augurare il buon giorno a Sua Eccellenza.
– Che mestiere! – pensai fra me, abbassando gli occhi, per paura che l’amico mi leggesse nel cuore, e voleva aggiungere: non [168] spaventiamo quella poveretta; ma la voce, che è, che non è? la voce si fa paurosa e fioca.
Una buona fiammata mi scaldò il sangue, e un bicchierino di non so qual succo d’erbe, gagliardo come il basilisco, pretese darmi un coraggio che non avevo; però bastò a sconcertarmi il filo teso del raziocinio e la nettezza dell’occhio, talché le cose le vedevo e le sentivo in un modo alquanto strano.
Verso le quattro – era ancora affatto buio – i due gendarmi raccomandarono i cavalli al vetturale e al signor sindaco, susurrarono gli ultimi accordi e coi fucili sotto i mantelli, uscirono.
– Fra un’ora andremo anche noi. Cinque e una sei... ora discreta... sì, sì... – Il signor delegato passeggiava per la camera in preda a quella trepidazione inevitabile innanzi al pericolo. Il sindaco oste sonnecchiava nell’angolo del focolare; il vetturale era finito addormentato sul fieno insieme a’ suoi cavalli. Nevicava ancora; un silenzio mortale intorno, e le ore di qualche campanile lontano giungevano a noi come imbottite di bambagia.
Io pensava al povero Lucini e, poiché non è spenta in me la santa religione, mormorava qualche preghiera un po’ per lui e un po’ per me.
Mi ricordava le ultime parole del moribondo: «Signor Marcello, amo questa donna; l’improvvisa notizia della mia morte le sarebbe troppo fatale» e riandando gli ultimi fatti, un sospetto accompagnato da spavento tentava farsi strada in mezzo ai tanti altri dubbi e pensieri, che mi riempivano la testa.
Povera Marina! e come Lucini in quegli estremi, anch’io non sapevo resistere a una voglia strana di piangere. La camera era rischiarata anche qui da un povero lampadino a olio, come la notte che avevo vegliato il morto, e si facean vivi ancora certi fantasmi, si radunavano ancora certe ombre negli spigoli, e scoppiavano nell’aria dei suoni, degli scricchiolii, che si capiscono intorno ad un morto, non altrove. Anche quella notte Marcello aveva sentito un gran cozzo nel cuore e nella testa; ma non tanta paura di sé e dell’ignoto. Marcello stava per finire una vita di pochi giorni, incominciata colle care imagini color di aria e con le speranze dell’amore; sentivo in modo confuso che l’anima del povero Lucini era stanca di vivere dentro di me, o dirò meglio: sentivo che Marcello, uomo dalle scarpe grosse, cominciava a desiderare il suo zimarrone tané, e con lui i corti piaceri d’una vita casalinga, da consumarsi giorno per giorno fra la casa e l’ufficio per sessanta o settant’anni di fila.
L’animo del Lucini, o meglio la passione violenta e bizzarra, che mi aveva invasato, era agli sgoccioli; il destino, l’astuzia, la legge, [169] il capriccio avevano mortificata quella povera anima, mandata forse dal Signore a patire dentro di me il suo purgatorio.
Questi pensieri mi passavano senza ordine e senza ragione per la testa, mentre contemplavo gli ultimi carboni d’un gran fascio di rubinia. Per quanto io dicessi di no, una voce che veniva dal cuore andava dicendomi:
Un picchio all’uscio mi fe’ trasalire. Per la neve caduta o forse per l’intensa meditazione non avevo udito una carrozza fermarsi innanzi all’osteria. La strada era molto battuta, e qualche viaggiatore assiderato al par di noi, avendo visto nell’arco della bottega un barlume, veniva a sgranchirsi le gambe.
Il signor sindaco si scosse, e dié la voce. Un’altra rispose, che pareva soffocata da un cuscino; l’oste non ebbe paura ed aprì.
– Portate del rhum – disse un signore alquanto dubitoso d’entrare.
Io sentii un pezzo di ghiaccio sul cuore.
Era lui.
Era il Sultano in persona, che sfidava un viaggio a Venezia per vie insolite, in ore straordinarie, per dar pace agli ultimi suoi interessi. Egli aveva forse incontrato sulla sua via chi veniva in cerca di lui, e chiedeva al rhum un po’ di calore.
Se mi avessero pugnalato, sangue non mi veniva.
Il Sultano era sicuro di non essere riconosciuto, e io mi rannicchiai in me stesso per paura di fargli paura, Marcello non era un eroe e, sebbene fosse nel suo diritto, sentiva che il birbone gli metteva suggezione.
Io so di un tale che, avendo sorpreso un servo infedele colla mano nello scrigno fu colto da una lunga terzana; l’aspetto dell’ingiustizia è per se stesso spaventoso alla coscienza sottile.
Io mi nascosi e avrei voluto sprofondarmi. Il Sultano sorbillò il suo rhum, tenendo d’occhio il cavallo, sulla soglia dell’uscio e mi parve un’eternità.
I polsi sospesi, il fiato corto e per tutto il corpo un tremito convulso, facevo ogni sforzo per nascondere il mio turbamento al signor delegato, il quale non poteva levare gli occhi da quel grassotto, avvolto nel pelo.
– Accendetemi un fanale, che si è spento – disse il Sultano; e ben riconobbi anche la sua voce.
L’oste chiese il permesso e uscì col lume, lasciandoci al buio. Io mi scossi, balzai in piedi, feci per parlare, non potendo presi il braccio del signor delegato, e cercava di fargli capire...
[170] – Che cosa? – mi chiede smarrito.
– È... – e con un impeto di voce – è lui – gridai.
La carrozza riprese la sua corsa. L’oste rientrò e guardando un biglietto da cinque lire: – Non ha voluto resto – disse; – di questi uomini si va perdendo la razza.
Il signor delegato mi ringraziò e mi lodò perché nel momento supremo del pericolo io non aveva dato segno di sorpresa; fece – guardate mo’! – de’ buoni pronostici sulla mia abilità e con una certa sollecitudine prudente ordinò al vetturale di voltare i cavalli verso Mestre.
– L’uomo è mio – disse fregandosi le mani.
– Io resto – esclamai, pensando a colei che il Sultano aveva abbandonata sola a villa Carnica.
Credereste? il sangue mi salì a flutti e mi accese le guance. Era gioia? era amore? Era il caso o la provvidenza che mi poneva fra il Sultano e Marina?
[171]