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Era mia intenzione di fermarmi alle Fornaci alcuni giorni, durante i quali avrei potuto farmi una idea più esatta delle condizioni in cui si dibatteva il signor Mauro, che mostrò di aver fiducia ne' miei consigli; se non che un improvviso telegramma da casa mi obbligò a partire la mattina stessa del lunedì. Pregai Giacomo di tenermi informato dell'andamento degli affari e partii, promettendo di ritornare appena egli avesse creduto utile di servirsi dell'opera mia. Non andò molto che l'amico mi scriveva questa lettera, che fu il principio di una lunga via crucis di guai:
«Ieri ho avuto una lunga conferenza coll'avvocato Brognolico, e quel che prevedevo pur troppo si verifica, anzi arriva troppo presto. Il mio povero padre è ridotto al punto che dovrà entro l'anno dichiarare il suo fallimento; e siccome l'azienda dei Lanzavecchia è sempre stata condotta coi sistemi primitivi, senza i voluti registri di commercio, così l'avvocato mi avverte che c'è pericolo che il fallimento possa essere dichiarato doloso. Non oso domandare quel che la legge riserva in questi casi ai colpevoli; ma sento che intorno a me precipita la mia casa sulla bianca testa de' miei poveri vecchi. Intanto mi domando quel che posso fare. Nulla di più malinconico d'una grande dottrina incapace. Tutto occupato a edificare delle magnifiche costruzioni ideali, sento che non saprei salvare un mattone da questa grande rovina che ci travolge. Alla mamma non si può più nascondere la verità. I creditori, che assediano di continuo il nostro uscio, s'incaricano essi di farle capire, e non sempre nel modo più cristiano, quel che mio padre con uno sforzo sovrumano di energia e di dissimulazione ha sempre cercato di nasconderle. La povera donna ora non fa che piangere, e mi domanda con voce spezzata dai singhiozzi, se alla sua età sarà costretta di stendere la mano. Battista, che non sa entrare, (per sua fortuna) in certi dolori e che in questo momento non sente che il bisogno di prender moglie, impreca e minaccia non so che cosa, se non gli lasciano sposare la sua Fiorenza. Egli pretende la sua parte, vuole andarsene a far casa da sé e non capisce che di casa non ce n'è per nessuno. Anche la Lisa, che fu sempre una ragazza di buon senso, non sa rassegnarsi a questa disgrazia, e la sua lingua dice più di quel che vorrebbe il suo cuore. Angiolino invece, che nella sua semplicità fanciullesca crede d'aver diritto alla sua parte di felicità, mi domanda con una segreta speranza se il fallimento lo salverà dal servizio militare. Il povero vecchio è diventato torbido e intrattabile. Per stordirsi ricorre più che non sia permesso alla sua tazzetta di vino, va da un avvocato all'altro, minaccia cause e processi e torna spesso la sera come non fu mai visto. La gente, che vorrebbe trovare in lui un uomo ragionevole e accomodante, vedendo ch'egli non si lascia più cogliere, prima di procedere a misure estreme, vien da me, vuol sentire da me quel che intendo di fare, nel riguardo dei creditori. Chi vanta un credito di mille, chi di cinquecento, chi di cinquanta lire, chi si appoggia a un'ipoteca, chi ha prestato roba, chi esige il pagamento di alcune giornate di lavoro. A me vien sulla punta della lingua di rispondere a tutti questi cari signori: ‑ Io non so nulla, io ho sempre studiata filosofia. ‑ Che mi può suggerire in questi casi Platone? ‑ ma questi bravi signori vorrebbero almeno che io dichiarassi che intendo assumere la mia parte di responsabilità. Nella loro ignoranza nessuno ammette che io possa aver studiato tanto per arrivare a capir nulla; e credono che operi con malizia, per lavarmene le mani e avere un pretesto di rinnegare gli obblighi di mio padre. Un uomo che si dichiara onesto, che ha ricevuto un gran premio, che è nelle grazie di molti signori, dice questa buona gente, non può sottrarsi senza vergogna a certe obbligazioni morali. Un certo mugnaio di Lavello, uomo grosso e naturale, che si vanta di non portar barbazzale per nessuno, l'altro dì, alzando la voce nella mia stanza, e mettendo le sue manacce infarinate nelle mie bozze di stampa, mi diceva: ‑ Se il sor Giacomo trova i denari per stampare le sue chiacchiere, deve trovarli anche per pagare le cambiali di suo padre. La gloria, per sua regola, non la si fabbrica mica alle spalle dei minchioni. ‑ E come se queste verità non bastassero, con un tremendo colpo della sua mano, abituata a sollevare i sacchi della. farina, fece saltare il calamaio sul tavolino e sprizzare macchie d'inchiostro sulle carte e sui muri.
«Non credere, Edoardo, che io mi diverta a colorire questi episodi, per un cattivo gusto di far dello spirito sui nostri dolori. Oh, se tu vedessi gli sforzi grotteschi della mia povera disinvoltura e della mia povera dialettica, quando cerco di persuadere il mugnaio, l'oste della Fraschetta, il carrettiere, il capomastro ad aver pazienza, avresti compassione di me! Domani cercherò di rivedere questo avvocato (che avrà anche lui il tornaconto, come un filosofo, ad arruffare cose chiare), e procurerò di entrare nei particolari tecnici e legali, che minacciano di far comparire ladro e intrigante un povero galantuomo che ha sempre lavorato come un martire per amore della sua famiglia. Cercherò anch'io di mettere la mano su quel fascio di carte bollate in cui è scritta una storia e una filosofia troppo vere per essere ideali. Non so quel che farò e quel che saprò fare; ma sento che ormai la mia strada è questa che va tra le cose, e che fu una grande sciocchezza d'aver battuto finora quell'altra delle nuvole.
«Non so dove andrò ad attingere la forza necessaria per lottare contro questa tempesta; non certo nei libri, che quasi non posso vedere senza provare uno stringimento di stomaco. Se non fosse che per il novembre devo licenziare questi quattro fogli di stampa, e ritirare quei quattro quattrini del premio, avrei già rinchiuso questi miei rimorsi in una cassa, e confinata la filosofia sul tetto. Dicesti una volta che giova sempre avere una testa che pensa. Ma, domando, a che cosa serve il pensare la sua miseria? Che Blitz, il vecchio scettico, abbia ragione quando abbaia?».
Era la metà di settembre. Mauro Lanzavecchia tornava sul far della notte, dopo una giornata calda e afosa, dall'aver visto il suo terzo avvocato a Oggiono, colla brutta notizia in corpo che il tribunale di Lecco, sull'istanza dei più ostinati creditori, aveva fatto dichiarare il fallimento. Questo era il bel risultato di una lunga e accanita battaglia che da due anni a questa parte sosteneva egli solo contro la mala fortuna, contro gli imbroglioni, contro il governo, contro l'agente delle tasse, contro ogni sorta d'angherie e di strazi. Era partito a piedi da Oggiono per il bisogno di rompere in qualche gran sforzo la tremenda irritazione che il brutto avviso aveva prodotto nel suo sangue già avvelenato e guasto. E per darsi forza, e più ancora per prepararsi un coraggio fittizio che l'aiutasse a portar a casa la sua condanna di morte, s'era fermato lungo la strada alla soglia di parecchie osterie a bere qualche tazzetta del solito scongiurato meridionale, a far delle celie amare cogli osti e cogli avventori contro questa perla di governo d'italiani, che prima ruba ai galantuomini e poi, se non può scannarli, li mette in prigione.
Quando giunse in vista del Ronchetto, che dominava col suo palazzone come una macchia biancastra sul fondo oscuro del poggio, si fermò un respiro in mezzo alla strada, si appoggiò colle due mani sul pomo del bastone, fermo coi piedi nella polvere a contare le ore che scoccavano alla Madonna del Bosco. ‑ Sette... otto... nove... nove e mezzo... ‑ contò, movendo un dito dopo l'altro come se sonasse il cembalo. A quest'ora a casa sua dormivano già. Che faceva lì nel buio, nel deserto di una strada? Se invece di voltar verso le Fornaci avesse preso il sentiero che scende all'Adda? Or sì or no, a seconda dei voli del vento, s'egli stava a sentire, saliva il rumore stridulo dei fiume a dirgli qualche cosa. «Cani, cani, cani» diceva mentalmente con forza; dopo tre generazioni di galantuomini, dopo quasi ottant'anni di onesto e indefesso lavoro, tràcchete, i Lanzavecchia erano costretti a dichiarare il loro fallimento, a lasciar portar via le fornaci, la terra, la casa, vale a dire costretti a cercar l'elemosina, a mangiare il pane degli altri, a patire il disonore come se si trattasse d'una stirpaccia di scongiurati italiani.
Insieme alla brutta parola di fallimento l'avvocato di Oggiono aveva fatto capire per giunta che il tribunale avrebbe cercato i libri. Che libri?
I Lanzavecchia avevano scritto su tutti i muri: «Poveri, ma onesti...» questo sì; ma era inutile cercar loro dei libri. ‑ Sarebbe bella, ‑ disse sospirando e fermandosi un'altra volta presso il muro del camposanto, su cui batteva il chiarore d'un pezzo di luna avvolta in una nuvolaglia piena di guizzi di caldo, ‑ sarebbe bella che si dovesse, per far presto, andare in galera.
E come se all'idea sola di questo curioso accidente si svegliasse in lui la voglia di ridere, rise un pezzo di sé stesso, dondolandosi sulle gambe stracche, facendosi vento al viso infiammato col cappello. In quel camposanto lì vicino era sepolto Galdino Lanzavecchia suo padre, che portava sul capo una croce di sasso con su scritto in parole di bronzo: «Negoziante probo ed onesto...». Vicino a questa ce n'era un'altra di croce, d'un sasso vecchio vecchio con su scritto in parole, sbiadite: «Nicodemo Lanzavecchia uomo operoso e integerrimo...». Sarebbe stata bella, gamba d'un cane, che i suoi figliuoli dovessero scrivere sulla terza: «Mauro Lanzavecchia, fallito come un governo»...!
Soltanto a pensarle queste cose, sudava nella freschezza che la valle mandava su; ma egli aveva la fornace di dentro. Era un calore che, gli abbruciava le viscere, che tutta l'acqua dell'Adda non sarebbe bastata a spegnere. Che gli restava di fare? annegarsi? attaccarsi a una trave della stalla prima che il governo mandasse i carabinieri ad arrestarlo? ‑ O povero me! o me disperato per sempre! che cosa ho io fatto di male in tutta la mia vita? poveri morti, ditelo voi, se non ho sempre lavorato con giustizia e con carità. E doveva proprio toccare a me questa maledizione, a me che ho salvato cento volte gli altri, e non solo a parole, ma coi fatti, coi fatti, coi fatti...
Un passo dopo l'altro, guidato dalla pratica che fa trovare all'orbo la strada della dispensa, venne fin presso le case del paese, fin all'osteria della Fraschetta, che fa quasi da sentinella sull'incontro delle strade. Un chiarore caldo traspariva attraverso le tendine rosse della porta, da cui usciva anche un brontolare spesso di voci rotto dai colpi di nocca che i giocatori lasciavano cadere sul banco.
Mauro montò sul primo dei tre scalini che mettono alla bottega e cercò di ficcar l'occhio dentro per vedere chi c'era. Attraverso agli interstizi, che lasciavano le tende flaccide e molli, vide la solita compagnia, cioè il mugnaio del Lavello, il sarto, il magnano idraulico, il beccamorto, raccolti sulle ultime tre carte di una partita a tresette, a cui assistevano, fumando un'oncia di pipa, due o tre villani scamiciati. Una lampada tonda a petrolio versava dal palco su quel gruppo di faccie indurite dall'attenzione una luce cruda e lividastra che sbiadiva sul fustagno sporco, sulle rozze camicie, lasciando ombre nere negli angoli più segreti della stanza.
Mauro cercò se c'era in bottega Francesco, l'oste, il più grosso de' suoi creditori. Avaro come una formica, arido come l'esca, non era uomo da regalare il suo a nessuno, ma il fornaciaio sperava che in considerazione del pattuito matrimonio fra Battista e la Fiorenza, trattandosi di mescolare il sangue e i denari, l'oste avesse ad accettare una combinazione, che permettesse a un povero uomo di vivere gli ultimi giorni in casa sua e di morire nel suo letto.
Forse era conveniente parlargliene subito e strappargli di bocca una promessa prima che la notizia del dichiarato fallimento gli arrivasse all'orecchio.
Esitò un momento prima d'entrare, perché, tra i soliti avventori seduti al banco, c'era la lingua maledica del mugnaio di Lavello, al quale Mauro si era creduto in obbligo di dare in più d'un'occasione, qualche lezione gratuita di educazione e di saper vivere. Gli pareva già di sentirne i commenti: ‑ Come? (avrebbe detto il mugnaio) un sapientone come Mauro Lanzavecchia ha fatto crac? non è lui quello che inventò la polvere di pimpirimpara e la trivella per succhiellare i maccheroni? non aveva le mani piene di consigli per tutti gl'ignoranti, che facevan diverso da quello che faceva lui? non ha in casa un avvocato che stordisce l'Europa e il mondo intero colla profondità del suo immenso sapere?
Più d'una volta e forse più di quel che era necessario, il fornaciaio aveva vantato all'osteria davanti a quei quattro o cinque zoticoni il talento eccezionale di suo figlio Giacomo, un filosofo di primo ordine, capace di mettere in un sacco tutti i professori di Pavia. Quando l'Istituto veneto ebbe assegnato il premio alla dissertazione, Mauro era venuto appositamente alla Fraschetta colla Gazzetta di Venezia in mano, l'aveva distesa sul banco, perché leggessero, se sapevano leggere, quel che a Venezia si stampava in intuito di un Lanzavecchia delle Fornaci; e picchiando col dito sulle parole, nell'effusione dell'orgoglio paterno, aveva sostenuto che l'Italia avrebbe avuto un altro Cesare Cantù, o qualche cosa di più rotondo ancora.
Nulla più offende l'orgoglio degli ignoranti quanto il trionfo d'un confinante, nel quale, come avviene anche in politica e nella stessa filosofia, si suol vedere un pericoloso competitore, e come tale, il primo e il più vicino dei nostri nemici. Si aggiunga che l'orgoglio umano è cosi fatto che ogni lode data agli altri par sempre qualche cosa che non viene data a noi, o che ci vien sottratta, o per lo meno che ci vien ritardata con ingiustizia e di cui dobbiamo un giorno o l'altro rifarci con un proporzionale risarcimento. Era naturale adunque che gli ignoranti e gli invidiosi ridessero ora colla bocca larga del gran talento di casa Lanzavecchia e si pigliassero sulle disgrazie di Mauro, non solo il capitale, ma anche gli interessi delle cambiali ch'egli aveva scontato in anticipazione. Sarebbe troppo infelice la vita degli sciocchi, se Dio non riservasse loro di tanto in tanto di queste consolazioni.
Questi riflessi, che si presentarono in nube, quasi di scorcio alla mente di Mauro, lo trattennero un poco sulla soglia dell'osteria e forse se ne sarebbe andato via senz'altro, se uno di quei contadini che sedevano nell'osteria, aprendo improvvisamente la porta, non l'avesse riconosciuto e salutato a voce alta. Egli si trovò così nella bottega portato da una volontà più forte del suo orgoglio. Girò gli occhi intorno e visto Francesco che sonnecchiava dietro una tavola, colle spalle appoggiate al muro e le braccia incrociate, il capo cascante, la berretta sugli occhi, passò in mezzo al frastuono dei giuocatori, che commentavano rumorosamente la partita, e, sedutosi in faccia all'oste, lo toccò, dolcemente nel gomito.
‑ Siete voi? ‑ fece l'oste, dopo aver aperti dogliosamente gli occhi. ‑ Ebbene? che vi ha detto l'avvocato?
‑ La va male, Cecco... ‑ disse il fornaciaio con voce coperta da un pesante affanno.
‑ Cioè? ‑ tornò a domandare l'amico, senza distaccare le spalle dal muro, al quale pareva incollato, socchiudendo di nuovo gli occhi impiombati dal sonno.
‑ Cioè... ‑ disse Mauro, che vedendo passare il piccolo dell'osteria, gridò: ‑ Tu, portami un mezzo litro del tuo scongiurato meridionale. ‑ Poi riprese sottovoce: ‑ La va da cani, Cecco, ma non è detta ancora l'ultima parola in quest'Africa maledetta. Solamente voi, dovete procurarmi altre cinque mila lire.
‑ Non vi conviene, Mauro ‑ disse l'oste colla voce fredda con cui soleva tirar le somme agli avventori. E come se non avesse più nulla a dire, chiuse la bocca e tornò a lasciar cascare la testa
‑ Voi non sapete quel che c'è in aria... ‑ disse Mauro, che per darsi un po' di forza riempì la tazzetta col vino che il ragazzo mise davanti; e dopo averla trangugiata tutta d'un fiato: ‑ Son quarant'anni che faccio il fornaciaio e sfido a trovare un mattone più sincero del mio.
‑ È il vostro torto di lavorar troppo bene ‑ osservò l'oste che sapeva a memoria la sua filosofia, aprendo un poco gli occhi rimpiccioliti di fronte alla luce tagliente della lucerna.
‑ Comincio ad accorgermi d'essere sempre stato una bestia, ‑ disse Mauro, alzando alquanto la voce e lasciando cadere con forza la tazzetta sul piatto.
‑ Non bisogna mai dirlo, Mauro... ‑ saltò su dal banco del giuoco il mugnaio, che parlò senza togliere gli occhi dal ventaglio delle sue dieci carte sporche...
‑ Sì, il mio torto è di non aver saputo fare l'italiano a tempo... ‑ replicò vigorosamente l'altro, facendo un mezzo giro sulla panca e alzando in aria una mano. Poi stendendo l'altra a stringere con uno slancio d'amicizia il polso dell'oste: ‑ Potete dire che i Lanzavecchia abbiano mai venduto lucciole per lanterne? mio padre Galdino, mio nonno Nicodemo...
‑ Altri tempi ‑ fu presto a interrompere l'oste, un uomo piuttosto indifferente per i grandi principi della giustizia. ‑ Una volta, ‑ soggiunse poi con un sorriso secco, che stentò a muoversi sulla sua bocca asciutta priva di labbra ‑ una volta il vino lo si faceva anche coll'uva.
Mauro sentì il veleno dell'argomento e battendo due volte la tazzetta sul banco:
‑ Lo so ‑ disse ‑ che in un paese di ladri chi non ruba mangia il suo pane a tradimento. Voi però non mi abbandonerete, Francesco.
‑ Io faccio l'oste, vedete ‑ osservò il compare, indicando con un piccolo gesto i suoi avventori, il banco, la lucerna. E tornò a chiudere gli occhietti cenericci.
‑ Volevo dire che questi nostri figliuoli devono maritarsi a San Martino.
‑ Ecco! ‑ riprese l'oste, mandando avanti una sua favorita particella dimostrativa, colla quale soleva, come con una lanterna cieca, illuminare le idee degli altri e fare il buio sulle proprie. ‑ Anch'io dovrò fare i miei conti.
‑ Non li avete già fatti mille volte questi benedetti conti? ‑ notò con un tono di rancore il fornaciaio.
‑ Non si finisce mai di fare i conti. Se con poco si fa poco, che cosa volete che si faccia con niente?
‑ Volete dire, se capisco il latino, che poiché io sono un uomo fallito, mi si può, parlando con poco rispetto...
L'oste lo pregò con un gesto frettoloso della mano di non gridar troppo forte. Ma l'altro, che attingeva l'eloquenza dalla tazzetta:
‑ Ho capito, ‑ seguitò con più calore ‑ volete dire che poiché m'è entrata la disgrazia in casa, la vostra Fiorenza...
‑ Non gridate sui tetti i vostri interessi, benedetto uomo ‑ tornò a raccomandare vivamente il buon Francesco della Fraschetta, distaccando la schiena dal muro, rianimando gli occhi sotto la tesa della berretta, che faceva un color solo col colore scialbo del suo viso teso, liscio, immobile come un viso di legno.
‑ Sì, ora mi si può, con licenza parlando, sputare addosso, ‑ seguitò il fornaciaio con voce scalmanata. E dopo aver sogghignato il tempo necessario per inghiottire il fiotto amaro di saliva che gli inondava la bocca: ‑ Allora ‑ riprese, porgendo il fiaschetto vuoto al ragazzo ‑ portamene un altro di questo tuo scongiurato veleno. E a voi, eccovi i vostri soldi.
Così dicendo, stese una gamba tra la tavola e la panca, infilò una delle sue grosse mani nella tasca dei calzoni, ne trasse una manata di soldi e, fattone un pugnetto, lo batté sul banco, sotto il naso dell'oste, che, avvezzo a queste ed altre mimiche, non dette segno di meraviglia.
‑ Così non direte che Mauro Lanzavecchia abbia bevuta una goccia del vostro vino senza pagare. E in quanto alla vostra Fiorenza, se vi piace sentire, vi dirò che un Lanzavecchia si degnava fin troppo di bere a questo boccale.
Parole grosse, cattive, superbe, che, una volta uscite, lasciarono il buco fatto per tutte le altre che vollero tener dietro.
L'orgoglio di tre generazioni di galantuomini, infiammato dalle molte tazzette di vino bevuto nella giornata, non troppo d'accordo tra loro, e mal trattenuto da una volontà già sconnessa per troppi colpi, traboccò in epifonèmi e in dichiarazioni che avrebbero fatto onore a un principe del sangue, non che a un fabbricatore di tegole; ma in quel momento, in quel sito, sulla bocca d'un uomo così scassinato nel credito, non ebbero la forza di far tremare nessuno.
I giocatori, al diavolìo che faceva il Bismarck delle Fornaci, dissero, parlando sommessamente tra loro:
- Pare che laggiù si guasti la parentela.
- È la tazzetta che suona ‑ osservò il magnano.
- La superbia non paga debiti ‑ notò con burbanza il mugnaio del Lavello. ‑ Staremo a vedere quel che stamperanno le gazzette questa volta.
Mauro poco prima che sonassero le dieci e mezzo si alzò, facendo puntello coi pugni sulla tavola, e con passo che voleva essere da bersagliere, traversò lo spazio libero dell'osteria, avviandosi alla porta senza salutare nessuno.
Prima però di chiudere l'uscio dietro di sé, parendogli di non aver detta l'ultima ragione o che tutti quei bravi signori avessero bisogno d'una soddisfazione, si voltò verso di loro, che aspettavano cogli occhi aperti, mosse la mano allargata a guisa d'un ventaglio, la girò nell'aria, come se la sfregasse su un muro, e quando vide tutte le faccie immobili e tutte le bocche attente, mise fuori con misurata intenzione la morale solenne della favola:
‑ Vicende umane, oggi la lepre, domani il cane!
E si tirò dietro l'uscio, mentre un rumoroso scoppio di risa accoglieva questa sentenza nova novissima, non mai udita, non mai stampata sulle gazzette.