Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Giacomo l’idealista

PARTE PRIMA

VII. All’ombra delle piante.

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VII. All’ombra delle piante.

 

ALCUNI giorni dopo la morte del povero Mauro, il conte Lorenzo con un biglietto pregava Giacomo Lanzavecchia di lasciarsi vedere in un'ora tra la colazione e il pranzo, avendo a fargli una proposta di grande importanza. Nella dolorosa circostanza della malattia e della morte del vecchio fornaciaio, i signori del palazzo avevano dimostrato alla famiglia una così gentile e pietosa sollecitudine che Giacomo sentì il dovere e il bisogno di vederli, di ringraziarli, e di udire nello stesso tempo una parola che non fosse una volgare consolazione.

Mutò i vestiti, che in quei giorni di trambusto non si era quasi tolti di dosso, e, detta una parola alla mamma, che rincantucciata in cucina non faceva che piangere e sospirare, prese a salire lentamente il ripido sentiero, che dalle Fornaci va al palazzo del Ronchetto per la più corta.

Quantunque fossimo oltre la metà di settembre, faceva ancora un bel caldo: e dalla strada sassosa e dal muro del giardino riverberava una vampa così ardente, che Giacomo provò un vero refrigerio quando, valicata la soglia della cancellata, si trovò nel fitto delle belle piante, nella dolce freschezza dell'ombra, per quei silenziosi viali a lui noti che, come le ore dei signori disoccupati, non hanno mai fretta di arrivare alla mèta.

Il contrasto tra il disordine, la disperazione, le angoscie della sua povera casa in babilonia e l'ordine, la compostezza, la pace elegante, che circondavano la dimora di questi signori, richiamò al pensiero del filosofo l'osservazione alquanto vieta e volgare: che il male e il bene non son distribuiti con molto giudizio sulla terra. I suoi dolori non gli permisero questa volta d'arrivare fino alla conclusione che anche le case dei ricchi possono essere l'albergo di dolori inenarrabili. Quando ci duole un dito, tutti i mali del mondo ci picchian dentro; e non solo ci sembra che il nostro male vada a urtare in tutti gli spigoli, ma facciamo del nostro dito malato il centro del dolore universale. Era naturale e compatibile adunque che anche Giacomo portasse un po' d'invidia a questa brava gente, a cui, oltre ai beni materiali della vita e al fascino della ricchezza e del nome, non mancavano i meriti della virtù, della rassegnazione che la fede, e i conforti che derivano dalle buone opere; com'era naturale che venisse a cercare all'ombra di questa felicità e di questa pace, un po' di riposo. Sentendo scoccare le due e parendogli ancora troppo presto, pensò di mettersi a sedere su una panchina che l'invitò presso un folto cespuglio di oscuri evonimi, per dar tempo al conte di finire il solito sonnellino, che aiutava mirabilmente a smaltire il peso della colazione. Senza questo breve viaggetto ai campi Elisi, don Lorenzo, che alla tavola soleva cercare volentieri le piccole compiacenze del senso, non avrebbe potuto ritrovare il suo appetito fresco per l'ora del pranzo, e una voluttà di meno, soleva dire, parodiando Sterne, è un filo strappato alla già esile trama della vita.

Giacomo, girando gli occhi intorno nella fresca oscurità di quel gran verde che lo circondava, sentì veramente quasi un senso di freschezza insinuarsi e diffondersi nel suo spirito eccitato da troppe violenze.

Il giardino, piantato dal conte vecchio secondo lo stile detto inglese, che simula con arte felice la spontaneità della natura alpestre, è ricco di macchie selvose che il tempo ha rese folte, nasconde molti oscuri recessi, da cui escono anche nei più grandi calori quasi un continuo tremito di freschezza e un bisbiglio continuo di uccelli. In mezzo alle macchie scure delle conifere, tra cui luccicano con verde più chiaro le magnolie e gli allori, costeggiando l'orlo delle praterie aperte al sole, girano i viali larghi, placidi, senza un ingombro, secondando le ondulate varietà del clivo, ritorcendosi in sé stessi, intrecciandosi, diramandosi in stradicciuole e in sentieruzzi quasi selvatici, che ti menano a luoghi perduti, a grotte umide di segreti stillicidi, a finte rovine, a segregate solitudini, ove dorme da cinquant'anni tra l'edera e il muschio una gelida ninfa di sasso. Dove i viali si incrociano, è bello vedere per diverse porte aprirsi di qua il gran verde, più in un pezzo della valle coll'Adda, che striscia e luccica in basso, altrove un fianco del palazzo, che domina colla torricciuola imbandierata sul fondo del cielo, ora verso un tempietto di marmo, che si specchia in un verdognolo stagno, ora verso alcune creste del Resegone, che l'arte ha saputo tirar nella cornice, o su un gruppo pittoresco d'alberi secolari, che, mascherando il muro di cinta, dànno a chi passeggia l'illusione d'una selva grandiosa, lontana da ogni consorzio, quali dovevano esser le primitive selve che accoglievano gli uomini erranti.

Giacomo, come si è detto, conosceva tutti i segreti di questo paradiso terrestre, ch'egli aveva cominciato a frequentare da ragazzo ed era, in certa qual guisa, cresciuto con lui: talché poteva considerarlo un poco come suo, per quel diritto di possesso morale, che abbiamo su tutto ciò a cui è attaccata una parte della nostra fanciullezza.

Quando viveva ancora la vecchia contessa, madre di don Lorenzo, Giacomo era solito salir tutte le mattine a servir la messa, che si celebrava nella cappella del palazzo. Strada facendo, nell'attraversare il giardino, la sua festa era di andar per le macchie, a ritrovare le traccie dei nidi degli usignuoli e dei capineri, che in primavera facevano nei boschetti una orchestra. Fu appunto per la sua docilità di carattere, per il suo raccoglimento religioso, per il suo viso delicato sotto i riccioli spessi di un color quasi d'oro, per la sua speciale devozione alla Madonna, che donna Matilde, detta ancora oggi la contessa vecchia, formò l'idea che si potesse cavare da Giacomino un buon ministro del Signore e nello stesso tempo un buon cappellano per la casa. Se ne parlò a don Angelo, che persuase Mauro a non lasciar scappare una così bella occasione. Il , che aveva imparato dai suoi vecchi a ricevere tutto quel che veniva dal Ronchetto come una benedizione, non seppe dir di no: la mamma vide subito il vescovo nel suo figliuolo; e Giacomo fu vestito da prete. Nelle vacanze tornò sempre a servir la messa in palazzo, finché visse donna Matilde, e quando, morta questa, cominciò a comandare donna Cristina, il chierichetto non cessò d'essere considerato come un figliuolo della casa; anzi, siccome don Giacinto cresceva un po' pigro e sventato, la contessina pensò di servirsi di Giacomo per dargli un compagno buono, studioso, che gli si imponesse colla serietà del carattere. Toccò dunque al pretino l'incarico d'accompagnare il contino, non solo alla messa tutte le mattine alla Madonna del Bosco, e di esercitarlo nel leggere e nello scrivere, ma gli fu compagno nella caccia colla civetta, lo seguiva al «Roccolo» di don Andrea, o nelle escursioni ch'egli volesse fare nei dintorni. Allo spuntare dell'alba, tutte le mattine di bel tempo, era sotto le finestre di don Giacinto a tirare sassolini nei vetri, colle gabbiette e le canne del vischio sulle spalle, finché il piccolo poltrone si risolveva a cacciar le gambe dal letto. Uscivano insieme a correre nei prati umidi dell'Adda, a tendere nei boschetti di nocciuoli insidie e trappole ai passeri e ai fringuelli, finché la fame, che si risvegliava presto negli stomachi digiuni, faceva levare i cartocci della colazione. Molte volte il contino cedeva il suo pollo fritto e lo spicchio del suo pasticcio per gustar la polenta fredda e il caciolino del compagno; ma qualche altra volta l'umore dell'eccellenzina non era molto trattabile. Per quanto Giacomo avesse qualche anno di più e vestisse da prete, i vizi e l'orgoglio dei sangue si ribellavano non di rado agli ordini e alla dottrinetta del pedagogo, che mammà mandava per far la spia; e più d'una volta all'ombra delle siepi di sambuco, e negli aridi fondi dei ghiaieti, tra il nobile spavaldo e prepotente, e il giovine povero, che sentiva fin d'allora la forza della sua aristocrazia morale, erano corse amare parole e qualche cosa di più solido. Un giorno don Giacinto, vedendo di non poter spuntarla, minacciò di ammazzare il suo chierichetto con un tremendo coltellaccio, che aveva levato dal cassetto della cucina; e da quel Giacomo non ne volle più sapere. L'uno fu messo in collegio presso i Gesuiti, l'altro partì per gli studi di teologia, e non si videro più, se non a brevi intervalli, come due uomini che camminano in senso inverso, si voltano e si rivedono di tanto in tanto sempre più confusi e sempre più rimpiccioliti, finché l'uno non sa più nulla dell'altro.

Giacomo, nel tiepido silenzio di quel caldo pomeriggio di settembre, nel riandare col pensiero in modo saltuario e confuso a queste memorie d'altri tempi, ricordava il giorno, in cui era venuto a dichiarare a donna Cristina che la sua coscienza non gli permetteva più di vestir l'abito ecclesiastico. Fu una grande battaglia, la più terribile battaglia de' suoi vent'anni, di cui le piante del giardino eran state non insensibili testimoni. Oh se avessero potuto parlare, e dir quante lagrime egli avesse sparso nei dolorosi istanti del suo combattimento, quando invocava inutilmente da Dio il coraggio d'una risoluzione che avrebbe suscitata una tempesta! Quasi vicino a toccare la mèta, dopo aver goduto per dodici anni i benefici in una casa che aveva pagata sempre la sua pensione e sollevata la sua famiglia da tutte le spese, dopo aver ridestate molte speranze nei professori, nei compagni, nel cuore dei parenti, che vedevano già in lui il difensore della chiesa, egli era arrivato al punto scabroso di dover rinnegare tutte queste speranze e tutti quei benefici. Il doloroso segreto non era ancora uscito dal suo cuore, ma sentiva questa necessità crescere, giganteggiare, sospingere la sua coscienza.

Per quanto rumorosa e aspra potesse essere la meraviglia della gente, tuttavia qualunque rimprovero gli doveva sembrare più sopportabile di fronte al rimorso di commettere un tradimento sull'altare di Dio. Dopo aver cercato inutilmente vicino a sé un amico o un confidente discreto, che l'aiutasse a essere sincero, fu quasi per un istintivo consiglio del cuore che si lasciò condurre a confessare il suo tormento a donna Cristina. La scena gli era ancor viva davanti agli occhi. La contessa l'aveva fatto chiamare per consegnargli, secondo era sua abitudine, alcune piccole elemosine da distribuire ai vecchi più poveri. Era una domenica piovosa. Essa portava ancora il lutto per la morte recente di donna Matilde. Gli parlò di Giacinto, gli mostrò una bibbia illustrata del Doré, lo pregò di scegliere alcuni versetti d'un salmo adatti per una miniatura, e, mentre essa parlava e si moveva nella luce blanda della finestra, il cuore di Giacomo batteva d'un'insolita commozione. Colle lacrime agli occhi, egli cominciò a parlare: e la buona signora lo lasciò dire, lo lasciò piangere un pezzo, lo compatì, gli parlò da buona madre e prese sopra di sé l'impegno di persuadere il conte, lo zio prete, i parenti. ‑ Lei potrà far del bene lo stesso e anche di più, ‑ gli aveva detto ‑ e son persuasa che i Magnenzio non avranno mai a pentirsi d'aver incoraggiato il suo ingegno e la sua volontà.

Da quel giorno Giacomo aveva avuto per donna Cristina un sentimento di illimitata gratitudine, quasi di venerazione, e avrebbe voluto che si presentasse una grande occasione per dimostrarle che i benefici di casa Magnenzio non erano caduti a nutrire un ingrato. A lei aveva più tardi confessato il suo amore e le sue idee per Celestina, provando nel rivelare alla gentildonna il dolce segreto del suo cuore il sollievo stesso che aveva provato qualche anno prima a piangere davanti a lei.

Dolci memorie, che tornavano a consolarlo in questi nuovi frangenti in cui era venuto a cadere! E fu per godere più a lungo della freschezza, dirò così, di questi pensieri che invece di procedere pel viale di mezzo, che va diritto all'ingresso del palazzo, piegò pel piccolo viale, detto dei carpini, per una lunga allea di queste piante, che il gusto architettonico del vecchio conte Massimiliano aveva fatto ritagliare a foggia di portici con arcate, disposte intorno a un obelisco in una piazzuola deserta, che pareva preparata per un minuetto di fate.

Quando fu giunto presso l'obelisco, s'imbatté in Celestina, che usciva dal viale della serra con un gran mazzo di fiori freschi da mettere in tavola. Appena essa vide il giovane, trasalì, cercò sfuggirgli, ma non fu più a tempo.

***

 

‑ Sei tu? ‑ le disse lentamente Giacomo, senza quasi alzare gli occhi ‑ la povera mamma ha cercato più volte di te.

Povero zio...! ‑ mormorò Celestina; e come se in quella compassione cercasse un pretesto per liberarsi da una grande sofferenza, che le riempiva il cuore di lagrime, portandosi frettolosamente l'angolo del grembiale al viso, pianse in modo così dirotto che mosse Giacomo a piangere e a confortarla.

‑ Tu gli volevi bene, lo so, e lui te ne ha sempre voluto a te come una sua figliuola. Ma chi sa che egli non sia uscito dalle tribolazioni...

‑ Oh sì, oh sì! ‑ ripeté la ragazza senza levare il grembiale dagli occhi, acconsentendo con forza.

Tocca ora a noi aver del coraggiodisse Giacomo colla voce insinuante e tenera, che gli usciva naturale, quando una forte emozione agitava il suo spirito. E alzando una mano, volle asciugare egli stesso col grembiale gli occhi della giovane, che voltò via il volto e rimase come intimidita davanti a lui. ‑ Tocca a noi, non è vero Celestina? Quest'anno ero tornato con molte speranze. Credevo proprio che sarebbe stato l'anno buono di coronare il nostro amore, ma Dio non vuole: pazienza! Sarei un cattivo figliuolo, se pensassi a me in questi momenti così dolorosi, in cui sento che resto solo alla testa della mia povera famiglia. No, l'avvenire è troppo scuro e prevedo che dovrò rinunciare a molte altre speranze.

Celestina fece uno sforzo per prendere la parola, ma, soffocata da una grande angoscia, portò il palmo della mano alla gota e ve la tenne con uno sforzo rigido e pesante, come se cercasse con quell'atto di energia di sorreggere la testa. Un lampo di disperazione balenò nel suo sguardo, ma Giacomo non se ne accorse. Era uno de' suoi difetti d'andar troppo vagando nelle idee generali anche quando la realtà lo menava in mezzo alle ortiche. Continuando sempre con sommesso tono di dolcezza, mentre andava giocherellando coi coralli della collana ch'essa aveva al collo, seguitò come se parlasse a sé stesso:

‑ Non ho amato che te nella mia vita, lo sai, non potrei essere di nessun'altra. Anche tu mi hai voluto bene e me ne vuoi, vero? ‑ Egli la interrogava col suo sguardo affettuoso, che penetrava nelle radici del cuore. ‑ No? non me ne vuoi più? ‑ insistette con un sorriso carezzevole, passando leggermente la mano sui neri e lisci capelli della ragazza.

Sentite, Giacomo... ‑ proruppe finalmente la fanciulla con una voce lacerata da un dolore sordo e crudele. ‑ È un pezzo che volevo parlarvi di questa cosa, e forse è bene che ve ne parli ora per sempre. Voi non dovete più pensare a me.

‑ Perché io non devo più pensare a te? ‑ chiese senza rancore Giacomo, che prevedeva questi nuovi scrupoli in un'anima delicata.

‑ Perché io non son degna di voi... ‑ E prima ch'egli avesse tempo di protestare, ritrovando nell'eccitazione del suo sentimento la forza che nessuna autorità esterna avrebbe saputo darle, seguitò con tono eguale, quasi freddo, ma convinto, senza togliere lo sguardo dai fiori, che andava sbadatamente sfogliando con le dita: ‑ Penso che la Madonna vi abbia mandato oggi in un momento di dolore, perché io trovi il coraggio di dirvi quel che devo dirvi. Forse è meglio che questo vostro pensiero non si compia mai. Voi non siete più quello d'una volta.

‑ Perché «Frulin», io non sono più quello d'una volta? ‑ disse Giacomo, evocando un piccolo soprannome che il , per far presto, aveva inventato per lei quando era venuta in casa: e mise in questa voce senza senso una tale dolcezza allegra e canzonatoria che Celestina impallidì come se agonizzasse, un velo nero le offuscò gli occhi, e fattasi a un tratto sdegnosa e dura:

Ascoltate, Giacomo ‑ gli disse aggrottando le ciglia. ‑ Quando è nata questa nostra affezione eravamo due ragazzi, e non si poteva sapere dove si sarebbe finiti. Povero voi, poveretta io, ci siam voluti bene senza capire cosa volesse dire volersi bene. Il tempo non è passato allo stesso modo per noi due: io sono ancora la povera ignorante di una volta, mentre voi avete fatta molta strada, e ne dovrete fare molta ancora. Sento come tutti parlano di voi: avete stampato anche dei libri, e ne stamperete ancora; ma per andare avanti avete bisogno di essere libero, di non dover trascinare una povera contadina, che sarà sempre per voi un peso morto. Se io potessi essere la vostra serva... ma vostra moglie è un'altra cosa... Avete bisogno di una ragazza che vi possa seguire e capire... In questa buona casa vedete che non mi manca nulla: e poi, se devo dirvi tutto, da qualche tempo sento una voce che mi chiama.

‑ Che cosa ti dice questa voce «Frulin»? ‑ seguitò Giacomo, sempre sul medesimo tono di chi non vuol pigliare le cose sul serio.

‑ Alcune monache cappuccine, che vengono spesso al palazzo per la questua e che rimasero qualche volta a dormire, mi hanno parlato di quel che soffrono le povere morette in Africa e vorrebbero che io andassi con loro. Poiché non posso essere vostra, voglio essere di Dio. Che cosa volete, Giacomocontinuò con un singulto, come se si sforzasse di reprimere un'amarezza rigurgitante. ‑ Mi pare di essere già stata per voi una cattiva tentazione quel giorno che lasciaste di studiare da prete, con molto dispiacere dei vostri, specialmente dello zio prete, che dopo d'allora mi ha sempre chiamato un diavolo...

Giacomo non poté nascondere un sorriso di compiacenza a questa antica facezia dello zio prete, e avrebbe voluto cominciare a parlar lui; ma la ragazza, trascinata dalla foga appassionata del suo pensiero, non lo lasciò dire:

‑ Non voglio ora essere il vostro inferno, dopo essere stata la vostra tentazione. Lasciatemi andare per il mio destino e voi andate per il vostro. Troverete cento buone ragazze migliori di me, con istruzione, con dote, che vi permetteranno di studiare con meno stenti, che sapranno capire quello che scrivete, che vi faranno onore in società...

Giunta a questo punto, come chi arriva sfinita dopo una gran corsa sulla cima erta d'un monte, le mancò tutt'a un tratto la lena.

Un terribile impeto che, venendo dallo stomaco minacciò di soffocarla, la fece andare indietro di qualche passo: ma la volontà fu ancora più forte del patimento. Non volendo piangere, si portò alle labbra una cocca del grembiule, che prese a mordere, mentre cercava intorno a sé cogli occhi se arrivava qualcuno a liberarla.

‑ Chi mi ha parlato già di queste monache cappuccine e di questa voce che chiama? ‑ prese a dire Giacomo con flemmatica bonomia: ‑ Credo la contessa, una volta: non ho capito ben con quale intenzione, se non fu per mettere alla prova anche la mia vocazione per te...

Da quel fino psicologo che credeva d'essere, Giacomo avrebbe voluto aggiungere che queste titubanze e questi scrupoli nel suo «Frulin» non solo non lo persuadevano, ma erano per lui una ragione di più per voler bene alla sua tentazione e al suo diavolo. Di donne dotte ormai ne son piene le dispense; mentre una donna semplice e sincera non c'è scienza che la possa fabbricare, se non la fabbrica la mamma natura. E avrebbe voluto aggiungere, se fosse stato il caso fare una lezione in quel sito, che quanto più gli uomini sono analitici, complicati, foderati di sapere, tanto più cercano di riposare la testa sul seno d'un amore semplice e naturale, che li aiuti a essere semplici e naturali. I più occulti misteri si svelano nelle anime più ingenue, mentre gli spiriti superbi e raffazzonati non sentono più se non quel che il loro orgoglio permette di sentire. E all'uomo moderno non mancherebbe che questa disgrazia per essere il più disgraziato degli animali, vale a dire, che, dopo aver guastato molte cose belle per il capriccio di voler vedere come son fatte, avesse a guastare anche l'amore, riducendolo a un dialogo tra un filosofo e una donna cogli occhiali.

Questo, ripeto, avrebbe voluto dire Giacomo Lanzavecchia, a una santarella piena di titubanze e di scrupoli inutili. Ma avrebbe «Frulin» penetrato lo spirito della sua sottile psicologia? Si limitò a castigarla con due schiaffetti, soggiungendo:

‑ Avremo tempo di parlar di queste faccende con più comodo. Ora ho troppe cose per la testa. È in casa la contessa?

Celestina accennò di sì col capo.

‑ Vorrei domandarle che ti lasciasse venire tre o quattro giorni alle Fornaci a far compagnia alla povera mamma, che non ha più la forza di reggersi. Mentre io vado dal conte, dille che desidero parlarle... e... e... (girando il braccio intorno alla vita della ragazza, la trasse un poco a sé, premendo le labbra a lungo nel fitto de' suoi capelli) e di' alle monache che il tuo moretto da salvare l'hai trovato da un pezzo.

Giacomo se ne andò pel viale dei carpini, non volendo più far attendere il conte, e lasciò Celestina irrigidita in tutto il corpo, cogli occhi aridi e fissi, col cuore inerte, indurita, come una statua. Quando il giovane scomparve dietro la casa del fattore, venendo a un tratto a mancare in lei la forza artificiale che l'aveva sorretta finora, il suo corpo si sfasciò, e cadde sul margine dell'erba, colla faccia rivolta alla terra, urlando nel silenzio di quella verde solitudine:

- Madonna, Madonna, Madonna, fatemi morire!

 

 


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