Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Giacomo l’idealista

PARTE PRIMA

XII. Le due dame di Buttinigo.

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XII. Le due dame di Buttinigo.

 

Da Caserta intanto seguitavano ad arrivare lettere afflitte e commoventi di Giacinto a mammà, nelle quali il giovane non cessava dal confessarsi colpevole, pentito, spaventato, inorridito della sua cattiva azione, in ansia continua, in preda ai più acerbi rimorsi; egli sperava sempre che la buona mammà avrebbe saputo trovare qualche onesta riparazione, che lo salvasse dal rendere i conti e da uno scandalo. Se mammà lo trovava questo rimedio, egli prometteva di metter giudizio davvero, di non toccar più una carta, di non veder più un bicchiere, di lasciare le cattive compagnie, di abbandonare anche la carriera militare, se era necessario, per darsi tutto a una vita di raccoglimento e di studio. E finì col suggerire il nome delle buone zie di Buttinigo, che più di tutti dovevano sentir compassione di lui, e che avrebbero saputo procurargli i mezzi di spegnere il fuoco, prima che appiccasse l'incendio alla casa.

Le buone risposte si facevano invece molto aspettare. La contessa esitava a mettere altre persone a parte di un segreto, che già si conosceva da troppi. Oltre a miss Haynes e a Fabrizio, dei quali non avrebbe potuto far senza, essa aveva già dovuto parlarne a Fulvia di Breno e lasciare che questa ne parlasse a suo marito. Per un segreto, che essa avrebbe voluto seppellire cento braccia sotto la terra, eran già troppo quattro persone condannate a tacere. Dal parlarne alle pie cognate di Buttinigo la tratteneva, oltre al naturale sentimento di confusione e di rispetto, un più amaro risentimento verso sé stessa, sto per dire, un senso di orgoglio e di dispetto, quasi sdegnasse della sua sventura, non solo il rimprovero, ma la stessa compassione di quelle illustri ragazzone. Donna Adelasia e donna Gesumina, che avevano sempre biasimato il sistema rigido e autoritario con cui la loro nobile cognata credeva di ben educare un discendente di casa Magnenzio, non avrebbero saputo, non dico rallegrarsi, che proprio non era del caso, ma trattenersi dal vantarsi d'aver avuto ragione. Il risultato parlava chiaro. Il latino, il greco, il tedesco, l'inglese, la storia e la geografia e tutta la quintessenza del sapere voluta introdurre per forza in un corpo vivo, come si schiacciano i volumi in uno scaffale stretto, non avevano impedito che Giacinto scivolasse sulla prima buccia di cocomero. Per una madre, che si teneva in continue corrispondenze pedagogiche col canonico Ostinelli, da una parte, e col signor Lanzavecchia, dall'altra, e che consultava perfin dei libri inglesi, via, il risultato non poteva essere più desolante. Donna Cristina, più di ogni cosa al mondo, temeva le grandi ragioni delle anime piccine; e nella sua superiorità morale le temeva senza aver la forza di disprezzarle. Avrebbe potuto alla sua volta rimproverare le pie dame di aver voluto con arti e seduzioni segrete togliere autorità e rispetto all'opera educativa della madre; ma che le giovava ormai il discutere sopra le ragioni e sopra le responsabilità? il castigo c'era, e grande e terribile per tutti.

Quando Giacinto seppe che donna Fulvia di Breno era interessata a fargli del bene, le scrisse una lunga lettera piena di suppliche e di tenerezze. L'antica amicizia, che legava donna Fulvia a mammà, aveva abituato il giovine conte a considerare la di Breno come una persona della famiglia, alla quale si possono fare le confidenze, che a una madre e a una sorella non si fanno: la chiamava, per vezzo, la zietta, e si voleva che avesse avuto per lei una poetica scalmana negli anni della prima fioritura giovanile, quando gli occhi del ragazzo cercano nella donna un'esperienza matura e non barcollante.

«Dica a mammà» le scriveva «che è interesse suo e interesse di tutto il casato di non dare a questo fatto, fin troppo naturale, un'importanza maggiore di quella che ha. Dal momento che non posso sposarla, una cameriera, tanto fa che mi risparmi le noie d'un processo e dei possibili ricatti. Se non bastano quattro, dia otto, dia dieci, paghi fin dove è necessario, e mi salvi dalle scomuniche dello zio monsignore, pel quale io non sono già in troppo odore di santità. Se tarda troppo, ci sarà chi avrà tutto l'interesse a speculare su questo momento d'oblio, e ne uscirà uno chiarivari da teatro diurno. C'è a Bergamo un giornalucolo radico‑massonico tre volte fallito, che mi darebbe volentieri in pasto alle belve per rifarsi d'una certa disdetta, che gli ho inflitta l'anno scorso, quando ci fui di guarnigione un mese. Si figuri con che gusto questi va‑nu‑pieds piglian le occasioni per far guerra al nobilume e al clericalume! Quindi più presto si taglia, più presto si provvede anche alla gloria di Dio. Dica e ripeta a mammà che, se mi tirano in una seccatura, se mi obbligano, puta caso, come dice il canonico Ostinelli, a lasciare il servizio, vado in Africa e non mi lascio più vedere, come un esploratore qualunque».

Donna Fulvia rispondeva, sempre in nome di mammà, che lo scoglio pericoloso era la paura di un certo cugino, che vantava dei diritti sulla ragazza. E Giacinto, di rimando:

«Credo di ricordarmi questo cugino, e, se la memoria non m'inganna, non mi pare uomo da amare gli scandali. Non so fin dove si possa arrivare con lui, perché da un pezzo l'ho perduto di vista; ma, se il signor Lanzavecchia è ancora quel buon figliuolo che mangiava i miei pasticci ai tempi della nonna, non può essere né un mangiapreti, né un fanatico divoratore di aristocratici. Non ha egli studiato coi frutti d'un nostro beneficio ecclesiastico? non ha rosicchiato per molti anni il nostro pane? Se è vero che vuol bene alla ragazza che gusto deve avere di metterla in piazza? dica di me quel che mi merito; non sarei lontano dall'offrirgli delle scuse e anche delle soddisfazioni; si badi soltanto a non fare di lui un terribile alleato dei nostri nemici. Insomma, levatemi da queste angustie, che mi fanno patire le pene dell'inferno. In certi momenti mi prende una tale disperazione e un tale orrore di me che, se non fosse la fede del soprannaturale, mi farei saltare le cervella con un colpo di pistola».

Eran queste frasaccie, che non lasciavano dormire mammà. Nei San Zeno non era sconosciuta questa tendenza a esaltarsi e a ricorrere a rimedi disperati. Essa per la prima si risentiva di questa disposizione di razza in certi momenti, in cui le pareva che il sangue le facesse scoppiare la testa, che il cuore le saltasse fuori dal petto, che la terra le mancasse sotto ai piedi, che cento fantasmi la inseguissero. La sua stessa incapacità a scegliere un piano di battaglia era forse un'altra prova di un temperamento che si lasciava eccitare troppo presto e si logorava in dolorose incertezze. Ogni rumore era diventato per lei una cagione di sgomento, talché bastava che vedesse spuntare dal viale il Camillo della posta colla sacca delle lettere, per provare un tuffo del sangue, un angustioso rammollimento del suo povero cuore.

Finalmente una mattina (verso la metà di ottobre), parendole che ogni risoluzione fosse migliore di quell'atroce agonia, ordinò la carrozza e andò a trovare le due sante di Buttinigo.

Era una giornata piovigginosa con sparso nell'aria un primo brivido invernale.

Infossata nell'angolo della carrozza, cogli occhi fissi al finestrino, passò in mezzo alle case, davanti alle siepi, lungo i filari dei gelsi, all'orlo delle vaste e brune campagne già umide di guazza, senza veder nulla, tranne il suo dolore, che, come spina velenosa, trafiggeva la sua vita.

Dopo quasi un'ora e mezzo di viaggio per le strade malinconiche e fangose, che correvano verso la pianura, la carrozza voltò nel lungo viale di robinie, che mena alla villa delle due contesse.

Queste abitavano nell'antichissima casa, che le aveva viste nascere e che probabilmente, se Dio teneva conto dei loro meriti, le avrebbe viste morire. In quel loro palazzone senza architettura, dai muri lividi, dalle cento persiane chiuse, color brodo, passavano le loro giornate d'estate e d'inverno in una beata agiatezza, rallegrando la vita con modeste opere di beneficenza, coi pettegolezzi del villaggio e delle anticamere, col tarocco e colle tazze di camomilla.

Vestivano sempre in modo eguale come due mosche, con antica eleganza e con quel decoro che non escludeva i pizzi, gli anelli, i braccialetti, e, nelle giornate calde, perfino un po' di trasparenza, che lasciava vedere la carnagione bianca e ben conservata delle loro braccia e delle spalle rotondette. Per diritto di patronato esercitavano una tal quale supremazia sulle quattro monache dette della Noce, che un Magnenzio dei secolo XVII aveva dotate coll'obbligo di soccorrere dieci orfanelle. Queste pie religiose, che, dopo il Signore e la Madonna e i Santi, veneravano donna Adelasia e donna Gesumina quasi come il Papa, sentivano l'obbligo di coscienza di tenerle regolarmente informate, non solo di tutte le indulgenze che vanno attaccate alle vigilie, ai tridui e alle novene, ma anche del bene e del male che si diceva di tutti i preti per un circuito di dieci miglia all’intorno. L’arca santa, cioè il carrozzone foderato di stoffa color castagna colle frangie bianche, dondolante sulle ampie molle, coi passamani guarniti di fiocchi, coi terribili draghi azzuffantisi sulle portiere, usciva ab ìmmemorabili due volte per settimana, tempo permettendo, ogni martedì e ogni sabato, affidato alla prudenza di Rebecchino, invecchiato anche lui come una castagna secca nella livrea, che gli faceva un guscio troppo largo. Al martedì uscivano dalla parte del bosco, facevano una piccola sosta alla Madonnina, dove scendevano a salutare Maria Santissima, comperavano dodici biscotti freschi alla bottega del Caminada, e col trotto sempre uguale dei due pesanti cavalli ritornavano a casa dalla parte del molino. Al sabato la carrozza usciva dalla parte del molino e allora i biscotti li comperavano prima di salutare Maria Santissima.

Donna Gesumina, nella sua vecchia innocenza molto ben conservata, riconosceva volentieri nella sorella maggiore, che era stata fidanzata tre mesi al povero marchese Caccianino, l'autorità d'interloquire in molte cose delicate, che sfuggono all'inesperienza d'una zitella; e per parte sua, donna Adelasia, mentre si sentiva lusingata da questa affezione rispettosa e sottomessa, parlando della vecchia ragazza, usava un tono di dolce compatimento, come si fa coi bimbi che hanno bisogno di protezione. Quantunque facessero la vita in comune, si alzassero alla stessa ora, bevessero e mangiassero insieme nello stesso salotto e discutessero insieme col Rebecchino su quel che si aveva a preparare in occasione degli inviti straordinari, pure era tale la deferenza di donna Gesumina per donna Adelasia che, senza accorgersi, vedeva, pensava e parlava colla volontà della sorella; fin al punto che, se questa sentivasi la bocca amara o una trafitta in una gamba, pareva anche a lei d'aver la bocca amara e la gamba indolenzita. Questa fusione di due anime e di due corpi, consolidata da cinquant'anni di vita comune, era diventata così intima e omogenea che le due vite non facevano più che un metallo solo, il quale, toccato, dava un suono solo, perché le vibrazioni dell'una non potevano essere che le vibrazioni dell'altra. Non era possibile, per esempio, che una cioccolata avesse fatto peso all'una e non all'altra; o che l'una sentisse il bisogno di prendere due dita di magnesia calcinata, senza che questo bisogno non ci fosse anche dall'altra parte. Se non oggi, avrebbe fatto bene domani.

Le due signore stavano nel gran salone a pian terreno verso la corte, che serve di galleria ai ritratti degli illustri antenati, dove passavano gran parte delle loro tranquille giornate. Donna Gesumina, per rompere la tetraggine del tempo, ripeteva sul pianoforte le vecchie variazioni sul «Carnevale di Venezia», ch'era stato il suo piccolo trionfo all'Accademia finale nel Collegio delle dame inglesi, la bellezza di quarant'anni fa; quando donna Adelasia che ricamava a un telaio presso la vetriata, sorse improvvisamente a dire:

Guarda un po', Gesumina, chi arriva con questo tempo.

La carrozza di donna Cristina entrava in quel momento nel cortile sotto una pioggia fitta.

Le due dame, che non aspettavano anima viva in un giorno come quello, quando ebbero riconosciuto nella signora elegante, che discendeva, la bella figura della loro cognata, mandarono una esclamazione sola:

‑ Che cosa può essere accaduto?

E ancora più si sgomentarono quando, dal passo incerto, dal pallore, dall'affanno con cui la contessa entrò in sala, capirono che qualche cosa di grosso era nell'aria.

Donna Cristina, con questo tempo? non è mica successa una disgrazia...

Donna Adelasia invitò la parente a prendere posto nell'angolo a destra, dove essa soleva ricevere il lunedì e il mercoledì. Donna Gesumina riceveva ogni giovedì nell'angolo a sinistra. Le piccole differenze d'opinione e di metodo potevano far nascere delle diffidenze, ma scomparivano nel gran rispetto che le due dame avevano per la virtù di donna Cristina di San Zeno, nipote d'un vescovo, una delle più specchiate signore della buona nobiltà; e quand'anche maggiori e più crude fossero state le loro diffidenze, sarebbero scomparse allo stesso modo nel cerimoniale largo e ospitale, con cui le vecchie dame continuavano le tradizioni della casa con quel bel decoro che va cedendo il posto, pur troppo, a un borghesismo senza elevatezza e quasi senza dignità.

Le tre signore, dopo aver ben osservato che le porte fossero chiuse, rimasero una mezz'ora in vivo e segreto colloquio. Quando la contessa ebbe esposto il caso, che l'aveva condotta a Buttinigo, con quella delicatezza di parole che il rispetto a sé stessa e alla religione delle parenti esigeva, tornò a piangere così amaramente da far temere una crisi di nervi. Donna Adelasia afferrò subito la gravità della disgrazia e sospirò una breve orazione; e, dopo aver congiunte le mani due o tre volte in atto di scongiuro, vedendo che la contessa era in procinto di perdere le forze, si mosse, levò colle mani tremanti da uno stipo intarsiato la boccetta dell'acqua di cedro, ne riempì tre bicchierini di cristallo, e insistette perché ne bevesse anche la Gesumina.

‑ O Madonna beata, e ci sarebbe forse già il carro davanti ai buoi? ‑ chiese la maggiore delle due sorelle.

Donna Gesumina, che nella sua semplicità di spirito non poteva entrare in tutta la gravità di questi buoi e di questo carro, volendo con una frase interrompere quel pianto nervoso, che le straziava il cuore, provò a dire:

‑ Non si potrebbe intanto far fare una bella novena alla Madonna?

Taci, tacirimproverò con fare tra il burbero e il compassionevole la sorella maggiore, accompagnando le parole con un gesto che pareva dire:

‑ Ci vuol altro che novene adesso!

Gesumina capì che non era il suo posto, e si ritirò in disparte per permettere alle due dame di parlar più liberamente.

‑ Se Giacinto fosse un servitoreriprese donna Adelasia, interpretando il lungo silenzio della contessa come una confessione ‑ se fosse il figlio d'un fattore, o che so io? un esercente, un professionista, il suo dovere, anche davanti alla nostra santa religione, sarebbe di sposare la ragazza, coûte qui coûte.‑. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso, ha detto Metastasio; ma nella sua condizione sociale il caso è più difficile: un conte non può mica sposare una cameriera.

Sicuro, Madonna benedetta! ‑ fece dal suo cantuccio donna Gesumina, che cominciava a capire qualche cosa.

‑ Noi abbiamo dei doveri non solo verso i vivi, ma anche verso i morti e verso quelli che verranno. Per la colpa d'un povero ragazzo, che sarà stato tirato nelle tentazioni, non si possono sacrificare le tradizioni e il decoro di due antichissime famiglie. Non si scherza! Che cosa dirà monsignor vescovo e nostra cugina monaca...?

‑ Che ora voglion nominare superiora! ‑ completò Gesumina, che pareva un'anima smarrita nello spazio vuoto del salone.

‑ Ci sono doveri e doveri, non è vero, donna Cristina? ‑ insinuò donna Adelasia.

‑ Ho io mancato al dovere di madre? ‑ uscì a dire con appassionata tristezza la contessa, a cui la parola dovere risvegliò quasi nell'animo un acerbo risentimento. ‑ Fu appunto per educare mio figlio a sentimenti elevati di virtù e di dignità che ho combattuto tutta la vita. La nobiltà ha i suoi doveri, sì, donna Adelasia; ma nessun dovere si compie bene, se manca la forza morale e l'educazione della mente. Se qualche volta ho potuto sembrare rigorosa verso questo disgraziato, era per tentare di sottrarlo con tutte le mie forze alla decadenza fatale che ci perseguita e al contagio degli oziosi suoi pari. Sono stata troppo superba e Dio mi ha castigata.

Il tono doloroso, non privo di dignità, col quale donna Cristina pronunciò queste parole, sgomentò non poco le due vecchie zitelle, che, incapaci di entrare colle loro piccole cuffie in un concetto superiore, si affrettarono a chiedere mille perdoni, dimostrando che ci doveva essere stato qualche malinteso nelle parole.

‑ Io non ho detto, cara contessa, che qualcuno abbia mancato al suo dovere. Parlavo dei doveri del nostro ceto...

‑ Che cosa si può fare per salvare Giacinto? ‑ chiese la madre, stendendo la mano in segno di pace a donna Adelasia.

I progetti messi innanzi e discussi furono molti. Prima d'ogni cosa, bisognava fare in modo che il conte non ne sapesse nulla, perché nelle condizioni precarie della sua salute, sarebbe stato come un dargli una pugnalata. Non meno necessario era di tener celato il disonore della casa a monsignor vescovo e a tutti i San Zeno, che avrebbero potuto disinteressarsi del povero ragazzo e danneggiare col suo anche l'avvenire di Enrichetta. Infine la prudenza voleva che la ragazza fosse allontanata subito, con un bel pretesto, dalla casa, dove la sua presenza diventava sempre più pericolosa e occasione di scandalo; e poiché un pretesto lo si trova facilmente, sarebbero venute esse stesse al Ronchetto a chiedere la ragazza in prestito per qualche tempo colla scusa di farsi aiutare a finire un certo padiglione di seta, che avevano promesso all'altare della Madonna per la prossima festa del centenario. Anzi, per semplificare di più l'impresa e per non suscitare inutili discorsi, al prossimo martedì l'avrebbero aspettata alla Madonnina della Noce, dove sarebbero andate colla carrozza a prenderla.

E rimasero in quest'accordo.

 

 

 


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