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Per tutta la mattina si agitò e si tenne vivo in questi pensieri di ribellione, che gli mettevano indosso una forza fin troppo calda ed esasperata. Cercò di distrarsi in cento occupazioncelle materiali per far venire l'ora d'andare dalla contessa. Qualunque fosse per essere lo scopo e l'intonazione del colloquio, aspettava e nello stesso tempo gli pareva di temere quest'incontro, molto più che, senza metterla a parte di indegni pettegolezzi, doveva pur provocare da lei qualche provvedimento, che collocasse Celestina al coperto d'ogni mormorazione. Forse era prudenza togliere la fanciulla dalla casa di quei signori, e tenersela vicina per dar qualche soddisfazione ai maldicenti. Dopo la morte del povero pà, egli aveva assunto verso la povera ragazza dei doveri maggiori, quasi di padre e di tutore; e per quanto la nuova risoluzione potesse dispiacere a donna Cristina, egli non poteva assolutamente lasciare esposta una debole creatura alle calunnie del mondo.
Parendogli che il tempo passasse troppo adagio in mezzo a questi pensieri e a questi dibattiti, per distrarsi con qualche operazione un po' complicata trasse dalla rimessa l'antica timonella e si pose all'opera faticosa di ripulirne le ruote, di liberarne l'ossatura dalla ruggine e dal fango, lavò, strofinò con una spugna, dipinse con un pennello i cerchioni, i mozzi, le cigne, versò dell'olio nelle addolorate giunture della logora carcassa, in cui pareva riassunta, come in una immagine visibile e sconnessa, la storia della sua famiglia, e quando finalmente sentì sonare le tre al campanile, salì in camera a vestirsi. Nell'uscir di casa s'imbatté nella mamma, che tornava dall'orto con una gallinetta nel grembiale e disse: ‑ Vado dalla contessa a sentir di Celestina; torno subito...
‑ Dio benedica quei signori, se posson fare del bene a lei e a te... ‑ soggiunse la Santina, spingendo l'uscio della casa, mentre Giacomo si avviava lesto per la strada del Ronchetto. Ai piedi della salita, s'incontrò nel ragazzetto, che aveva portata la lettera all'avvocato.
- Gliel'hai consegnata a lui, Paolino?
- Bravo Paolino, to' ‑ e mise nelle mani del ragazzo un soldone. ‑ Io gli ho mandato a tempo lo zucchero ‑ soggiunse ridendo, rallegrandosi con sé, mentre varcava il cancello del giardino.
Nel risalire pel noto viale dei carpini, già seminato di foglie umide e morte, già coperto della melanconia dell'autunno, provò un presentimento inesplicabile di sgomento, come se qualche cosa si offuscasse, si distaccasse e morisse anche in lui. Mai aveva sentito con tanta pietà la tristezza dell'autunno morente e delle foglie che cadono! Sul punto di raggiungere la soglia della casa, tutti i pensieri della sera prima e della notte mal dormita si affollarono nel suo capo in un miscuglio confuso, che fece un breve intoppo alla sua fermezza. Un velo di nebbia scese ad oscurargli gli occhi; ma fu un'impressione momentanea, da cui uscì animosamente. Nel passare davanti alla finestra della biblioteca, vide al di là dei rami squallidi della glicina la figura vagolante di don Lorenzo, che vestito della sua zimarra rossa, col berrettino d'astracan in testa, frugava tra le carte e i libri; e, per una successione ruvida e scortese di idee, gli sonò nell'orecchio una frase volgare del Brandati a proposito dei mariti vecchi e del fervore delle beghine.
Fabrizio, che stava di sentinella sotto l'atrio dell'ingresso, gli venne incontro col suo passo umile e strisciante, gli fe' un cenno colla mano, lo tirò in disparte:
‑ La signora contessa ‑ disse sottovoce ‑ prega il signor Giacomo di andare di sopra. È alquanto indisposta e le sale son così fredde...
Il vecchio servitore, andò avanti, precedendo Giacomo, non per lo scalone, ma per una piccola scala secondaria, che riusciva, dopo due pianerottoli, in un andito semibuio, da dove partivano due lunghi corridoi sul far d'un convento. Per quanto pratico della casa, Giacomo non si ricordava d'esser passato mai da questa parte, che era la meno bene esposta e la più lontana dalle stanze abitate. Nei tempi andati vi alloggiavano i pellegrini e i frati di passaggio, tanto che al quartiere era rimasto il nome di Cappuccina.
‑ Si accomodi ‑ disse il servitore, spingendo un uscio dissimulato nel muro; e introdusse Giacomo in un salotto addobbato con fredda eleganza, secondo lo stile detto imperiale, con mobili bianchi e freddi, carichi d'ornamenti d'oro, che spiccavano sul verde cavolo delle stoffe di cui eran coperte le pareti e le sedie.
Giacomo, quando si trovò solo co' suoi pensieri, cercò di occuparsi delle cose. La finestra, spoglia affatto d'ogni genere di tende, dava immediatamente sul frascame ombroso d'una grande magnolia, che riverberava il suo verde umido e lucente nell'aria verde di quel salottino, già smorto di colori bassi e squallidi. Sul caminetto di marmo gelido e liscio dominava in un composto raccoglimento il gruppo rimpicciolito delle Grazie del Canova, in mezzo a due tripodi pure di bronzo, imitazione del greco antico. Un basso canapè rasente una parete, a sponde rigide, con piedi di bronzo, freddo e liscio anch'esso come un letto di marmo, era il principale mobile della stanza, tra due seggioloni irrigiditi nello stesso stile, che da cinquant'anni forse non aspettavano più nessuno. Freddo era il silenzio stesso dell'ora in quell'angolo di tramontana, che aveva fama di umido e di poco sano.
Rimasto solo, Giacomo si abbandonò alla timida emozione, che viene da tutto ciò che non si capisce. Perché questo ricevimento clandestino? Che la contessa avesse veramente qualche brutta notizia a dargli?
Fermo nel mezzo della stanza, colla mano appoggiata alla spalliera d'una seggiola, che pareva un piccolo trono, seguì il fruscio lento delle scarpe di feltro di Fabrizio, che gli era parso preoccupato, sentì battere a un uscio, raccolse l'onda morta d'una voce che usciva dalle stanze interne; e Dio sa perché i polsi e il cuore cominciarono a battere dolorosamente.
Sentendo che l'insulsa emozione montava quasi a soffocarlo, mosse qualche passo e si curvò a osservare in uno stipo una piccola raccolta di monete classiche. Non vide la contessa, quando entrò, ma ne sentì la presenza.
‑ Contessa ‑ disse, volgendosi verso di lei: e rimase quasi atterrito alla vista del pallore terreo, all'espressione spaventata del suo sguardo. Sentendosi veramente un poco febbricitante, la signora non era discesa dal letto che per venire a questo colloquio, che non poteva più essere ritardato. La sua persona, avvolta in una vestaglia floscia di flanella, spiccava sul fondo verdognolo delle pareti, come una statua nelle pieghe pesanti del marmo. E qualche cosa di veramente marmoreo era pure nella trasparenza del volto dimagrato e raffinato dall'insonnie, dalla febbre, dall'angoscia morale. Giacomo che non la vedeva da quindici giorni, fu quasi per dubitare che fosse lei.
- Scusi se la ricevo così ‑ essa cominciò a dire, accennando alla semplicità del suo vestire.
‑ Contessa, che cosa è accaduto? ‑ chiese il giovane Lanzavecchia, prevenendola.
‑ O Giacomo, o il nostro povero Giacomol ‑ riprese la signora con un tono quasi delirante, coprendosi il volto colle due mani e rimpicciolendosi davanti a lui.
‑ Che cosa? ‑ fece egli, andandole incontro con impeto e arrestandosi davanti alla persona, che tremava tutta: ‑ Che cosa? ‑ ripeté dopo un momento con voce torbida e mancante.
La contessa, come se si sciogliesse a un tratto da un'orrida rete di ferro, scosse la testa, alzò il viso, posò le mani sulle spalle del giovine, mosse le labbra sotto lo sforzo vano di voler parlare, non potè, le forze l'abbandonarono e, come un corpo che si sfascia, cadde sui ginocchi.
‑ Contessa, che cosa c'è? ‑ ripeté quasi per forza d'inerzia il giovine, vacillando un poco egli stesso, mentre una visione terribile, spaventevole come la morte, balenava nella oscurità della sua mente.
‑ Una grande, una irreparabile disgrazia per me, per lei, povero Giacomo, per tutti ‑ confessò singhiozzando la signora, cercando di farsi ancora più poca nella sua umiliazione.
‑ Si alzi, signora... ‑ balbettò Giacomo tutto smarrito: e poiché essa non dava segno di volersi muovere, egli, mettendole rispettosamente una mano sotto il braccio, cercò di sollevarla; ma la poveretta, prostrandosi ancor di più in una specie di sfinimento fisico, sino a toccare la terra colla fronte: ‑ Punite me, schiacciate me... ‑ singhiozzò di nuovo con voce rotta e agonizzante.
Giacomo ebbe per via occulta la chiara rivelazione di tutta la verità, della crudele verità, che già aveva brutalmente bussato al suo uscio.
‑ Celestina? ‑ domandò con una collera violenta ed aggressiva: né mai interrogazione alcuna fu più piena della sua risposta. Si sarebbe detto che egli interrogasse non per avvicinare, ma per respingere la mostruosa verità, che lo assaliva da tutte le parti.
- Calpestatemi! ‑ sospirò la povera madre.
- Celestina?! ‑ riprese dopo un cupo silenzio, cercando di trattenere la voce ‑ no, non è vero, non è possibile. Noi c'inganniamo a vicenda. Non può esser vero quel che va dicendo la gente. Non mi faccia soffrire così. Si alzi, signora, sono un uomo, so portare ogni male. Si alzi, mi usi questa carità, dica che io m'inganno.
Mentre andava così parlando, col cuore ghermito come dentro una mano di ferro, poté sollevare donna Cristina dalla sua posizione umiliante, e, sorreggendola in un momento in cui parve che le forze stessero per abbandonarla, la condusse a sedere sul canapè: e nella coraggiosa dimestichezza degli istanti supremi, quando non restano che le anime nude a soffrire, le afferrò le mani, che essa si era portate al viso, gliele distaccò con forza, per cercare la fatale risposta nel fondo degli occhi. Essa sostenne un brevissimo istante il suo sguardo investigatore e tagliente: poi, cedendo avvilita, chiuse lentamente gli occhi in una dolorosa agonia. Fu allora che, riassumendo in un nome la formidabile tragedia: ‑ Giacinto? ‑ chiese lui, e strinse nelle sue irritate le piccole mani della contessa, che gemette di dolore. Essa rialzò gli occhi e li fissò con lento e pauroso stupore in viso al giovine, che l'ammaliava co' suoi. Fu un momento di tragico incanto. Giacomo vide balenare nelle pupille della madre una luce di spasimo immenso, che si spense in una piccola lagrima di supplicazione. ‑ Ah Dio! ‑ gemette: e, distaccandosi inorridito, la respinse così brutalmente che la misera donna cadde per la violenza dell'urto col viso sui cuscini, dove non trattenne più nessuna voce di pianto. Il gran momento preveduto, ritardato, temuto e invocato con raccapriccio e con ansioso desiderio, era venuto; ora essa lasciava che tutti i dolori passassero sopra di lei. Si sarebbe detto che tutta la sua vita di donna, di madre, di cristiana, si rompesse sotto la frenesia di quel pianto, che stemperava l'anima, che non voleva riposo.
E Giacomo? era per lui una tenebra fitta, un rumor sordo sotto i piedi come di terremoto, un senso acre e un peso di piombo in tutta la sua oscura esistenza.
A questo fiotto di dolori, di terrori, a questo precipizio improvviso di mali, non resse: e si lasciò cadere pesantemente nella vicina sedia, a cui si aggrappò, còlto da un tremito, da una fisica incapacità di reagire. A poco a poco, passata la prima tumultuosa tempesta, quando gli spiriti cominciarono a calmarsi, si trovarono l'uno in faccia all'altra, sfiniti, come due miseri flagellati.
Fu allora che Giacomo, seguendo la violenza del pensiero, si alzò, e agitando le mani con un movimento di spasimo, con parole che gli uscirono velate e scialbe, come se venissero da un uomo sepolto, ‑ Signora! ‑ disse ‑ non posso più resistere. Qualunque sia la mia disgrazia... aspetto prima di sera una sua lettera... Farò di tutto, perché entro domani le sia restituito il prezzo del disonore...
Non aveva egli ancor finito di parlare che donna Cristina, scattando per una trafitta interiore, sostenuta dalla forza prodigiosa, che la natura femminile attinge da inesauribili profondità, gli pose una mano sulla bocca. Poi colle due mani, che ardevano di febbre, gli strinse la testa, e lasciando sgorgare dal sentimento mite e forte le parole come volevano venire, nel tono confidenziale, che aveva usato con lui quando era un giovinetto, senza la freddezza del pronome signorile: ‑ No, Giacomo, non dite queste brutte parole... ‑ seguitò amaramente ‑ merito ogni oltraggio, non questo. Nessuno crederà mai che noi vogliamo comperare il vostro perdono... Non maledite a questo modo una povera madre. È la mia casa che rovina sulla mia testa, guardate! Il conte non sa ancor nulla, non immagina nemmeno quel che ci fa piangere, ma sarà un gran colpo il giorno che non gli si potrà più nascondere la verità. Pensate, son la madre di Enrichetta, della vostra Enrichetta, che non deve sapere come si soffre e perché si soffre a questo modo. Se potessi dare tutto il mio sangue, perché non fosse avvenuto quel che è avvenuto, fino all'ultima goccia, Gesù lo sa se ne farei il sacrificio. Nemmeno il vostro dolore, Giacomo, è uguale al mio... no, no, nemmeno il vostro dolore!
Nulla c'è di più sacro sulla terra quanto un'angoscia di madre. Il giovine, che avrebbe voluto riprendere il suo risentimento e stringere in una parola d'esecrazione tutti i pensieri d'odio che gli tumultuavano nel cuore, si sentì, se non disarmato, molto impedito ne' suoi movimenti di violenza da queste parole.
Perché avrebbe infierito contro una donna, contro una madre, che si era già umiliata più di quanto a un cuore generoso piace di veder umiliato un nemico?
Questo momento di esitanza bastò alla contessa per impadronirsi della fortezza di lui, perché pare dimostrato che, dove contrasta per un qualunque motivo un uomo con una donna, l'uomo perde sempre, se non vince subito. Giacomo, a cui non era ignota la storia della povera signora, che conosceva quanto avesse combattuto per sostenere l'ideale della sua casa, non seppe respingere con un atto di reazione brutale la seduzione dolente di questa voce, di queste lacrime, di questi occhi supplichevoli, di questa percossa bellezza, a cui le mani del dolore davano una così nobile e appassionata scompostezza. Come poteva dimenticare a un tratto che in questa casa era, si può dire, cresciuto come un figliuolo, e che a questa gente era in gran parte debitore della sua ricchezza morale?
Sentendo in quest'urto di pensiero le più forti risoluzioni venir meno, si avvilì del tutto. Una leggera vertigine lo colse, cominciò a tremare in tutto il corpo, l'occhio si coprì d'ombre per un istante rimase ignoto a sé, forse svenuto. Un vivo senso di freschezza alla fronte e un forte profumo lo svegliò. Donna Cristina, mentre sorreggeva la testa, passava un finissimo fazzoletto inzuppato un'acuta essenza sulla fronte, sussurrando parole, ch'egli non riusciva ad afferrare, come avviene qualche volta nei sogni. A poco poco, riconobbe il salottino, che gli parve immerso in un'acqua verdognola, come se ei sognasse veramente in un fondo di mare; riconobbe la contessa, che, seduta davanti, gli raccontava con brividi di febbre la tristissima storia d'una colpa. Celestina era innocente e il voler incrudelire contro di lei sarebbe stato peggio che calpestare una vittima. Ogni atto di severità, ogni parola acerba di rimprovero, lo stesso abbandono silenzioso sarebbe stato da parte di Giacomo un colpo mortale per la povera creatura. ‑ Il male è grande ‑ seguitava a ripetere la voce, che egli stentava ad afferrare, come appunto capita nei sogni ‑ ma da ogni male si può ricavare una redenzione. Vendicatevi, dice il diritto volgare; perdonate, dice la legge del Signore. Una vendetta contro di noi è una cosa assai facile: ma voi esporreste Celestina al giudizio della gente. Non imploro per me e meno ancora per il disgraziato, che ci ha precipitati in questo abisso: ma, prima di lanciare una pietra, si pensi a quanti cuori ne andrebbero spezzati. Forse che Dio non ci perdonerebbe, se gli chiedessimo grazia con queste lacrime? Celestina per il momento è al riparo di ogni scandalo, e quanto si potrà umanamente riparare sarà riparato.
‑ Non si risuscita un uomo ucciso... ‑ interruppe Giacomo, stendendo i pugni verso la terra, come se provocasse una maledizione: ‑ Dio, Dio, è il disonore, è il ridicolo, è la morte: avete sputato sull'innocenza d'una povera creatura, sulla mia dignità, sulla mia virtù, sul nostro amore...
‑ No, no, Giacomo ‑ supplicò la contessa.
‑ No, no, no ‑ proruppe egli più forte, alzandosi, in preda a un singhiozzare nervoso. E poiché la contessa cercava con un'ultima insistenza di afferrargli la mano, egli se la cacciò con un gesto disperato dentro i capelli, e premendo con spasimo, la fronte corrugata: ‑ Questo è l'inferno, ‑ disse ‑ questa è la maledizione di Dio! Ma, Dio santo, qualcuno pagherà!... ‑ E si mosse per uscire, dopo aver preso di sulla sedia il cappello.
Donna Cristina fece un ultimo sforzo. Stese le braccia verso di lui, mormorando con una scossa dolente del capo:
‑ Giacomo, noi vi abbiamo sempre voluto bene ‑ e pose la mano sulla chiave, quasi per impedire che egli la lasciasse così.
‑ Qualcuno pagherà col sangue ‑ ruggì l'uomo ferito, mentre cercava di aprire; e colla furia di chi invoca uno scampo contro le fiamme che lo inseguono, tirò l'uscio, andò fuori: e, trovata nell'andito oscuro la scaletta, scese a precipizio, a lume d'istinto, uscì a precipizio dall'atrio, pigliando a scendere pel viale della fontana tutto giallo di foglie, senza vedere davanti a sé che una nuvola di nebbia, da cui non riusciva a liberare il capo. Valicata la soglia del giardino, entrò in una vigna, e poi da questa vigna in un bosco di castagni, che viene a cadere quasi sulla chiesa del Santuario, e sempre a corsa discese il dosso del Ronchetto fin sulla strada comunale, che traversò per entrare in altre boscaglie più basse e più fitte, sempre nella direzione del fiume. Così una fiera ferita cerca i cespugli e va a inasprire nei rovi la piaga che sanguina, ma teme, arrestandosi, di sentire più vivo il suo dolore. Seguendo la stradicciuola che costeggia il corso dell'acqua, ora per luoghi aridi, ora per campi di stoppia, ora tra vecchie paludi disseccate, dove i canneti e le scope contrastano il terreno alle alluvioni, egli andava cercando il deserto per poter mandare il suo grido di dolore, un gran grido, che, non potendo uscirgli dalla strozza, minacciava di soffocarlo.
La verità turpe, sguaiata, gli si avventava contro con impeti improvvisi, lo mordeva, facendogli provare orribili strazi, quantunque il caso gli paresse così inverosimile da far pensare piuttosto a un delirio angoscioso e crudele.
Che Celestina fosse perduta per lui e perduta in quel modo nefando, era un pensiero atroce, che spingeva l'animo a propositi atroci: ma quando gli si presentava l'idea che in compenso di questo delitto, egli aveva allegramente accettato e speso un denaro che non era più in grado di restituire: quando ricordava i commenti che la gente da un pezzo andava ripetendo alle sue spalle, erano lampi di vera follia che luccicavano nel suo cervello.
I vili, i bigotti avevano voluto ipotecare la sua coscienza!
I vili, i bigotti volevano pagare a denaro il prezzo di due vite!
Ignominiosa bindoleria! esecrato delitto!
A quest'infamia non c'era che una riparazione possibile: la lama di un coltello nel cuore dell'assassino, o nel proprio cuore. Oh distruzione di ogni illusione! oh rovina d'ogni ideale! Aveva cercato l'uomo morale e non trovava che la belva!
Che farne di Celestina? come proteggerla contro i morsi del mondo? come purificare o almeno giustificare la sua condotta d'uomo pagato? Dove trovare credito e stima e un denaro meno infame per riscattare sé stesso da questa schiavitù? Se egli avesse potuto fare un gran rogo di tutta la sua casa e se in questo rogo avesse potuto gettare sé stesso, non gli pareva ancora sufficiente olocausto per redimersi da questo cumulo d'ingiustizie e di offese, che l'opprimevano. Anche dalle ceneri delle sue ossa sarebbe uscita abbastanza vergogna per far ridere un Brognòlico.
Da qualunque parte si voltasse, si sentiva respinto, come se agitasse in una gabbia irta di punte. A impeti d'odio e di vendetta mescolavansi altre immagini più miti che avevano nella loro desolazione la forza d'arrestarlo sul sentiero.
Alla sua povera mamma non poteva dire: andiamo via, mi hanno assassinato. Egli non aveva il diritto di affamare dei poveri innocenti. O Dio, come mai era potuto venire in questo abisso di mali? In qual parte del mondo era egli vissuto finora, per non accorgersi di questa enorme e grottesca canzonatura, a cui aveva dato fin qui il nome pomposo di ideale filosofico?
A che cosa aveva giovato a lui l'aver studiato tanto nei libri, l'esser vissuto onestamente povero, castamente fedele a una dolce immagine, se all'uomo sapiente e virtuoso non era riservata che una corona di spine e una finale fischiata?
Inseguito, sferzato da questi furori, dopo aver percorso in un vacillamento da sonnambulo forse due miglia nel ghiaieto del fiume, trovato un luogo cespuglioso in mezzo a morti stagni, dove era sicuro che nessun occhio umano poteva rattristarsi della sua vista, si lasciò stramazzare sulla sabbia, che per voglia di mordere strinse nelle unghie e portò rabbiosamente alla bocca. Non aveva più lagrime negli occhi, ma se le sentiva piovere sul cuore.
Il patimento morale, fondendosi col patimento fisico in un unico spasimo, produsse un lungo e doloroso singhiozzo, in cui gli parve che si rompesse tutta la compagine della sua vita. Un'onda amara e verde di saliva rigurgitò e traboccò in un fiotto spumoso dalla bocca, mentre i sudori freddi scorrevano a irrigidire la sua carne.
Rimase così come morto tutta la notte. Fu un sabbionaio che, scendendo sul fare dell'alba con un carro a prendere materiale al fiume, vide quel corpo intirizzito e umido di guazza. Riconosciuto el sor Giacom, lo prese sul carro e lo portò alle Fornaci.