Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Giacomo l’idealista

PARTE SECONDA

VII. Un mazzetto di lettere.

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VII. Un mazzetto di lettere.

 

Donna Fulvia di Breno a Giacinto

 

Milano, 15 dicembre.

 

Dunque siamo sulla buona strada. Monsignore non ha perduto il suo tempo e forse la patria è salva. Riservandosi di regolare la parte, diremo così, canonica della questione, Monsignore, che ha fiutato il pericolo in aria, ha fatto chiamare subito il parroco del sito. Da prete in prete, si scoprì che un Lanzavecchia è vicedirettore d'un collegio vescovile e fu chiamato anche lui ad audiendum verbum ‑(excusez le latin) ‑ e a lui il vescovo ordinò tutto quel che un vescovo può ordinare in una circostanza come questa. Don Abbondìo andò al castello dell'Innominato, voglio dire cercò i parenti della povera innocentina (glissons, n'appuyons pas), mise innanzi la parola autorevole del vescovo e qualche altro argomento più persuasivo. Tanto fece insomma questo nuovo Boccadoro che a quest'ora il tuo peccato mortale ha reso o sta per rendere a quei disgraziati come un doppio raccolto di bozzoli. «El tempesta mai a dagn de tucc..». dicono i nostri contadini, che hanno anche loro una filosofia degna di essere stampata. Pare che anche don Abbondio avrà il suo compenso, appena resterà vacante un posto di canonico in duomo. Lodovico, che mi ha dato queste preziose notizie, è aux anges, perché ha potuto scongiurare un diabolico complotto clericale contro il nostro partito e consolidare la sua base elettorale presso questi buoni curati, che, se fossero trattati un po' meglio dal governo, sarebbero in fondo una nostra forza. Lodovico dice che il partito moderato ha sempre esagerato sulla sua politica ecclesiastica e che fu una grande insipienza l'aver disgustato il basso clero. Vedo che dovrò anch'io regalare almeno una lampada all'altare della Madonna della Noce, quantunque abbia il cattivo gusto di lasciarsi vestir così male.

Revenons à nos moutons. La ragazza, che fu tenuta finora sotto la protezione di quelle due farfalle angeliche delle tue zie di Buttinigo, sarà per raccomandazione del vescovo inviata a un ospedaletto di suore, fuori della diocesi, dove troverà nei conforti della religione e della carità quel coraggio di cui, poverina, avrà presto bisogno. O iniqui peccatori! Vedete di quali tristi conseguenze siete cagione? e potete ancora andar saccheggiando come i lanzichenecchi le fragili virtù e le riposte dovizie della bellezza? Scherzi a parte, Giacinto; se vuoi proprio bene alla tua povera mammà, come vuoi far credere, non star più colle mani in mano. Prendi una bella penna e scrivi un letterone coi fiocchi, in cui ti mostri riconoscente di tutto quel che ha fatto per te, e chiedile perdono di tutto quel che le hai fatto soffrire. E prometti di lasciarti guidare da' suoi consigli. Quando si ha una mamma santa e di talento come hai la fortuna di possedere, la strada della virtù è già segnata. E colla medesima penna scrivi allo zio Monsignore un'altra lettera piena di lagrime, che cominci colle parole: «umilmente prostrato a' suoi piedi...» e finisca colla promessa che gli fai di piangere tutta la vita questo tuo giovanile traviamento. Non ti pesi troppo di riempire tre o quattro facciate, che non mai fatica letteraria sarà più ricompensata. L'esperienza la si deve pagare a proprie spese: ma tu saresti indegno del nome che porti, se da questa esperienza non ricavassi qualche insegnamento e non ne uscissi colla nausea per tutto ciò che è volgare e poco pulito. L'aristocratie c'est de la politesse. Perdona ad una vecchia amica la predica: ma questa volta te la sei meritata.

La tua quasi zietta Fulvia.

 

 

Il conte Lorenzo a Giacomo Lanzavecchia

 

Cremona, 15 dicembre.

Caro Giacomo,

Son dovuto partire dal nostro Ronchetto senza prima salutarvi, com'era desiderio mio vivissimo: ma il rigor del verno e questo cuore, che da qualche tempo mi travaglia non poco, mi hanno impedito di scendere a salutarvi alle Fornaci. Sento tuttavolta che andate via via, per quanto di lento passo, riacquistando la sanità, la quale, secondo che parve a tutte le filosofie del mondo, è il miglior dono di natura. Noi abbiamo ritrovato in Cremona le solite nebbie e le tristezze solite; e temo che il verno per le presenti difficoltà politiche non abbia a rimuovere i dolori di questa plebe, cui già troppe voglie mettono in quello stato, che non può trovar posa in sulle piume. Spero nella diligenza vostra (tosto che le forze vel consentano) per dar opera a ordinare un primo catalogo di quelle mie iscrizioni, alle quali è, posso dire, attaccata una parte della mia vita e di quella vanità, che nella vita serve come l'olio delle lampade a rischiarare il sentiero che mena alla morte. Vorrei che l'opera del padre tornasse di sprone al figlio, quando questi occhi saranno morti alla luce del sole, per nobilitarsi, come dice il nostro divino Petrarca, in qualche bell'opera di mano o d'ingegno. La classe nostra, per troppa sete di godimenti sensuali, trascura oggidì quell'arti, che ai nostri maggiori diedero lustro e autorità nel mondo, onde nessuna meraviglia, se all'insorgere dei nuovi ordini e dei nuovi dritti popolari, l'aristocrazia epicurea si mostri impari al compito suo. Questo, come sapete, è mia intenzione dire in quel «Discorso preliminare», che premetterò alla raccolta delle iscrizioni gentilizie e che sarà la mia fatica e il mio ozio in questo tenebroso verno. Vi mando la copia definitiva dell'iscrizione, che ho preparato alla memoria del vostro compianto genitore. «Brevis esse laboro, obscurus fio», posso dire con Orazio: ma nulla è più tedioso quanto una parola vana; e qui sonmi ingegnato di stringer la maggior quantità di fatti nel minor numero di segni. Ditemi tuttavolta il parer vostro, ché non tanto m'ingegno di piacere quanto di non dispiacere agli amici. Ho dovuto lasciar tale e quale la frase arte laterizia, checché dica quel bon'omo del canonico Ostinelli a cui sono così care le cianciafruscole manzoniane. Abbiatemi per vostro.

 

Lorenzo Magnenzio di Villalta.

 

 

Giacomo a Celestina

Fornaci, 15 dicembre.

 

Mia cara e buona Celestina, mia buona sorella, sono stato molto malato, molto malato per te. Per poco morivo del tuo dolore, mia povera innocente. Sarei venuto prima a consolarti, ad asciugare le tue lagrime, se Dio non avesse avuto pietà del mio patimento e non mi avesse per molti giorni tolte le forze e la coscienza di me stesso. Ma verrò, sta certa, appena potrò sopportare questi freddi e le fatiche del viaggio senza pericoli. Ho bisogno di piangere con te e di dirti una parola che ti consoli. Qualunque sia la tua disgrazia, per me è certa l'innocenza tua come è certa la luce del sole. Dio terrà conto de' nostri patimenti e farà giustizia. Se anche la contessa non avesse sostenuta la tua parte contro l'iniquo che ti ha oltraggiata, puoi credere che io avrei dubitato un istante della tua virtù e del tuo affetto?

Gli uomini e Dio giudicheranno il colpevole come si merita; ma tu lasciati giudicare da me. Sì, Celestina, il tuo cuore, la tua vita, la tua virtù sono nelle mie mani come il giorno che ho raccolto il tuo primo sguardo d'affetto. Hanno empiamente calpestato questo nostro affetto, hanno trascinata nel fango la nostra virtù, e questo colpo sarà il principio della nostra morte, ma noi possiamo guardarci in faccia senza rimproveri e senza rossore. Io ti assolvo e ti benedico, mia povera figliuola! Se potessi essere costì, vorrei metterti le mani sulla testa per rendere più forte questa benedizione. Lascia che essa scenda fino al tuo cuore e lo rinfranchi. Immagino tutto quello di più spaventoso agiterà i tuoi giorni e le tue notti. Forse avrai maledetta la vita, la fede, la religione, e nel delirio del male avrai meditato cose perverse e terribili. Ebbene, non pensar più a nulla, non dir più una parola, non far più un passo senza prima interrogarmi. Se qualche volta ti par di morire di dolore, come è sembrato a me, pensa che la tua vita non è tua, e che nella tua disperazione io perderei l'ultima forza e l'ultimo sostegno di quel coraggio, di cui ho molto bisogno per me e per gli altri. Se mi vuoi proprio bene, in nessuna maniera potresti dimostrarmelo di più, come nel mostrarti dolce e ubbidiente a' miei consigli.

Fino alle feste di Natale io resterò alle Fornaci: dopo andrò a insegnare in una scuola del Lago Maggiore, a Pallanza, dove hanno bisogno d'un professore supplente per il principio dell'anno. Lascerò accomodare queste nostre cose in modo che non manchino a' miei fratelli i mezzi per lavorare. Se la mamma vorrà venire con me, impedirà che m'intristisca nella solitudine. E chi sa che tu non possa tenerle compagnia? Essa potrebbe avere in te una mano che l'aiuti e nello stesso tempo avresti in lei una dolce e materna assistenza. In paese nuovo molte malinconie passeranno da sé, e può essere che Dio trovi nell'avvenire e per te e per me un compenso a queste terribili prove. Quel che ti scrivo, mia povera creatura, è la voce sincera del cuore, e vorrei scrivere ancora di più, se non mi sentissi gli occhi velati di lagrime. Ho bisogno di sapere che tu sei buona, tranquilla, obbediente: e poiché queste signore ti usano molta carità, pregale per me di mandarmi spesso tue notizie. Prega l'Addolorata e abbi davanti che nelle nostre afflizioni Dio è presente: anzi, non è mai così vicino a noi, come quando ci sembra che ci abbia abbandonati.

Il tuo Giacomo.

 

Mai filosofo s'era abbassato tanto, fino a invocare in suo aiuto il nome della Madonna addolorata! mai sapiente s'era tanto rimpicciolito per farsi perdonare il peccato d'esistere! Ma è pur forza riconoscere che dovendo parlare ad un'umile creatura della terra, poco gli potevano servire le ingegnose argomentazioni degli stoici e i sillogismi della coerenza scientifica. La bontà ha questo di superiore, che non disdegna, quando occorre, di essere irragionevole e incoerente. Il cuore ha detto un filosofo corazzato di matematica, ha delle dimensioni e delle ragioni, che la ragione non conosce.

Fu questo medesimo sentimento di umile convinzione, che lo persuase qualche giorno dopo a scrivere alla contessa Magnenzio una lettera, che egli considerò quasi come il suo testamento morale: «Mio zio ‑ le diceva ‑ mi ha fatto sapere che la S. V. Ill. desidera avere da me una parola che le manifesti i miei sentimenti e i miei propositi di fronte ai fatali avvenimenti che hanno colpito la mia povera esistenza. Sarebbe ormai un vano orgoglio per parte mia, se volessi opporre un glaciale silenzio alle domande angosciose di una madre, che per antiche ragioni ho l'obbligo di riverire, e che la comune sventura rende oggi agli occhi miei ancora più degna di rispetto. Mi pare che le mie stesse sofferenze vadano rimpicciolendosi come ghiaccio che si scioglie in un'acqua mortale e profonda. Non sarò morto del tutto, ma sento il freddo della morte salire da tutte le parti e circondarmi il cuore. Ho scritto a Celestina parole, che mi uscirono spontanee, ma che non saprei ripetere per paura di me stesso, come non ho saputo rileggerle al momento che mi sgorgavano dalla penna, mentre una nuvola pregna di lagrime circondava la mia testa. Se mi lascio trascinare da qualche atto che ha apparenza di perdono, non mi lodi come di una prova di forza morale; ma consideri quel che faccio e quel che dico come la conseguenza dello stato di atonia e d'incapacità, in cui sono ridotto da questi mali troppo crudeli. Credo che anche il mio povero cervello non sia in grado di connettere e di formulare gli elementi di una risoluzione. Come un vinto ferito a morte, accetto tutti i patti e tutte le catene nella convinzione che l'umiliazione non potrà durar molto, e che io non potrò vederne la fine. Non posso non volere io solo e per un inutile intento ciò che è desiderio di tutti quelli che mi vogliono bene. Avrei troppo poco rispetto e troppa poca pietà verso i miei stessi dolori, se respingessi con insolente asprezza la carità di questa medicina. Ho accettato un umile posto provvisorio a Pallanza, dove mi recherò subito dopo le feste di Natale. Avrei voluto partir subito, se di tempo in tempo un resto di febbre non mi avvertisse di usare prudenza, e mi curo non per troppa voglia di guarire, ma per il timore di rimanere troppo tempo invalido a consumare la carità di questa povera mia gente, che non posso sacrificare al mio risentimento. Al mio disinganno basto io, e bene ho fatto a sacrificargli tutte le illusioni, che andavo raccogliendo in un fascio di carte, a cui non potevo più credere. Perché avrei pubblicato le menzogne di un sogno? Se la cenere è tutto quello che resta in fondo di ogni verità, tanto fa non credere alla fiamma...». ‑ E mentre scriveva queste parole, si compiaceva di carezzare il presentimento che l'eccesso del patimento l'avrebbe presto dispensato dal cercar altre ragioni, riducendolo all'ultima, che comprende tutte le altre.

 

 


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