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Una mattina, qualche giorno avanti le feste di Natale, don Lorenzo, con indosso la veste rossa di flanella, che Fabrizio aveva avuto cura di riscaldare alla stufa, stava scrivendo nel suo studio a Cremona alla luce d'una lucerna, che faceva lume a una giornata nebbiosa, piovigginosa, triste come la politica.
In giro sulle quattro pareti luccicavano quattro massicci scaffali di mogano, con modanature di bronzo dorato, pieni di bei volumi legati in pelle colle intestazioni d'oro: e sopra ciascun scaffale era un busto di bronzo scuro, rappresentante uno dei quattro nostri grandi poeti. Un'iscrizione d'oro in lettere greche maiuscole correva lungo la cornice dei quattro armadi, racchiudendo una sentenza, che don Lorenzo spiegava volentieri, traducendo: «I libri essere medicina dell'anima.»
In uno degli scaffali il conte teneva la raccolta dei classici greci, latini e italiani, coi lessici e colle opere fondamentali di consultazione. La sua filologia però non andava più in là del sapore dolce che hanno in sé i libri della bella antichità classica; anzi, egli non aveva mai potuto comprendere la fissazione di certi nuovi così detti filologi, che sputano il fiore per il gusto di masticare delle amare radici. In un altro armadio dominavano gli storici, ma intendiamoci, i buoni, quelli cioè che hanno saputo vestir di broccato la verità, scrivere con dignità, con magniloquenza romana, non questi raccoglitori di notiziole e di quisquilie, che, sull'esempio dei tedeschi confondono l'istoria, magistra vitae, colla nota del bucato o colla spesa del cuoco. La sua raccolta cominciava dunque con Ricordano Malispini e scendeva fino al Botta, al Colletta e all'Amari. Non potendo sopportare le traduzioni mal fatte, e non sapendo leggere il tedesco, non aveva del Mommsen che qualche dissertazione latina, quel che bastava per fargli dir corna di un uomo, che ha rovesciata la Storia romana e negato agli italiani il senso della poesia lirica. Che fortuna, diceva su questo proposito, che fortuna che certe corbellerie sian dette in tedesco!
In un riparto separato il buon classicista teneva sotto chiave i buoni novellatori del trecento e del cinquecento e anche qualche birbonata del Casti e del Porta, ch’egli poteva leggere e gustare colla superiore licenza ecclesiastica, ridendo volentieri coi pochi amici del suo tempo e del suo gusto alle facezie grassoccie sì, ma sane, dei nostri buoni padri. Non voleva però che Giacinto mettesse le mani, nemmen per isbaglio, in questi fiori del giardino di Armida, perché ogni età ha i suoi pericoli. Il buon padre non immaginava nemmeno che venissero da Parigi dei profumi ben più pericolosi.
Da alcuni giorni, dopo che le stanze furono ordinate e dopo che furono messi i tappeti in terra, il conte, nel tepore di quindici gradi costanti, andava riordinando gli elementi del suo «Discorso preliminare», di cui qualche periodo non da buttar via cominciava a correre sulla carta. Era per provare la rotondità delle frasi, che di tanto in tanto lo scrittore aveva bisogno di leggere a voce alta uno de' suoi foglietti, su cui la scrittura grossa ed obliqua correva come altrettante note musicali:
«Parlare a' giorni nostri degli uffici della nobiltà potrà forse parere a taluno pressoché opera vana, per non dire ridevole, tanto oggi gli uomini si affaticano a non stimare se non quel che in oro si traduce o che dell'oro abbia le fallaci apparenze. Che giovano (dice la gente al vil guadagno intesa), che giovano gli emblemi e le larve d'una polverosa nobiltà, condannata a un perpetuo esilio dal consorzio civile, buona, non dico a reggere, ma solamente a far gemere le meste rovine degli aviti palagi...?»
‑ Fabrizio, mi pare un po' troppo caldo qua dentro ‑ interruppe il conte, che cominciava a infiammarsi nel fervore delle sue frasi cadenzate. ‑ Forse è meglio che tu mi dia la veste verde, che riscalda meno.
Di queste vesti foderate di flanella ce n'erano quattro come i quattro poeti, di peso e di imbottitura diversa, che Fabrizio doveva far indossare a norma del termometro e del barometro giudiziosamente combinati insieme. Veste verde significava quasi sempre depressione atmosferica, aria morta e soffocante, pioggia imminente. Indossata la nuova zimarra, il conte riprese la sua lettura, sollevando un viso, che la luce della lucerna circondava di gloria.
«Ciò non di meno pare a me che all'umano consorzio le virtù del passato non giovin meno di quel che giovin le forze del presente, non essendo, a parer mio, null'altro il presente momento che la somma risultante di tutte le forze antecedenti. E stando così la condizion delle cose, nessun ordine è più indicato a conservare intatta e venerata la tradizion del passato di quel che sia l'ordine della nobiltà, che dei tempi trascorsi conserva, dirò così, le pietre più preziose e le già intrecciate corone. Che se l'antico ha potuto suscitare, al volger del passato secolo, contro l'instituto gentilizio la reazion popolare, non fu giusto che insieme alle colpe andasse travolta la tradizione, avvegnaché...»
‑ Fabrizio, portami il brodo liscio stamattina, e di' al cuoco che quella sua lingua di manzo era troppo grassa. Mi pare di sentirmela ancora in bocca.
Don Lorenzo si mosse per consultare un passo dei «Discorsi» del Machiavelli, dove si parla del dominio dei pochi: e pochi istanti dopo, Fabrizio entrava colla posta del mattina, raccolta in un vassoio d'argento. C'era il solito «Bollettino dell'Istituto Veneto», quello dell'«Istituto Lombardo» colle prime comunicazioni del Lattes sull'italianità degli Etruschi, un argomento che stuzzicava la sua curiosità e insieme il suo orgoglio nazionale contro quei signori della Sprea, che ti farebbero tedesco anche il bel tempo. C'era la «Perseveranza» di Milano, detta donna Paola, della quale divideva or sì, or no, le opinioni. Se come umanista non aveva ripugnanza ad accettare anche le idee di Lucrezio Caro, che egli traduceva di nascosto per un certo gusto del difficile; se nel campo libero della filosofia indipendente non gli facevan paura né gli atomi di Epicuro, né i vortici del Cartesio, né la pluralità dei Mondi del Leibnizio; in politica, era, secondo il suo modo di vedere, un altro paio di pantofole. Come cittadino, come Magnenzio, come padre di famiglia, era di opinione che una buona messa e un buon rosario valgono, per la felicità dei popoli, più che tutta la scienza della famosa Enciclopedia.
‑ S'è visto il bel risultato della dea Ragione applicata al governo dei popoli. O l'utopia di Platone, o la ghigliottina a vapore. Quel che più importa ai popoli è di star bene e di vivere in pace.
Siccome però per pace intendeva specialmente la sua, così il buon uomo era tratto facilmente a giudicare le teoriche sociali un po' troppo colla bocca dello stomaco. Questa pace benedetta se la faceva seder vicina tutte le volte che poteva chiudersi nel suo studio, in un angolo della casa, dove non arrivava mai nessun rumore della strada, tranne il rintocco delle ore del vicino convento dei cappuccini. E per amore di questa pace, ai libri dei vivi preferiva quelli dei morti, perché sulle guerre dei morti son già cresciuti gli ulivi o son scaramuccie già messe in musica: mentre queste controversie politiche, sociali, economiche, parlamentari, amministrative, anche quando si fanno per otium philosophiae, lasciano sempre la bocca impastata come una lingua di manzo non ben sgrassata.
Don Lorenzo, dopo aver crollata la testa su un articolo d'intonazione rosminiana, che la «Perseveranza» riportava in difesa delle quaranta proposizioni quasi ereticali del filosofo roveretano (tutte beghe che sconnettono la fede), prese dal piatto una letteraccia mal piegata, che puzzava di pipa lontano un miglio, con sopra una scritturaccia, che pareva dipinta colla scopa, e voltandola e rivoltandola nelle mani
‑ Chi è questo Gioppino che scrive L'orenzo coll'apostrofo? ‑ brontolò un pezzo, squadrando con un certo sospetto la lettera, che pareva suggellata coll’unto. ‑ Vien da Calusco? Chi può scrivere da Calusco? Dov'è questo Calusco? ‑ All'avvicinarsi delle feste di Natale ne arrivavano molte di queste lettere di poveri supplicanti bisognosi di qualche sussidio e di solito il conte le passava a Fabrizio, perche se l’intendesse col ragioniere Riboni e cercassero con prudenza di liberarlo dalle mosche e dagli scrupoli. Ma era la prima volta che Gioppino osava scrivere L'orenzo con l'apostrofo. ‑ Birbonaccio, aspetta che t'insegnerò io l'ortografia. Aspetta me, aspetta me... ‑ E strofinando le babbuccie morbide di panno sul pelo del tappeto, il conte, che da vecchio ammiratore dei Sacchetti e del Lasca aveva il gusto delle facezie mordaci, girò intorno allo scrittoio, sedette sui tre cuscini della poltrona e afferrò la penna per far scoppiare quell'epigramma, che gli faceva gli occhi piccini e il naso crespo. ‑ «Se lor con l'or confondi...» avrebbe voluto cominciare; e, per richiamare la rima, corse coll'occhio alla firma del supplicante, una firma che pareva uno scorpione schiacciato sotto una pagina di altri scorpioni... veri scorpioni, corpo di Bacco! pieni di veleno. La lettera correva in questi termini:
Se L'ei non fa trovare per s’abato a mezzanote L'ire tremila al l'uogo detto S'asso del Pin presso il Roccolo noi metteremo in piassa il gran segreto con suo disonore di L'ei e di tutta la famiglia. Non parli con ness'uno si no guaja.
Galiasso...
Un cane, a cui sia dato a mordere un ferro rovente avvolto in una polpetta, non lascerebbe cascare il boccone con più dolore e raccapriccio di quel che il conte lasciò cadere il foglio di mano. In cinquant'anni e più, cioè dal dì che i suoi occhi correvano sull'alfabeto, non aveva mai letto quattro righe più spropositate e più spaventose. Altro che Gioppino! Chi poteva essere questo bardassa di Calusco? e di che segreto andava spropositando? disonore di chi e di che?
Quando Fabrizio entrò colla scodella del brodo si spaventò nel vedere il volto del padrone più smorto della carta.
‑ Che cosa è accaduto, signor conte? si sente male? ‑ gli domandò, fermandosi in mezzo alla stanza.
‑ Sto bene, sto benone, sto d'incanto... ‑ rispose il conte, facendo saltare quel brutto foglio da una mano all'altra. ‑ Quando si bevono di questi brodetti a stomaco digiuno, un uomo non può che sentirsi bene. Guarda un po' quel che mi scrivono. Non badare all'ortografia, ma cerca di penetrare nel concetto. Una delizia, vedrai, un sorbetto. Conosci tu questo signor Galiasso? C'è dalle nostre parti qualcuno che porta questo bel nome?
‑ Non ho mai sentito che ci sia nessuno che si chiami così. ‑disse il vecchio Fabrizio, mentre correva cogli occhi sulla lettera, fingendo nel viso meno sorpresa e meno turbamento di quel che veramente provasse in cuor suo. Segreto aiutante della contessa in questa segreta congiura diretta a nascondere al conte una dolorosa e pericolosa verità, questa improvvisa minaccia di ricatto non poteva che confondere i piani di guerra e dare al cuore mezzo malato del suo padrone una scossa dolorosa.
‑ Non ci deve badare, signor conte ‑ prese a dire il fedele servitore, mostrando indifferenza. ‑ Asini e malviventi ce ne saran sempre, e, siccome sanno che lei è buono e amico della pace, credono forse di spaventarla.
‑ Grazie tante. Minaccia di mettere in piazza un gran segreto. Che segreto c'è da mettere in piazza? E non si contenta mica di poco il sor Galiasso riverito; ma domanda solamente tre mila lire. Catteri! tre mila lire non sono un quattrino e in che modo le domanda il sor Galiasso!...
Il conte, che aveva già la bocca impastata, per via di quella sciagurata lingua di bue, se la sentì diventar piena di una saliva salata. Ballando sulla poltrona, si lamentò con voce quasi piagnucolosa:
‑ C'è da perdere la fame per quindici giorni.
‑ Non si spaventi, le dico, non dia importanza. Son cose che a loro signori càpitano tutti i giorni.
‑ Nossignore, a me non è mai capitato. Quando un uomo non fa male a nessuno, ha diritto che gli altri non faccian male a lui...
‑ Guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaian! Essi tentano il colpo. Se va, dicono, è segno che la cosa ha le gambe. Ma qualche volta son loro che ci lasciano le gambe e la coda.
‑ Chi conosci tu a Calusco? non hai sentito che ci sia qualcheduno dalle nostre parti che ci voglia male?
‑ Le pare? una casa come la sua?
‑ Non son più quei tempi, non son più quei tempi... Dacché si son formate queste società segrete operaie, dacché si va seminando l'odio tra le classi, è una disgrazia nascere nei nostri panni. Anche l'elemosina sembra un'ingiuria adesso, e i Galiassi, che oggi scrivono queste letterine, domani metteranno la dinamite sotto il portone.
‑ Oh caro signor conte, lei corre troppo... interruppe Fabrizio, ridendo...
‑ Ti dico che si precipita. Tu non hai sentito a dir nulla, n'è vero? In questa casa tu sei più vecchio di me e devi volermi bene.
‑ Non sospetti che possa essere quel servo di stalla, che abbiamo licenziato tre anni fa...?
‑ Or fa un anno che è andato in America.
‑ Ma dall'America si ritorna ‑ disse sospirando il buon uomo, che all'idea d'un viaggio in America si sentiva venir le vertigini. ‑ Dall'America si ritorna: e poi si lascia sempre a casa qualcuno...
‑ Conosco questa gente, stia sicuro. Solamente sarà prudenza non dir nulla di questa lettera, né alla contessa né alla contessina...
‑ Sicuro, sicuro! le donne si lasciano facilmente impressionare. Anzi bisognerà stare attenti che non facciano loro qualche brutto scherzo nella strada... Ahimè, si precipita! È una cosa che dobbiamo trattare fra te, me e il Riboni... Dovresti chiamarlo, se c'è...
‑ Tornerà stasera. Ora beva il suo brodo e non ci pensi.
‑ Portalo via, non mi va giù ‑ disse restituendo la scodella, con una mesta espressione di abbattimento. ‑ Guasterei anche quella poca colazione delle undici e mezzo. Lasciami vedere ancora una volta quegli scarabocchi. Altro che! si precipita maledettamente, si precipita!
‑ Non ci pensi più. Vedrò io il signor Riboni ‑ disse Fabrizio, facendo scomparire il foglio nella pettorina del suo grembiale di servizio.
‑ Vedete se con una cinquantina di lire si può mandare in pace un povero affamato.
‑ Se lei comincia a dare, non si salva più. Queste lettere è meglio fingere di non averle ricevute, o si consegnano al questore.
‑ Guardatevi bene dal metter in mezzo la polizia! non voglio gendarmi in casa. Ve lo comando! ‑ gridò, alzandosi quanto era lunga la sua piccola persona, lasciando cadere un gran pugno sul «Dizionario dei sinonimi». ‑ Non voglio intrighi, deposizioni, arresti, diavolerie di questo genere, né per tre mila né per sei mila, né per dieci mila. Avete capito? comando io! ‑ Mai la paura d'un uomo aveva parlato con più coraggio. Fabrizio finse acconciarsi e disse:
- Come vuole, signor conte... Del resto, creda pure, che quando non si dà nulla e non si ha nulla a temere, queste lettere son buone per la stufa.
‑ E soprattutto si badi a non far saper nulla ai giornali. Non voglio pettegolezzi... Come si semina si raccoglie! – brontolò parlando con sé stesso ‑ Per certa gente è già una grande colpa il nascere bene. Come se avessi domandato io al padre creatore di farmi nascere dal grembo d'una nobile Magnenzio. Si precipita...
Fabrizio lasciò il conte in preda alle sue smanie piagnucolose, e corse a far leggere la lettera alla contessa, perché fosse avvertita in tempo di questa nuova minaccia.
Donna Cristina aveva ricevuto alcuni giorni prima la lettera di Giacomo e in seguito a una nuova visita di don Angelo cominciava appena a veder un po' di lume in mezzo a quella spaventosa oscurità, in cui si dibatteva da cinque mesi. La bontà di Giacomo l'aveva commossa. Seguendo l'ispirazione del cuore riconoscente, stava preparando una lettera di conforto al generoso amico, che non rifiutava d'essere suo alleato nell'opera di riparazione, mentre gli sarebbe stato così facile vendicarsi colla rovina di tutti. Il cuore della donna, della madre, della cristiana, ravvivato da un raggio di speranza, insieme alla riconoscenza, sentiva un ardore insolito di bene, quasi un desiderio di emulazione in questa gara di sacrificio, e andava pensando quel che poteva restituire di bene al mondo in compenso di tanto male e quale soddisfazione, degna di sé e dell'uomo, potesse offrire al giovine avvilito e trafitto nei sentimenti più sacri.
«Io non so scrivere» gli diceva «e mi manca l'arte di esprimere tutta la pietà, che ho provato e che riprovo leggendo la vostra lettera. Non al professore, non all'uomo dotto, ma immagino dunque di scrivere a quel giovinetto Giacomo, che in altri tempi frequentava la mia casa e al quale non mi pento ancora d'aver dato un forte consiglio. È invocando questa mia benevolenza quasi materna, che vi parlo come da amica ad amico, da donna che ha salito il Calvario ad uomo che ha salita la croce, nella fratellanza dei comuni dolori. Conforti materiali, riparazioni degne di voi non potremo darvene. Indegna io stessa d'ogni consolazione, sarei quasi spregevole, se volessi offrirne a voi; tanto meno ho consigli a darvi. Vi dico soltanto questo: che prego per voi colla stessa anima con cui prego pe' miei figli, nella fiducia che Dio, che ha la mano miracolosa, voglia versare nelle vostre piaghe l'unico balsamo che può col tempo ristabilire le forze perdute. Lasciatemi almeno l'illusione, povero Giacomo, che io non prego, no, per il riposo d'un morto, ma per la pace di un vivo. Davanti ai mali irreparabili l'uomo forte ha sempre un rifugio nell'idea che non vi è così gran male che non possa essere superato da una più grande speranza. I mali vengono più dalla fatalità che non dalla cattiva volontà degli uomini; ma l'idea del bene vien tutta da noi. Io ho troppa stima della forza del vostro cuore, per non sperare che chi ha scritto qualche pagina virtuosa e sublime non sappia arrivare col cuore fin là dove un giorno è volato col pensiero. Spero che in molti istanti, così piagato come siete, abbiate a sentire la santità e la dignità della natura umana ingrandita in voi.
«Il fuoco raffina i nobili metalli. Il dolore ha scoperto e messo a nudo molta parte di voi, ch'era prima ignota a voi stesso e che, senza queste scosse, sarebbe rimasta per sempre sepolta. Non dite dunque come un povero merciaio alla vigilia del suo fallimento, che la vostra vita è finita. Provate a chiedervi una volta se per caso una vita nuova non stia per cominciare per voi. Che voi abbiate gettato alle fiamme il manoscritto in cui, come dite, eran raccolte le illusioni della vostra giovinezza, non mi fa pena, come pare che in fondo faccia a voi. A me basta che non abbiate abbruciata la vostra fede. Purché la fiamma salga al cielo, poco importa che abbruci l'altare. Provate a cercare nella cenere e ritroverete il vostro diamante. Per quanto grande possa essere il vostro sacrificio, i meriti che acquistate agli occhi di Dio e a quelli della vostra coscienza sono tali che non potranno produrre col tempo che un gran bene. Voi siete giovine e dovete conservare intatte le vostre idealità. Seguitate a studiare. Noi abbiamo bisogno di chi sostenga la fede nella virtù. I nostri figli, lo vedete, non credono più all'affetto delle madri, e quelli stessi, che dovrebbero combattere in prima fila per l'onore, sono i primi a imbrattarsi di fango. Voi potrete fare del bene, non solo coll'ingegno che Dio vi ha dato, ma anche coll'esperienza che vi siete acquistata. Nessun privilegio nobilita tanto l'anima nostra quanto la coscienza di aver molto sofferto...» A questo punto era arrivata e stava quasi per chiudere la lettera nella quale il suo cuore, nella felice improvvisazione del sentimento, si esaltava della misteriosa dolcezza che hanno le umane consolazioni, quando Fabrizio con un passo sospettoso entrò a farle vedere la scarabocchiata lettera, che aveva tanto spaventato il povero conte. Essa, che quasi s'illudeva di toccare il porto, trasalì a questo nuovo inaspettato assalto. Quel mondo geloso e avaro nelle sue pretensioni, a cui aveva sperato di sfuggire, dava segno di risvegliarsi e già si presentava all'uscio come un esoso creditore. I debiti del male voglion essere scontati e pagati; l'esattore era qui. Pallida, tremante, nascose il lurido scarabocchio tra le carte profumate dello stipetto.
- Non dite al conte che mi avete fatta vedere questa lettera: cercherò di parlare col Prefetto... Non parlatene con nessuno... Ah mio Dio, non abbiamo finito!