Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Giacomo l’idealista

PARTE SECONDA

XVI. Bisogna cominciare da capo.

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XVI. Bisogna cominciare da capo.

 

Il tempo continuò quell'inverno piuttosto bello, con brevi nevicate seguite da giorni stupendi di sole. Giacomo, che una più serena coscienza avviava a considerare le debolezze umane come nella sua carità le deve giudicare il buon Dio, aveva ottenuto di poter restare alle fornaci fin dopo le feste dell'Epifania. Sperava di trovare nella quiete di Pallanza, nella bellezza del lago, nel rifiorire non lontano della primavera quell'energia fisica, di cui il suo spirito aveva bisogno per andare avanti. Le scosse eran state troppe e troppo forti, perché il suo intero organismo, per quanto robusto, non avesse a sentirsene come scassinato e rotto. Frequenti vertigini di capo gli davano spesso allucinazioni d'immagini bianche svolazzanti nell'aria, di cui non si spaventava, conoscendo per gli studi fatti, fin da quando preparava la sua laurea di psicologia, che i nervi mal nutriti ed esauriti fanno facilmente questi scherzi curiosi.

A Pallanza, poiché la mamma preferiva rimanere accanto al suo Mauro non avrebbe condotto che Blitz, il povero Blitz, il povero pessimista sporco...

La vigilia dell'Epifania mentre stava sciacquando il vecchio gamellino sul davanzale della finestra (la campagna bianca splendeva tutta in un barbaglio di sole), sentì la voce del Manetta, che lo chiamava dalla corte e che, mostrando una lettera orlata di nero, gli disse:

‑ L'ha portata un ragazzo dal Ronchetto per lei, sor Giacom.

In un biglietto scritto in matita donna Cristina Magnenzio avvertiva che si sarebbe fermata al Ronchetto soltanto alcune ore. Il biglietto non diceva nulla di più: non chiedeva nulla. Ma Giacomo non ebbe neppure un istante di titubanza. Si vestì in fretta, e s'incamminò per la breve strada del «Roccolo» verso la villa, colla volontà desiderosa di chi va a compiere una promessa. Coll'animo pieno di parole giunse al cancello che trovò aperto. Entrò nel grande giardino, tutto vestito di neve, sotto i bianchi rami, che si cristallizzavano nella luce opalina del cielo.

Raggiunse il viale dei carpini, che disegnavano nella selva incantata una specie d'anfiteatro di marmo. Qui s'era incontrato con Celestina un giorno in cui il suo cuore era ancor tenero di speranze e di sogni.

Ora questo povero cuore pareva assiderato anche lui in una pace profonda.

Il freddo che usciva dai boschi e dalla terra, mandò al suo capo una di quelle vertigini, contro le quali mal resisteva da qualche tempo. L'immagine bianca, che svolazzò davanti, lo ingombrò un istante come se passasse per impedirgli la strada. Si fermò, aspettò che svanisse l'allucinazione, e, seguendo sulla neve le tracce fresche d'una carrozza, arrivò col respiro corto, fremendo in un piccolo moto convulso, fino all'atrio del palazzo che si spiegava luminoso al sole. Nel cortile vide la carrozza ferma e alcuni uomini, tra cui Fabrizio, che nella pesante livrea di panno nero pareva diminuito e invecchiato di dieci anni.

- Dov'è? ‑ chiese.

- È qui, nello studio del conte...

Il vecchio servitore avrebbe voluto cominciare un rimpianto, ma Giacomo, senza aspettare che l'altro andasse avanti ad annunciarlo, obbedendo ancora a quel comando interiore, che gli faceva forte il pensiero, attraversò l'atrio, passò nel salotto da pranzo, tutto chiuso e scuro, dove le sedie intorno alla tavola nuda parevano aspettare qualcuno, che non sarebbe più tornato, e si diresse verso la biblioteca.

La contessa, che era venuta a ritirare alcune carte, stava seduta allo scrittoio, nascosta dai volumi, che facevano una specie di baluardo sulla tavola; né egli la vide subito, né essa sentì subito il suo passo smorzato dal panno del tappeto. Quando la signora si mosse nella luce fredda della finestra, fu quasi un incontrarsi improvviso, che li fece trasalire entrambi in una scossa dolorosa. Dacché non si eran più riveduti, cioè dopo lo straziante colloquio nella sala verde, la loro vita era passata attraverso a feroci dolori, che premevano sul cuore di tutti e due, che non potevano più tacere.

Nel rivedersi, dopo i tragici eventi, come due fatali ambasciatori della morte, gettarono un sommesso grido lagrimoso, quasi d'ambascia che si schiude.

Nel chiaror pallido, che la selvetta coperta di neve e il campo candido del giardino riverberavano sugli scaffali, la contessa si avanzò nella sua pesante gramaglia che faceva comparire più scarna e marmorea la grande pallidezza del volto.

La donna era vinta, ma non prostrata.

Al disopra di tutti gli avvilimenti parlava in lei alta la coscienza del suo ideale.

Nel movere qualche passo verso Giacomo, che veniva a portarle il perdono della vittima, fu essa la prima a stendergli le mani. Con un sorriso morto, che oscillò negli angoli della bocca come una timida ironia, donna Cristina cercò di respingere quel gran bisogno di piangere, quel fremito di follia, a cui la trascinava il pensiero della sua sconfitta e della sua povera casa precipitata.

‑ O Giacomoproruppe con voce malata, movendo la testa con un lento abbandono, mentre colle braccia tese si attaccava al collo del giovane. ‑ O Giacomo, perché non siamo morti noi?

Giacomo impallidì. Le palpebre velarono la luce de' suoi grandi occhi cerulei. Attese che il doloroso istante passasse e sentendo a un tratto ridestarsi il suo cuore in una nuova e misteriosa dolcezza con una voce in cui scorrevano lagrime invisibili:

‑ Oh contessa! ‑ esclamòc'è qualche cosa di più santo della morte.

E riaperti a fatica gli occhi come chi si sveglia da un lungo e faticoso letargo, si recò la mano della signora alle labbra, mormorando:

‑ Forse bisogna cominciare da capo.


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