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I.
Tempo fa, invitato a discorrere sull'efficacia dei premî e dei castighi nell'educazione, un maestro di mia vecchia conoscenza, così prese a dire:
"La questione dei Premî e dei Castighi o in altre parole: Quale importanza si debba dare nell'educazione moderna alla Rimunerazione e alla Riprensione è di quelle che si possono dire non risolte mai definitivamente, ma che invece, seguendo il corso del tempo, sono costrette rapidamente a trasformarsi, e ad adattarsi continuamente ai nuovi costumi. Ciò che poteva parere buono cent'anni fa, diventa spesso pessima cosa, od assurdità oggi: mentre i principî restano immutabili, l'applicazione di essi varia al variar delle lune, e chi, per esempio, pensasse di applicare rigorosamente all'educazione de' suoi figliuoli il metodo tenuto con lui da' suoi venerati genitori, può darsi che il risultato nel solo viaggio d'una generazione torni differente o contrario.
Se una volta, per venire al mio argomento, poteva parere a un giovinetto il sommo degli onori il ricevere una corona d'alloro in piena accademia, o il vedersi dipinto e contornato di simbolici emblemi nei corridoi del collegio, e avere il suo nome coniato in oro o in argento, quanti dei nostri giovinetti non si sentirebbero disturbati oggi dalla pompa di queste cerimonie? Se il mandare il fanciullo a messa colla reticella da notte in capo poteva sembrare ai genitori dell'Alfieri un castigo efficace, non v'è chi vorrebbe esperimentarlo oggidì, anche sopra un bambino meno ribelle dell'Alfieri. Se una parola cortese, o il baciamano, o l'essere allontanato da un rosario domestico poteva sembrare ai tempi della fanciullezza dell'Azeglio un premio e un castigo pieno di significato, poco ne avrebbero al presente. Così dite delle orecchie di cartone, della croce fatta colla lingua in terra, dello stare ginocchioni con sassolini sotto, o in piedi colle mani alzate come Mosè, delle scorpacciate concesse in premio d'una buona azione; delle ghiottornie che si portavano una volta in collegio per raddolcire l'amarezza della prigionia, e di tutto quell'arsenale di mezzi e di mezzucci, che non risponde più al meccanismo della società e dello spirito moderno, come i vecchi telai di legno non rispondono più ai bisogni e ai desideri dell'industria.
La natura umana non è meno viziosa oggi di ieri, nè la necessità dei rimedi a guarire i vizi della natura è meno sentita da noi, di quanto sentiamo la necessità delle medicine per guarire i vizi del sangue e del sistema nervoso. Anzi se dovessimo credere alle apparenze, i nostri vecchi avevano una costituzione fisica e morale più forte, mentre noi per colpa di mutate condizioni ci piglia la tosse ad ogni soffio di vento. Forse perciò la medicina va mettendo in disparte i mezzi eroici e risoluti, le ampie cavate di sangue, il sistema d'indebolire e di abbattere prima di guarire, e lasciando molto alla vis medicatrix naturæ, procura di ricostituire le forze con metodi regolari di vita.
Così è pure di quell'arte medica e morale, che si chiama Educazione, che va di giorno in giorno abbandonando i mezzi violenti, estranei alla natura, contenta di suggerire piuttosto che d'imporsi. Non voglio dire con ciò che la responsabilità dell'educatore sia diminuita, o che perchè le tirate d'orecchi sono proibite, il buon uomo abbia meno da fare. Tanto l'incoraggiamento, come il freno devono entrare ancora e per molta parte nella nostra sorveglianza, perchè pur troppo la natura umana non si muove di necessità sotto una forza continua e uniforme, come si muovono gli astri, che vanno da sè al loro fine; ma è incostante, bizzarra, con impeti inconsulti e pigri abbandoni, pieghevole come un giunco ai moti dell'aria. Che cosa rappresentano nell'educazione il Premio e il Castigo? sono per i primi anni l'unica espressione viva e sensibile, che noi possiamo dare al nostro sentimento morale: sono l'entusiasmo e l'orrore, che noi manifestiamo per un'azione buona o cattiva; dietro questo entusiasmo, dietro questo orrore sta la Legge, come il popolo ebreo, popolo bambino, vedeva la legge negli splendori e nelle nuvole del monte. Rimanere impassibili come statue innanzi ai moti buoni o perversi del nostro allievo, è perdere la più vigorosa occasione di rivelargli la legge, e nel male è un farsi suo complice. L'approvare e il disapprovare sbadatamente è anche un male peggiore: è un correre il rischio di violarla, o per falsa stima delle cose, o per pigrizia, o per malizia. Una lode ingiusta può introdurre, senza che voi ve ne accorgiate, l'ingiustizia nel cuore del vostro figliuolo e introdurvela quasi incoronata e applaudita. Un castigo inopportuno può oscurare per sempre la visione del bene ed è in questo modo che sovente nascono i così detti figliuoli incorreggibili. È il vostro figliuolo veramente incorreggibile, o è la vostra correzione ingiusta e incorreggibile? E voi che tormentate il testardo colla voce e colle mani, vi tormentate una volta voi stessi a cercare la ragione della vostra ragione? Ciò vi dimostri che il nostro argomento, se non è dei più nuovi, non è divenuto ancora dei più oziosi.
Anzi è un argomento che si accosta e s'incatena tanto colle leggi generali dell'educazione, che non si potrebbe parlarne adequatamente, senza toccare di quelle leggi, donde scaturisce. Perchè, se, come si disse, la rimunerazione e la riprensione sono per sè stesse un giudizio vivace intorno a ciò che conviene o non conviene di fare, bisognerebbe veder prima, se del buono e del turpe ciascuno di noi abbia in cuore la chiara coscienza. E qualora sì, vedere di nuovo se questa coscienza è così prudente e così sensibile da non lasciar dubbio ch'essa si manifesti o troppo presto o troppo tardi. Bisognerebbe insomma ch'io domandassi a ciascuno di voi il programma di ciò che intende per buona educazione o mettermi con voi a stabilirne uno. Ma, come vedete, ciò mi trascinerebbe in ben lontane peregrinazioni, e giova per il momento supporre e sperare che tutti quanti abbiate dell'educazione il più integro, il più amoroso, il più sacro disegno, in modo, che sarebbe farvi offesa il pensare che il vostro premio cada in onore d'azione meno onesta, o il vostro castigo sia lo spauracchio della virtù.
Lasciando stare adunque la questione dei principî, è intorno ai mezzi e ai modi del premiare e del riprendere che noi dobbiamo quest'oggi restringere il nostro discorso.
Ho conosciuto maestri, educatori, e babbi e mamme amorose lasciarsi spesso trascinare alla lode non dalla persuasione che quella buona parola cadesse a tempo, come la goccia di rugiada sul fiore, o come la goccia d'olio sopra un meccanismo in azione, o per dare una dolce sanzione morale a un atto virtuoso; ma soltanto perchè il cuore, sempre tenero e indulgente, era ghiotto esso stesso di quel dolce, che regalava altrui.
O quest'oggi v'è un interesse straniero che concilia la bontà, o domani non si vuoi negare una consolazione a un poverino malato, o non si vuole che gli anni più belli della fanciullezza passino per lui meno fioriti, meno spensierati; oppure ho ben dormito la notte, ho fatto una eredità, è bel tempo e sento il bisogno di spargere intorno a me la festa, i regali, il perdono, la benevolenza. Mi servo di questi esempi per meglio accennare ai diversi casi, nei quali è facile che l'educatore sostituisca sè stesso e l'umor suo a quei principî, a quelle leggi morali di cui si discorreva più su.
Io ho conosciuto anche qualche buona mamma, che nel suo figliuolo vedeva le sette meraviglie; nessuno più intelligente, nessuno più amoroso, più spiritoso e più bello. Ben difficilmente Pierino aveva dei torti, o quand'anche, erano così carini quei torti, che la ragione del maestro, della governante e perfino quella del babbo, non poteva valere di più. A poco a poco Pierino diventa un grazioso prepotentaccio, un manesco, un mariolo; ma se rompe dei vasi è buon segno di vivacità, se risponde un'insolenza è un tratto di carattere, e se ti cammina sui piedi è sì leggero ed elastico il bambino, che non fa male. Credete voi che quella buona madre applichi nei suoi giudizi i supremi principî del bene e del male?
Dirò adunque fin dal principio che le lodi soverchie sono per sè stesse un'ingiustizia, sono un'immoralità per chi le dispensa, e una vera insidia all'innocenza.
Sono un'ingiustizia in quanto si da più del merito, abbassando per conseguenza il vero merito a pari d'ogni mediocrissima azione, o fors'anche d'una azione riprovevole.
Sono immorali per chi le dispensa, perchè dimostrano una fredda indifferenza fra ciò che è veramente grande santo e sublime e ciò che è solamente comune, ordinario, mediocre e piccino. È tanto ingiustizia negar l'alloro al povero Tasso, quanto il concederlo ad Arlecchino; questa confusione di apprezzamenti è poi la cagione prima, per cui gli sciocchi trionfano a danno dei virtuosi, e le apparenze tengono il campo della virtù, come i barattoli vuoti nelle scansie degli speziali.
Sono finalmente un'insidia all'innocenza, perchè il fanciullo ci crede e s'inganna sul valore delle cose; quel giorno che egli crederà di avere in serbo un piccolo tesoro, troverà invece che le vostre monete erano tutte false.
Alcuni miei compagni di fanciullezza si sarebbero per questa via perduti per sempre, quasi inebriati di sè stessi, se non piombava a tempo sul loro capo una severa lezione dell'esperienza, che li richiamò bruscamente alla vera coscienza delle cose e di sè stessi.
Non posso, poichè mi trovo nell'argomento della lode, sorvolare sopra un difetto, che è specialmente comune nelle scuole, dove i maestri, trascinati da un naturale entusiasmo, largheggiano di onori più verso una buona facoltà o disposizione che sia innata nell'allievo, anzichè verso il merito delle sue vere conquiste e delle sue vere e faticose vittorie.
Annibale ha vivace fantasia e scrive cose che sono piccoli poemi; per lui sono tutti gli allori, e maestri e parenti fanno a chi più esalta una dote che, se guardiamo bene, tanto meno la si può acquistare quanto più è squisita e straordinaria. Non è forse come portare dell'acqua al mare? Che direste di quell'agricoltore che, avendo varie parti del campo, quale feconda, quale arenosa, intendesse a fecondare dove c'è meno bisogno? Ne deriva quasi sempre che quel buon ingegno perde un bel giorno l'equilibrio delle sue facoltà e la fantasia trionfa sempre a danno dell'ordine, della meditazione, della diligenza, finchè, non tenuta a freno nè dallo studio nè dalla critica di sè stessa, svapora il più delle volte in una grande fumata. Se invece la lode, in questi casi, fosse riservata ad esercitare le altre facoltà più deboli, a raddolcire le pene che il giovinetto prova per tutto ciò che gli è meno naturale, non solo se ne vantaggierebbe quella dote prima, ma eviteremmo la noia di questi sognatori eterni, che dopo aver tentato un po' di tutto, col capolino asciutto, come il Giovinetto del Giusti, si sdraiano in un presuntuoso ozio senza riposo.
Nelle scuole sopratutto, dove ogni nostro giudizio ha valore di sentenza, bisogna andar ben guardinghi nel commettere l'ingiustizia, se non si vuole seminare diffidenze, invidie e rancori. Lo spettacolo di chi trionfa soltanto per la fortuna dell'ingegno, è già per sè stesso un tormento per gli altri che salgono ad uno ad uno, e con affanno i gradini del sapere. Le nostre lodi siano adunque specialmente per chi lavora, e per chi ne ha più bisogno.
Non credo di declamare cosa nuova, dicendo che la lode e i premi devono essere impartiti con parsimonia, essendo cose preziose; lasciamo che gli allievi ce le strappino di bocca o fuor della mano. Solo a questo prezzo se ne incapricciano, come di una fata che ha sempre del meraviglioso quando esce dalla nube. Ma se col continuo uso noi sciupiamo i bei colori di questa apparizione, toccherà anche alla rimunerazione la sorte di tutte le belle apparizioni di teatro, prese in troppa confidenza. Se v'è un maestro di cuor generoso che regala i numeri per niente, non uno de' suoi allievi gli è riconoscente; ma strappare un bel numero dall'ugna d'un pedantissimo è per i piccoli e per i grandi un trionfo da ricordarsene.
La tenerezza tende molte volte delle insidie al cuore dei genitori, che insegnano a' loro bambini a far molto caso di ciò che è invece tutt'affatto secondario e di più. Cecilia è una cara bambina, con una voce che ha dentro di sè tutti i suoni dell'affetto e della civetteria. Ecco monta sullo sgabello e declama del Fusinato e del Metastasio (che non capisce) con tutte le moine d'una piccola artista: quindi lagrime della mamma, singhiozzoni del babbo, abbracci della nonna, baci e carezze, e chicche da tutte le parti, come se il recitare delle parole che non si capiscono sia veramente la più grande abilità di quella piccina. C'è dell'inganno per lei e per tutti. Cecilia sa fare benino la calza e guardate! nessuno le dice mai nulla.
Non è neppur una cosa troppo facile il saper discernere, fra i meriti pari d'un buon allievo, sopra quale convenga essere più generoso; ma certamente credo di non ingannarmi, asserendo che non è necessario che la vostra lode perseguiti, dirò così, ogni piccola virtù, quasi che questa non possa essere anche il premio di sè stessa. Non solo adunque converrà talvolta sopprimere del tutto il nostro applauso, ma sarà un buon accorgimento di toglierlo a una bella e splendida azione per concederlo a qualche piccolo atto oscuro che indichi il nascere o il venir oltre di una nuova qualità da un pezzo desiderata. Carletto ha buon cuore e lascia cadere tutti i giorni una moneta del suo borsellino nella mano grinzosa del vecchierello sull'angolo della via. Posso anche fingere di non vederlo quell'atto generoso, e far invece le mie dolci congratulazioni per un primo compito meno macchiato del solito. Mi direte perciò un uomo che non capisce niente? Voi vedete, quanta importanza possa avere l'eccitamento dell'approvazione e del premio non solo per riguardo alla condotta delle buone qualità, ma anche a risvegliare queste stesse qualità latenti e come avvizzite; nello stesso tempo bisogna evitare che il nostro affetto induca nel nostro allievo un gretto egoismo. Ma le difficoltà non sono finite; bisognerebbe ch'io vi parlassi a lungo anche intorno al genere di queste lodi e di queste ricompense, che rappresentano per il fanciullo l'equivalente delle buone azioni.
Il fanciullo, nella sua semplicità un po' materiale, non può a meno di giudicare della maggiore o minore bontà della sua condotta che dalla maggiore o minore grandezza del premio. Nè possiamo pretendere da un bambino ciò che fa illusione anche agli uomini grandi e ai grandi uomini. Chi di noi non è avvezzo a giudicare il merito d'una persona dallo stipendio che riscuote la fine del mese? Non è a meravigliarsi dunque che Luigino, posto fra un cavalluccio di cartone e uno di legno, stimi virtù e merito più grande quello che viene sul cavallo di legno. Se così stanno le cose, cioè se nella sua semplicità egli non può giudicare l'astratto che nelle proporzioni del concreto, voi vedete, che c'è un pericolo anche nel distribuire i regali e i premi a caso5. Anche la qualità delle parole che si dicono può turbare il senso morale. Loderete Pierino perchè è bello? Prometterete sempre un vantaggio al suo sacrificio? Premierete un bel tratto, una bella obbedienza con leccornie o con bei vestiti? Se fra gli altri pericoli temete che il vostro figliuolo diventi un ghiottone, e un vanerello, come non lo diventerà, se la ghiottoneria e il lusso sono il premio delle sue virtù? Nella lode come nella correzione dobbiamo sempre aver di mira di far brillare agli occhi dell'allievo la giustizia; il fanciullo, che è sempre il nostro giudice, sa subito distinguere da sè ciò che noi gli diciamo per amor suo, e ciò che diciamo per amor nostro. Bisogna che l'affetto nostro e la nostra naturale inclinazione per tutto ciò che è piccino e bello e attraente, non sia il frutto d'un pigro egoismo, che perdona e concede per non scomodarsi, che ci fa schiavi a poco a poco dei nostri allievi, e seconda in loro quella tendenza di tutto rapportare a sè, come se fossero essi il centro del mondo. La giovinezza è un vaso fragile e limpidissimo. Questo dobbiamo aver sempre presente per non agitarla con scosse violenti, per non deturparla nemmeno col fiato; ma chi, per paura di romperla, permette che si deturpi da sè fino a lasciarle perdere il suo splendore, commette un tradimento.
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Lasciate che vi ricordi una sentenza di Garfield, il povero presidente degli Stati Uniti, che fu anche un uomo di spirito. Egli disse nelle sue massime che bisogna aver il coraggio di guardare in faccia al diavolo e di dirgli: - Tu sei il diavolo!
Quel "diavolo" in corpo che nell'educazione giovanile i vecchi metodi dei collegi, specialmente ecclesiastici, cercavano e cercano con ogni mezzo di incatenare, di battere e di sopprimere, io vorrei che diventasse il nostro più vigoroso alleato, perchè esso mi rappresenta quasi sempre l'energia e il carattere più distinto del fanciullo. Nelle nostre virtù noi siamo quasi tutti eguali, perchè la virtù è un inno e l'inno è un accordo di voci e di parole; è nelle male tendenze; nell'indocilità, nell'orgoglio, nell'ira, nella furberia, nella dissolutezza che ciascuno di noi si palesa e si atteggia in una sua maniera, segno che il "diavolo" vuol essere sempre indipendente. Caccieremo fuori questo spirito di ribellione? accetteremo anche noi quella vecchia parola di mortificazione, che ha dentro di sè sì malinconica radice? A mio credere nulla bisognerebbe mortificare di ciò che Dio ha creato e anche il diavolo, specialmente quello dei nostri figliuoli, vien da Dio, o col suo permesso. Ma bisogna guardargli in faccia senza paura, e fargli sentire che non si giuoca, farsene una specie di scudiero alla foggia di quel gigante, di cui racconta il Pulci nel suo poema.
La correzione, come dice la sua parola, vuol essere un sorreggere, un accompagnare colla mano i passi vacillanti, non una spinta nella schiena che butti a terra. Nei vecchi sistemi (che non sono però invecchiati del tutto) per paura che allignassero delle male radici si spargeva a buon conto tutto il campo di cenere, e così colle tristi intisichivano anche le buone. Si finiva dunque collo spogliare il fanciullo d'ogni sua nota caratteristica, riducendolo a una misura convenzionale, vestendolo in una foggia prestabilita, come accade ai poveri coscritti entro le grosse vesti di tela, che si somigliano tutti. Ma togliete all'uomo il suo carattere e sarà come sottrarre il fuoco alla macchina; l'uomo, che manca di individualità, non potrà mai essere onestamente utile nè per sè nè per i suoi, ma come una macchina spenta si lascierà sempre trascinare dai più forti e dai più astuti.
Voi vedete dunque, quanto importi che la nostra correzione, e il nostro castigo non siano un'opera nè di devastazione, nè di defalciazione, ma una semplice azione direttiva, repressiva anche, purchè nulla vada perduto di ciò che è vitale. Gl'Inglesi sono già arrivati da molto tempo a questa considerazione, e sebbene la libertà e l'abbandono in cui lasciano l'allievo, non sia interamente da consigliare per noi, è fatto notissimo però che gl'Inglesi mirano piuttosto a salvare il carattere anche con pericolo dell'uomo.
L'azione dunque della correzione vuol essere un movimento tutto dell'animo, nulla di esterno. Ogni uomo, nascendo, porta con sè quasi il regolatore della sua vita in alcuni sentimenti, che furono finora o mal conosciuti o male apprezzati e dei quali aspetto di parlarvene fra poco. Intanto le ragioni del tempo e la coscienza nostra ci hanno già tolti di mano quegli strumenti brutali di cui pochi di noi conservano confusamente qualche remota reminiscenza. V'è una pedagogica barbara, che annovera anche il terrore fra i buoni mezzi educativi, e crede ancora all'efficacia dello staffile, come vi son molti che credono ancora all'efficacia della pena di morte. Noi non abbiamo nulla a vedere con questa pedagogica, e se perdoniamo allo zelo materno un gesto anche molto vivace della mano, là dove non entrano le persuasioni pedagogiche, oltre un punto solo vogliamo che il corpo del fanciullo sia il tempio sacrosanto di qualche cosa di immortale, e sacrilega sia la mano che lo tocca. Ai tempi di quei maestri che il Giusti chiamava "vetturali" pareva impossibile che cinquanta ragazzacci stessero uniti in una scuola se non ammaliati dal bastone, e i colpi si distribuivano a dosi come le medicine, chiamando gli stessi compagni a tener ferma la mano del colpevole. Perchè dopo trent'anni appena ci sembrano cose, dell'altro mondo? Non accusiamo i nostri padri di colpe che al loro posto avremmo commesse anche noi; ma la riflessione si faccia almeno per nostro avviso, per non cadere in altri errori, che non sono meno assurdi per quanto siano più umani.
Noi dobbiamo fare qualche cosa di più, e guardare abbasso a ciò che accade anche oggidì, fra tanta declamazione di gentilezza, nelle officine, nelle botteghe, nelle famiglie del popolino e non accontentarsi di star bene noi, ma procurare anche agli altri e specialmente ai più bisognosi il mezzo di guarire.
Qui non si può sperare che un discorso di più o di meno possa cangiare la faccia delle cose, ma noi dobbiamo disperare che quella gente sia preparata alla dolcezza della civiltà, finchè maestri di bottega, padri e madri di famiglia, pienamente al buio di ciò che sia educare ed insegnare, usano d'una correzione che è espressione, non d'un principio, ma dell'ira, dell'odio, dell'avarizia, dell'ubbriachezza, di tutto ciò che volete di più inconsulto, di più brutale.
Una delle più vive impressioni della mia fanciullezza fu la vista di un ragazzetto di forse sei anni, che, seduto innanzi al deschetto d'un ciabattino, imparava allora a tirare i primi spaghi.
Io imparava allora le prime declinazioni latine.
Il padrone, un brutto ceffo che pareva tinto col carbone, gli aveva sempre gli occhiacci addosso e ad ogni colpo in fallo, faceva piombare sul viso e sulle braccia nude del bambino una doppia correggia di cuoio. La correzione lasciava il segno su quelle povere carni e il bambino s'ingegnava d'infilare sullo spago anche le sue lagrime. Un giorno lo sgabello era vuoto, e io sperai che il poverino potesse morire. Ma pensando a ciò che io ho sofferto per lui a quel tempo, e all'impeto d'odio che provavo contro quel brutto arnese, mi spaventa che oggi non sia molto meglio d'una volta. Una correzione che ha per iscopo di nutrire nel cuore l'odio e il corruccio, è un delitto come ogni sorta di corruzione morale.
Nè le parole sono spesso più educative di questi atti, anzi nelle officine, e su per le baltresche corrono formole di rimprovero che son trattatelli concentrati di malizia, e gli epiteti e gli auguri che certe madri inviano alle loro figliuole, sono spesso di tal natura, ch'io non potrei pure accennarle senza offendere la dignità de' miei uditori. Ma qui non è il caso di deplorare; parole se ne fanno già molte e per nulla. Speriamo solo che gli amici del popolo comincino veramente ad amare il popolo come sè stessi.
Ma anche fra noi, che presumiamo di sorgere talvolta a maestri di ciò che conviene, non sono molti coloro che in mezzo alle molteplici e fastidiose incombenze dell'educare, sotto la noia di un lungo esercizio, nella moltitudine, nell'insofferenza degli allievi, innanzi alla loro dissipazione chiassosa, turbolenta, vorticosa, non sono molti coloro che sappiano mantenere quella serenità di spirito e di parole, per cui lo zelo trabocca dalla giustizia, e non dall'impazienza e dall'ira. Battere altrui per dare un piacere alla mano è mestiere da tiranno: egualmente l'esplosione di un'anima iraconda non potrà mai essere uno spettacolo educativo. Al di sopra delle nostre passioni sta il sommo bene del nostro allievo, del nostro figliuolo, e se giova il calore della voce, il lampo degli sguardi a dimostrare un vivo amore alla giustizia, lo zelo non deve mai far le spese del nostro sangue e dei nostri nervi. Son cose facili a dirsi lo so; ma che cosa sarebbe l'ideale dell'educatore senza la virtù del disinteresse, che lo riveste d'una sacra maestà e fa di lui un personaggio meno terrestre, o meno comune degli altri?
È ai giovani maestri, che più sentono le tentazioni del sangue e ai quali forse la mia voce può sembrare meno debole, ch'io vorrei raccomandare questo prezioso esercizio di osservazione sopra sè stessi, allo scopo di sceverare sempre sè stessi dalle volgari passioni del momento e di mettere più lucida innanzi la nozione del bene.
Che prima di venire al castigo convenga conoscere l'indole del fanciullo per non correre il rischio di turbarne il sentimento; che non a tutti gli allievi l'egual castigo e l'eguale rimprovero torna opportuno; che bisogna procurare di piegare al meglio e non di affogare una naturale inclinazione; che il castigo troppo ripetuto perde la sua tempra; che l'ammonizione privata e amorosa, novanta volte su cento, vale più della punizione pubblica e spettacolosa, sono cose d'una sapienza troppo antica, perchè io debba ripicchiare sopra di esse. Aprite qualunque buon libro di educazione pratica, quello della Necker de Saussure p. e. intorno all'Educazione Progressiva e vi troverete scritto che "una punizione perchè sia efficace e a proposito deve essere annunciata prima e applicata in seguito a un caso ben definito; che bisogna cercare di volgere la reprensione dal lato della persuasione; che la noia delle nostre eterne querimonie finisce coll'indurre nell'allievo un sentimento di disistima verso di noi, e collo staccare il suo spirito dal nostro; che l'ironia e le frecciate lunghe e indirette sono generalmente odiose e irritanti per un'anima tenerella; che una volta scontato il fallo, bisogna restituire al fanciullo tutta intiera la nostra benevolenza e non parlarne più e così via".
Nè io finirei così presto, se volessi enumerare tutte le precauzioni che il buon medico deve avere verso il suo malato; le circostanze di luogo, di clima, di natura, variano all'infinito, come variano i colori del mare, del quale non si può dire se sia verde od azzurro. È nell'applicazione che la dottrina dell'educazione diventa un'arte delle più complicate, e il dare dei precetti nell'arte, voi sapete che spesso equivale come imbrogliare le idee. L'amore è la più tenera guida, se non la più sicura; e difficilmente s'inganna chi nell'educazione interroga spesso e attentamente ciò che il cuore gli dice.
Lasciando dunque da parte ciò che fu sempre sperimentato come buono e conveniente, mi preme di richiamare la vostra attenzione su certe condizioni nuove del nostro tempo, che mettono in serio imbarazzo il cuore e la mente di chi deve educare. Nei collegi, negli orfanotrofi, nelle comunità d'ogni sorta, e anche nelle famiglie, oggi, (e ve ne sarete accorti) il dovere della riprensione e del castigo è divenuto così arduo e spinoso, da far nascere il dubbio se non sia meglio chiudere gli occhi e abbandonarsi alla provvidenza.
Di tanto in tanto noi leggiamo tra i fatti diversi dei giornali notizie orribili di fanciulli, di giovinetti e perfino di bambine, che per un esagerato sentimento di sè, preferiscono la morte all'umiliazione d'un castigo, e se la danno la morte colle loro tenere mani, prima di aver assaggiato nulla della vita, lasciando dietro di loro uno sgomento indescrivibile in chi, fra gli altri suoi doveri, ha pur quello di punire. I fatti sono noti anche a voi, nè io avrei coraggio di ripeterli. Sebbene la loro frequenza cominci a mettere un doloroso ingombro nelle tabelle statistiche, voglio tuttavia considerare queste sciagure come eccezioni, o come si dice, casi patologici isolati. Ma sotto a questi fatti, che spuntano a galla, sarebbe una debolezza il credere che non esista uno stato d'eccitazione morbosa o almeno una troppo delicata costituzione nelle ultime nostre generazioni.
Io non ho tempo di risolvere quest'oggi un problema, che altri potrebbe ricercare meglio di me, cioè se questa estrema delicatezza o nervosità sia il buon frutto d'un sistema migliorato, il quod erat in votis, un segno infine che le generazioni vanno raffinandosi nella civiltà, oppure un segno di decadenza morale.
Mi basta notare il fatto e vi prego di convenire con me che oggi i nostri figliuoli non nascono più bamboccioni solamente golosi e curiosi, ma portano col nascere, insieme al nostro sangue, quel più di vita che fa bisogno per un tempo in cui la vita e un correre, un affaccendarsi, uno spingersi l'un l'altro. A cinque anni un bambino ne sa quanto non sapevamo noi, d'una generazione non molto antica, a sette, a nove anni; e ben disse Alfonso Karr che a Parigi non vi sono bambine. Anche il nodo della famiglia si è stretto di più, il tu s'è sostituito al lei; mamma e figliuolo si abbracciano veramente come devono fare: e sembra bello, giusto e naturale ciò che alle nostre nonne pareva un peccato o per lo meno una sconvenienza. In quest'atmosfera più calda i fanciulli maturano prima; hanno libri e giornali per loro; lo scuole sono più rapide, le cognizioni arrivano più presto all'orecchio e all'occhio del vostro bambino, nè vale che voi corriate a chiudere la porta e la finestra; la cosa vi entra dall'abbaino. Ed ecco il piccolo uomo, molto amato, molto istrutto, molto eloquente, che sa d'avere dei diritti quanti sono i suoi doveri, che sente sè stesso più grande di quello che sia, che per conseguenza soffre in un modo sproporzionato d'ogni puntura inflitta al suo amor proprio.
Le condizioni e le abitudini domestiche possono anche imprimere a questa natura più viva le forme più svariate e più squisite della gentilezza, della bontà, della sensibilità; se da una parte voi siete davanti a un genio altiero che non soffre catene, dall'altra parte avete animette che soffrono, senza fremiti, ma con danno mortale d'ogni piccolo colpo che voi portate alla loro sensibilità. Nell'un caso e nell'altro la mano dell'educatore non osa più pesare quanto è necessario: e non che la mano, il dito.
Le madri vedono con muto stupore le insurrezioni d'uno spirito che precorre il calendario e mentre credono d'aver sulle ginocchia un bambino, è un filosofo che parla. Oh! volete castigare un filosofo nel vino e nella frutta? Chiuderete in una cameretta buia con pane e acqua un giovinetto che sa come si possa, ad un bisogno, saltar dalla finestra?
Attenuate pure il volume e il peso delle mie parole, se vi pare che io abbia troppo ingrossata la voce; ma dovrete pure consentire che anche abbassando il tuono, le cose sono oggi cambiate e che l'educatore ha ragione di temere o di far troppo o di far troppo poco.
Ebbene, dovrà essere menomata l'autorità del maestro e del padre da una siffatta preoccupazione? concederemo intera libertà ai sediziosi impeti della natura, o dovremo proprio sembrare spietati agli occhi loro? sono due pericoli egualmente paurosi, perchè la scarsa o la nessuna direzione non è peggiore della mancanza d'una amorosa corrispondenza. L'essere fiacchi equivale, parlando di educazione, all'essere tiranni. Quindi mentre da una parte noi sentiamo la necessità di rallentare i vincoli e di concedere ai nostri allievi quella libertà di movimento spirituale, che sola può dare forma e robustezza al loro carattere individuale, dall'altra ci sentiamo sfuggire di mano i vecchi strumenti di correzione, quale perchè logorato dal tempo, quale perchè in contraddizione col metodo, quale altro per non far peggio o per rispetto umano.
Supponete un fanciullo molto ostinato che non intende più la voce paterna: che cosa resta a fare? Supponete uno scolaro indisciplinato e negligente, pel quale siano state inutili le prime, le seconde e le terze ammonizioni? Non resta al maestro che di scacciarlo, ma una disgrazia non può in nessun modo ripararne un'altra.
E intanto i malcontenti prendono motivo per predicare che i tempi peggiorano, che l'autorità paterna si fiacca, che la baldanza giovanile spadroneggia, che le generazioni vanno incontro all'avvenire sbrigliate, con poca coscienza dei loro doveri; anzi con tanta poca coscienza di questi quanto è troppa la coscienza dei loro diritti.
Noi non vogliamo tornare indietro, nè ormai si potrebbe più; ma dobbiamo studiare i modi di rendere buono ciò che ha in sè stesso gli elementi della bontà. E anzitutto se l'uomo si risveglia prima nel bambino, svegliamoci prima anche noi, perchè un giorno perduto nell'educazione può essere un raccolto perduto. Rendiamoci persuasi di quel che debba essere il nostro sacrificio, e cominciamo col castigare in noi stessi tutto ciò che può portare al male l'innocenza, frenando, se è necessario, anche quelle care e divine intemperanze del cuore, che sono i gridi più entusiastici della natura. Tutto ciò che i parenti e i maestri fanno per l'educazione di loro stessi, sono altrettanti dolori risparmiati ai figliuoli, e la famiglia in questo studio deve dare la mano alla scuola.
Una volta che questa prima vittoria sia ottenuta, (nè deve essere difficile, se abbiamo un sentimento generoso) ottenuto cioè che l'educare non sia più un esercizio empirico di buone e di false tradizioni, ma un concetto luminoso nell'animo di tutti, il compito nostro è subito semplificato.
Senza bisogno di mortificare quel diavolo che salta nel corpo, ma non nell'anima ai nostri figliuoli, potremo far entrare sane e tutte intere le forze vergini e robuste della natura nell'organismo dell'uomo senza sciupar nulla, sicuri che quando, l'uomo possegga l'animo retto e le forze rigogliose, molte cose le trova facilmente per la via.
Ma come si otterrà questo miracolo?
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Quando il nostro figliuolo viene al mondo (e non si può cominciar bene che dal principio) è come un terreno che ha in sè i germi fecondi, ma senza erbe e senza piante. Non è, come si diceva una volta, una tabula rasa, ma un suolo non dissodato, che può essere suscettibile di vegetazione rigogliosa. Tocca a noi, colla nostra attenzione, di condurre intorno a lui quelle condizioni di cose che sono come il calore, la luce, l'aria e l'acqua per il campo.
Questa forza vitale, per la quale il bambino è destinato a crescere e a svilupparsi, produce quasi subito due sentimenti, che sono il primo germoglio della sua vita spirituale, voglio dire la pietà e l'amor di sè stesso.
La pietà è naturale in una creaturina debole, che ha tanti bisogni, che soffre vivamente e che imagina tutte le cose dover soffrire come lui; l'amore di sè è il prodotto più spontaneo d'un essere vivo, pel quale la vita è tutto. L'una porta alla considerazione del mondo che ne circonda, e aiuta a farci conoscere la madre, i parenti, gli uomini tutti; l'altro va completando in noi stessi quelle forze egoistiche, che sono pure le colonne della nostra individualità. Le prime lagrime e i primi capricci sono appunto la prima espressione di questi due sentimenti, che per me rappresentano quasi lo strumento promotore e moderatore di tutti gli atti successivi.
Educate quel buon sentimento pietoso, ampliatelo, offrite spesso le occasioni di esercitarsi, dimostrate insieme come ogni ingiustizia, dalla più piccola impertinenza alle ferite e all'uccisione, siano dolori e sofferenze per qualcuno; fatevi vedere voi stessi sofferenti e non rassegnati, e il fanciullo proverà tale sgomento che sfuggirà l'ingiustizia, come sfugge il dolore. Rifrugando nelle memorie più lontane della mia fanciullezza, mi ricordo di un giorno che, andando per un sentiero campestre, volli farmi un bastoncino del tronco novello di un gelso, piantato in un vivaio. Trassi il mio coltellino e tagliai sbadatamente al piede il tenero ramicello. Ma una voce dietro di me gridando mi fece trasalire. Era un bel vecchio contadino, il padrone del luogo, che mi rimproverava per quella brutta azione. Udendo però che non l'avevo fatto per malizia, mentre stavo come smarrito, raddolcì la voce: - Perchè hai voluto far male a quella povera pianta? non è egli vero che sarebbe cresciuta bella, alta, piena di frasche? e così tu l'hai uccisa...
Questa brutta parola mi fece una sì grande compassione, ch'io ruppi in lagrime. Ne provai dentro di me un rimorso e uno sgomento, come se veramente la pianticella avesse patito umanamente... e da quel giorno imparai a rispettare le piante. Chi mi assicura che anche gli uomini non ci abbiano guadagnato? La giustizia che si presenta sotto la veste di pietosa ed amorosa bontà trova sempre buona accoglienza nel cuore del fanciullo; non resta dunque che di saper ridurre a questa formola tutta la giustizia, e di lasciare che naturalmente dalla pietà derivi il rispetto, la venerazione, l'aiuto e il coraggio. Ogni piccola colpa, si dice, offende Dio; più chiaramente si dirà che ogni piccola colpa offende una coscienza gentile6.
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A salvare poi dal pericolo che questa sensibilità degradi in gracilità, rimane l'altro sentimento, l'amor proprio, quel diavolo che faceva tanta paura ai claustrali e ai santi del medio evo, i quali dichiaravano per fargli rabbia, essere l'uomo abbietto verme, vil fango della terra. Io mi guarderei bene dal pronunciare queste massime innanzi a' miei allievi, e son invece d'avviso che convenga lusingare il naturale egoismo per quel tanto che possa concorrere a creare l'idea della propria dignità e del proprio valore. Funesta nell'educazione è qualunque dottrina che nega direttamente o indirettamente gli attributi quasi divini dell'uomo, e per quanto amore io porti al povero Leopardi, non è sulle querimonie sue ch'io potrei sperare di educare un buon cittadino. Così tutto ciò che è negativo, come la satira, e tutto ciò che tende ad abbassare il concetto umano, come il materialismo, state sicuri che in educazione farà sempre tristissima prova.
Noi dobbiamo poter dire al nostro allievo: - Sì, tu sei il re dell'universo: tu hai fatto opere meravigliose: il tuo corpo è il più bello di tutte le creature: il tuo pensiero è un raggio divino; la tua parola è potente - per potergli dire subito dopo: - Non scender nel fango, non deturpare quella tua bellezza, non offuscare quel tuo pensiero.
Le madri non dicono forse per ispirazione al loro bimbo che piange: - Ve', ve', come sei brutto!? - Ecco tutto, noi dobbiamo procurare di turbare la coscienza del nostro allievo colla immagine della sua deformità, ma questa immagine non ha altro specchio che l'amor proprio. Il non far il male per non dispiacere agli altri è un sentimento pietoso che vale per uno, il non farlo per non dispiacere a sè stesso vale per cento. Quell'Io sempre presente, che ha ripugnanza di tutto ciò che non è pulito, quell'Io alquanto altezzoso, persuaso della propria forza, è l'educatore più saggio, più vigilante che voi possiate dare ai vostri figliuoli.
Diciamo dunque e presto ai nostri allievi che la sincerità è un bell'ornamento nel carattere dell'uomo, e diamo noi stessi l'esempio, non solo di non mentir mai, ma di stimare chi confessa la propria colpa, come se fosse un soldato coraggioso che torna dalla battaglia. Appena se ne provò l'esperienza nelle scuole, la bugia fuggì come se avesse le gambe lunghe, ed è bello veramente, direi quasi, commovente, lo spettacolo d'un fanciullo, che sapendo d'essere colpevole, si alza fra cinquanta o sessanta testoline e dice: - Sono stato io, mi scusi... - Il maestro commosso gli restituisce tutta la sua benevolenza e nel cuore del fanciullo non resta più nessun fondo di amarezza.
Se voi fate di persuadere al vostro allievo che il lavoro nobilita, fortifica, rende più alacri e sani; che l'operaio delle miniere è un coraggioso più nobile e bello nel suo vestito affumicato d'ogni profumato vagheggino, più volentieri lavorerà egli stesso, e il lavoro non sarà più abbassato a significare castigo.
Se noi possiamo ottenere che in tutti gli atti del nostro allievo siano in continuo giuoco questi due sentimenti di pietà per altrui, di rispetto per sè, diventa inutile ingombro tutto quell'apparato di premi e di castighi artificiali, che abbiamo ereditato da metodi grossolani non più in accordo colla nostra gentilezza.
Questo è l'ideale a cui dobbiamo arrivare. So bene che il far delle teoriche è sempre più facile che il sapersi distrigare nella pratica; ma è guardando in alto che si contempla il cielo.
L'occhio benigno o conturbato, la voce amorosa o triste, ma non mai stridente e noiosa, e sempre in voi una specie di grande, di paziente aspettazione, di vera gioia o di vero dolore - ecco in che cosa deve consistere il nostro sistema; finchè arriveremo, speriamo, o noi o i nostri figliuoli, al giorno, in cui sarà tremendo castigo per il fanciullo una nube che passa sul volto della mamma, e un premio senza pari il sentirsi dire dal babbo: - Qua la mano, mio galantuomo".
II.
IL DIAVOLO DEI NOSTRI FIGLIUOLI
Si è nominato una volta il diavolo che salta in corpo ai nostri figliuoli e si è cercato di dimostrare che in fondo, a saperlo pigliare per i corni, può servire anche lui a qualche cosa, se non ad altro, a portar un poco il peso della nostra responsabilità. Ma è bene tener gli occhi aperti, perchè fin dai tempi d'Eva il diavolo amò trasfigurarsi e prendere le figure più strane, più seducenti, più irriconoscibili. Il diavolo, per uscir dalla vecchia metafora, son le passioni che a un certo periodo dello sviluppo saltan su come un vulcano e talvolta sconquassano tutto l'edificio pazientemente costrutto in molti anni di solida educazione; figuriamoci poi se questo edificio è tutto di stecchi e di fuscellini! Occhio dunque al nemico! aspettiamolo armati di vigilanza, di pazienza, di indulgenza, di compatimento, di carità, ma non cediamogli il passo. Attenti all'insidia del sordido rettile, che striscia voluttuosamente nel giardino dei nostri figliuoli e colla sordida bava avvelena il soavissimo fiore della innocenza!
La mala bestia penetra di soppiatto, assalta il vostro ragazzo mentre dorme, lo incanta tra il sonno e la veglia, e il poveretto che nell'ingenuità sua non sa di carezzare un serpente, ne resta morsicato e avvelenato per sempre. Se non capite di che cosa parla la Strenna, chiedete al medico una spiegazione, ma non vi scusi il dire: io non sapevo. I genitori devono saper tutto, specialmente quel che fa male.
Moto, ginnastica, stanchezza, sonno di piombo, aria fresca del mattino, e di tanto in tanto una occhiata medica sono i rimedi che suggerisce l'igiene fisica. L'igiene morale, consiglia una grande varietà di occupazioni, una passione viva e interessante per qualche cosa di nobile, per lo studio, per un'arte, per un esercizio, compagnie oneste e allegre, passatempi sani e un buon sentimento religioso.
Certe confidenze esagerate tra padre, madre e figliuoli portano a discorsi che non giovano; peggio fanno certe letture malsane. Non abbiate paura di parer troppo rigorosi su questo argomento. Se non si può sempre riparare a tutte le passioni, che sono alle volte più forti della vita e della scienza, si faccia almeno di tutto per addomesticarle, le bestie feroci. Non stiamo ad aspettare che divorino i nostri figli. Non si creda che basti mormorare come fanno le beghine col rosario in mano: Vade retro, Satana... Ci vuol altro! il diavolo non ha mai avuto paura dei rosari, anzi qualche volta si serve del rosario per incatenare meglio una beghina peccatrice.
Il diavolo astuto e svelto ha a sua disposizione, oltre al fuoco interno, i teatri, i libri divertenti, le belle pitture, la musica, il giuoco, il corpo di ballo, e le altre bellezze che all'ingenuo giovinetto fa passare per angeli, il birbone! Ci vuol altro, come vedete, che un vade retro! C'è da perder la testa e la confidenza nelle proprie forze in questo giuoco noioso, pericoloso, difficile, qualche volta grottesco, di metterci tra il diavolo e la nostra creatura, di disfare tutte le trappole coperte che egli va seminando lungo il fiorito sentiero della giovinezza, di dimostrare tutto il contrario delle dimostrazioni ch'egli dà vale a dire che il bello è brutto, che gli angeli son streghe, che lo zucchero è tossico, che il padre Segneri è più divertente del Boccaccio, che una partita a domino o all'oca in famiglia vale tutte le operette francesi e tutte le partite di bigliardo al club o al caffè.
È un giuoco, anzi una fatica così immane e pesante, che molti padri, sentendosi incapaci di lottare coll'invisibile, non vi credono o vi rinunciano e dicono, parlando del loro scapestratene: - Oh, provi anche lui! la vita bisogna la conosca da sè; quando avrà fatte le sue, come noi abbiamo fatte le nostre, metterà giudizio, prenderà moglie e pace. Meglio presto che troppo tardi, perchè un vecchio che perde il giudizio nessuno lo compatisce.
Chi mi sa dire quante volte su cento questo sistema del lasciar fare è riuscito bene?
A noi pedagoghi mancano ancora le statistiche morali e siamo perciò obbligati ad argomentare in aria; ma per conto mio non vorrei che un mio ragazzo provasse e pagasse a sue spese l'esperienza. Anche quando il troppo non stroppia, esaurisce prima del tempo le sensazioni che madre natura ama distribuire con parsimonia lungo la strada della vita. Il soldato che mangia tutta la razione al mattino, che gli resta al mezzodì? E poi c'è dell'altro. Il gusto dolciastro del piacere, non accompagnato dal pane casalingo, disgusta dalla semplicità dei cibi alla buona. Chi succia di continuo la bottiglia del rhum dice che la virtù ha l'insipidezza dell'acqua, che è buona tutt'al più per lavarsi le mani; ed è proprio e solamente per questa benedetta virtù che noi dobbiamo educare. Il piacere si raccomanda da sè.
Certo è un mestiere faticoso che rasenta talvolta il ridicolo; e son pochi i genitori che amano, uscir fuori colla gran cuffia della virtù in testa. Son così cari e simpatici questi nostri scapestrati! ma, in nome di Dio, se non lo facciamo noi di casa questo servizio di frenamento, dobbiamo forse aspettarci che lo facciano gli altri - o gli angeli, di cui sopra?
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Ma come si fa? - Ecco la domanda che si rimandano l'un l'altro i padri di famiglia, grattandosi in capo. Anche loro son passati di là bene o male e sanno che le belle massime non hanno mai spento il fuoco, ma fu sempre il fuoco che abbruciò il libro delle belle massime. Dobbiamo incatenarli questi nostri ragazzi? I barattoli delle spezierie come le belle prediche morali non hanno mai impedita una febbre. È vero, e non c'è nulla di più assurdo e di più inutile come il pretendere che ci sia un rimedio per tutti i mali. Morire si morirà sempre in tutte le età e in tutti i paesi anche coi progressi dell'igiene e colle disinfezioni a domicilio; ciò che si cerca di guarire, predicando, è la pigrizia dei genitori, i quali se non possono salvare i figliuoli dai mali inevitabili, possono, devono salvarli da tutti gli altri.
Ora è quasi dimostrato che le passioni, come le idee fisse, si guariscono colla distrazione. Aumentate, centuplicate le sensazioni oneste e il vostro figliuolo non sentirà il bisogno delle altre. Il miglior modo per non commettere peccati è di non aver tempo di farli. La varietà delle sensazioni si ottiene con una grande varietà d'occupazioni, alternate in modo, che una serva di riposo all'altra e tutte insieme concorrano a rinforzare l'energia morale e a procacciare il senso delle cose nobili ed elevate. Se un vecchio ideale ha potuto più d'una volta salvare uno scapestrato dall'estrema gozzoviglia, come non sperare che un ideale giovine e gentile non abbia a salvare il nostro figliuolo dal poco pulito? Il bene è in gran parte una questione di estetica e di galateo. Perciò ogni casa dovrebbe avere un altarino per il culto della santa bellezza e delle purissime feste della vita. Date, secondate, eccitate qualche nobile passione per lo studio, per i libri, per le raccolte, per un'arte dilettevole che venga a colmare tutti i minuti dell'ozio; nell'esercizio è la salute. La musica, il disegno, la recitazione, i giuochi, la ginnastica, lo sport, la danza, la conversazione piacevole coi compagni e anche colle saggie compagne della sua età offrono al giovinetto quante occasioni si vogliono perchè egli non abbia a desiderare passatempi estranei, insindacabili, di cui non si può parlare senza arrossire. La socievolezza colle persone di casa, specialmente colle persone attempate e colle signore, rende i nostri figliuoli più educati, più aristocratici e si sa che l'airone delicato non ama pascersi delle lumache della terra. Quel muraglione che la pedagogia barbogia suole innalzare tra i due sessi è, a parer mio, un rimedio che, esagerando il pericolo, lo rende più pericoloso. Perchè far delle nostre care figliuole lo spauracchio dei nostri figliuoli? Ognuno di noi si ricorda quante volte le nostre graziose sorelline ci hanno impedito d'essere sguaiati e vigliacchi. È trattando le cose fragili che s'impara ad essere pazienti, delicati, non inconsulti nei nostri movimenti: la morale che s'impara sulle anime vive è cento volte più sicura di quella che si studia sui libri morti. Fate che all'immaginazione del fanciullo la virtù si presenti sotto l'aspetto d'una dea bella e sorridente ed egli se ne innamorerà tanto più volentieri.
III.
LA RELIGIOSITÀ DEL FANCIULLO
L'argomento esce soltanto col suo titolo dai limiti di una Strenna alla buona, che più che dimostrare delle verità, si propone di agitarle; ma il lettore sente l'importanza della questione, anzi credo che nessuno sia mai stato meglio disposto a sentirla quanto un lettore moderno, che vive in mezzo ai grandi contrasti morali della vita moderna. La Strenna non fa che mettervi il dito sopra.
Parlar di religione oggi è un tema pericoloso, tanto per chi ci crede quanto per chi non ci crede, tanto per gl'intransigenti come per i tolleranti. Agli uni sembra che non si dica mai abbastanza, agli altri par troppo ogni minimo poco: i più prudenti consigliano di scivolar sopra e di lasciare che le cose si aggiustino da sè.
Ma la religiosità non è la religione; l'una so che può essere tutta nell'altra; è vero, ma spesso l'una va senza dell'altra molto volentieri, e in molti casi vedo che si contrastano e si escludono a meraviglia. Per discorrere di una religione positiva bisogna essere almeno confermato in una teologia, scienza troppo ampia e difficile, perchè un profano non iniziato possa leggermente avventurarvisi. La religiosità all'incontro è un sentimento umano, che può essere alla portata di tutti, degli umili e dei potenti, dei dotti e degli ignoranti, abita in noi, non nei libri sacri, non ha dogmi astrusi, non vien dal cielo alla terra, ma va dalla terra al cielo, dal noto all'ignoto, dal piccolo al grande, all'immenso, all'infinito, dal cuore di ciascuno al cuore di tutti, dall'egoismo alla pietà: e una volta sceverata da quel poco di discutibile, che vi può aver portato il tempo o la debolezza umana, rimane un sentimento positivo, reale, sociale ed umano come ogni altro, di cui si ha l'obbligo di parlare quando si trattano argomenti educativi. Lasciar l'educazione di questo pio sentimento soltanto ai preti o ai rabbini, è rinunciare per parte nostra a ciò che vi può essere di più sacro nell'animo dei nostri figliuoli.
Il non parlarne sarebbe come un negare che questo sentimento esista, sistema pericoloso che può piacere ai moderati sapienti, ma che non spegne un fuoco latente nell'intime viscere della natura. La religiosità nel cuore dell'uomo nasce dalla medesima radice donde nascono gli altri meravigliosi sensi della vita. Basta un'occhiata a un bel cielo stellato in una notte serena per farla nascere e anche per farla ritornare, se l'abbiamo o crediamo d'averla cacciata via. Nessuno può essere certo fin che vive di averlo ben spento questo fuoco, anche se si sforza tutta la vita di versarvi cenere sopra; e si è visto qualcuno frugare un bel giorno nella cenere per cercarvene ansiosamente l'ultima scintilla. Gli scettici, che non osano tacciarla di superstizione, si limitano a chiamarla poesia; ma il nome che importa? che Dio sia nel cuore dei poeti l'ha detto già la sapienza degli antichi. Ciò che importa è che questo istinto o bisogno dell'alto sia riconosciuto: e una volta riconosciuto, sia rispettato come una forza benefica. Quando poi si tratta di figliuoli nostri, ciò che importa è che che ognuno si metta una mano sul cuore e pesi bene la responsabilità che gli tocca. Non c'è via di mezzo; o voi dovete spegnere questo fuoco naturale, o voi dovete alimentarlo. Lasciar che affumichi la coscienza senza che mandi nè luce nè calore, è la peggiore delle risoluzioni.
Il fanciullo, che è tutto calore e scintille, è naturalmente impregnato di religiosità. Per poco che voi suggerite, egli vi farà idoli il sole, il fiore, l'immagine e l'ombra di sè stesso. L'immaginazione cerca alla credenza il suo ubi consistam, come la rondinella attraverso gli spazi immensi del mare cerca uno scoglio in cui scendere a riposare. Il bambino ha assolutamente bisogno di trovare una causa a tutte le cose. Di questa causa o ragion sufficiente può far senza il filosofo con una malinconica e sforzata rinuncia, quando dichiarando di attenersi al fenomeno, al solo fenomeno, pone un limite alla sua curiosità: il fanciullo no, non può rassegnarsi a non sapere. Il filosofo, dopo sforzi faticosi, può, come la volpe della favola, rinunciare all'uva collocata troppo in alto, chiamar sè stesso positivista e l'uva inconoscibile e illudersi ancora di essere un sapiente: il fanciullo, soggetto tutto spontaneo e naturale, non crede di sapere se non quando sa, quando cioè noi rispondiamo con una ragione sufficiente ai suoi perchè, fin dove arriva la curiosità sua e la nostra buona volontà. Il suo spirito mobile, continuamente fuori d'equilibrio, ha continuamente bisogno d'appoggiarsi a qualche cosa di solido e di fisso.
La grandiosità stessa della natura che lo circonda lo spaventerebbe co' suoi profondi misteri come un caos tenebroso, s'egli non potesse vedere almeno una striscia luminosa che va dalla terra al cielo. Quanti sono i filosofi che si compiacciono a contemplare la grande solitudine metafisica della natura morta? e può contentarsene un poeta?
Togliere al fanciullo l'incanto d'una fede, sterilizzarne la mente col dubbio e colla negazione, oltre che non è scientificamente onesto, è pedagogicamente un oltraggio alla natura.
La religiosità è l'ala dell'anima. L'anima che non vola, striscia. Il fanciullo che non sogna le stelle, ha i sonni oscuri e le notti spaventose. Pretendere ch'egli sogni delle formole aritmetiche e canti i nostri aforismi meccanici, è come un volere che un uccellino dimostri il teorema di Pitagora.
La fanciullezza senza innocenza e senza illusioni non può essere che il programma d'una pedagogia di sterili. Noi siamo più rispettosi di quel che la natura ci dà: e come ci guardiamo bene dal togliere una foglia ad una rosa per aggiustarla secondo un nostro ideale geometrico, così ci guardiamo dal togliere un affetto al cuore umano per ridurre il cuore a una figura più razionale.
Perchè leveremo dall'animo del nostro figliuolo la grazia innata, la bontà istintiva, l'amore per le cose belle? e se vi lasciamo queste perle, perchè vorremo levare il sentimento generale che tutte le racchiude e le raccoglie tutte. Faremo anzi ogni sforzo per educarlo, per purificarlo dalle scorie, per elevarlo fin dove può salire, certi che da un affetto puro e disinteressato non può derivare che una serie di azioni pure e disinteressate.
Il cuore del bambino che si scalda nella religiosità della sua mamma sarà sempre, per noi platonici, uno dei più cari idillî della vita.
Togliere la poesia alla giovinezza è un voler anticipare inutilmente e per forza d'artificî la vecchiezza: é un ingegnarsi a fabbricar delle rovine. La pedagogia degli sterili non ammette l'illusione, ma vuole che il fanciullo conosca sempre il vero, soltanto il vero, tutto il vero anche se turpe e spiacevole. La vita non deve aver veli e fiori nemmeno sulle sue piaghe: le passioni non devono arrivare sconosciute, ma previste, predette e, se è possibile, preparate e ammanite da un buon trattato di fisiologia. A sentir certi rivenditori di dottrine scientifiche, il fanciullo deve sapere non solo come si nasce, come si muore, ma anche quel che giace di più nascosto in fondo ai dolci misteri dell'amore. Così, pare agli sterili, il giovine cresce agguerrito dell'esperienza di suo padre contro le brutte sorprese, possiede il catalogo esatto de' suoi bisogni e de' suoi istinti ed è sicuro di non perdersi nel labirinto della vita. È la stessa pedagogia che toglie di mano ai bimbi e alle bimbe i libri delle fate e dei viaggi meravigliosi, che trova immorali le favole del La Fontaine, del Perault, i romanzi del Verne, tutto ciò, in una parola, che ai bimbi piace di più, per sostituirvi i libri di storia patria, i disegni di storia naturale, che certamente piacciono meno, che non parlano all'immaginazione, che non trasportano, non commuovono, non divertono, ma, badate, istruiscono nella verità. Questa sacra verità (che la scienza muta ogni secolo) deve tener il posto d'ogni cosa, del piacere, del sorriso, del sogno, della lagrima che la fanciullezza offre tanto volentieri alla povera Cenerentola. Zitto là! Cenerentola non è mai esistita. Un giorno, figliuoli, vi dimostreremo che nemmeno i sette re di Roma son esistiti, che fantasie poetiche sono i racconti della storia sacra, che Guglielmo Teli, il pomo, il fanciullo e la freccia, è tutta una fantasia: che Legnano, il giuramento di Pontida, Robinson Crosuè, Gulliver e i suoi Lilliput, la Bella addormentata nel bosco, il Gatto stivalato sono tutte fiabe dello stesso valore, indegne d'un uomo ragionevole, fiabe immorali perchè false, il vero solo avendo diritto di essere conosciuto ed amato. E quel giorno, cari figliuoli, se crederete a noi sapienti, che del vero abbiamo i documenti positivi, lascerete le fiabe e le bambole e vi divertirete moralmente, cioè scientificamente, come ci divertiamo noi, colle raccolte di mineralogia e colle classificazioni del Linneo. Noi eleveremo il giucco a dignità pedagogica: già stiamo preparando dei piccoli scheletri umani snodati, dotti come un libro, che metteremo al posto dei vecchi arlecchini e delle vecchie bambole.
Giuocando, il fanciullo vedrà come è fatto l'uomo di dentro e di fuori, imparerà a conoscere sè stesso, si abituerà all'idea della morte. Altro che Robinson e il suo Venerdì! altro che le avventure del barone di Monkhausen Questa è la vita vera, spolpata da ogni fantasticheria. Poi, cari figliuoli, se sarete verosimili, vi dimostreremo in qual modo la mamma vi ha messo al mondo, cominciando dalle sofferenze dei primi mesi fino all'estremo travaglio; perchè è stato scientificamente dimostrato che un bimbo vuol più bene alla sua mammina, quando sa quel che la mammina ha patito nel darlo alla luce. Sicuro voi non ne volete abbastanza di bene alle vostre mamme, poveri bimbi, poichè credete ancora che un angelo o una vecchia comare vi abbia portato una notte sul suo letto. Quando invece avrete un'idea di quel che può essere un parto laborioso con intervento di ferri, il vostro amore diventerà un incendio, sarete più buoni, più obbedienti, più riconoscenti, più cauti nelle vostre passioni. Non crederete più, come abbiamo creduto noi romantici, ai lusinghieri incanti dell'amore. Tra voi e le vostre care cuginette scenderà sempre il pensiero delle possibili conseguenze fisiologiche. I vostri baci saranno meno vuoti di senso, e se farete dei versi d'amore, per un bisogno atavistico della psiche non ancora rigenerata nell'acqua distillata, sarà una poetica descrittiva del fenomeno erotico, come già si è cominciato a fare a dolce istruzione delle nostre ingenue fanciulle. Così, cari figliuoli, la vostra vita, a furia d'esser vera, finirà col diventare una cosa assurda e anche un po' stupida.
IV.
L'AVVENIRE DEI NOSTRI FIGLIUOLI
Bisogna che ognuno si faccia il suo posto nel mondo e lo starvi bene, con decoro, con soddisfazione non è più un'arte facile, nemmeno per coloro che hanno la fortuna di nascere, come si dice, nella bambagia. Tocca ai genitori e a tutti quelli che hanno in consegna le giovani speranze aver l'occhio avanti, e preparare gli animi dei giovani in modo, che ognuno possa poi, secondo le attitudini sue, trovare la sua nicchia, o discernere con giudizio la strada buona e la più breve, se è possibile, della propria carriera.
Questo benedetto argomento delle carriere è un problema, che punge come una corona di spine la testa dei poveri babbi e delle povere mamme. Non si guardano a sacrifici, pur di dare ai nostri figliuoli una soda educazione. V'è chi si leva il boccon di bocca per mantenere agli studi, al liceo, all'università il genio di casa; ma il mondo è fitto, la concorrenza è spieiata.
La disoccupazione è un male che travaglia non la sola classe operaia, come si pensa, ma si dilata ormai a tutte le classi, che hanno bisogno di lavorare per vivere, agli impiegati che ingombrano tutti i solai della burocrazia, agli ingegneri che son più della terra, agli avvocati costretti a litigare fra loro, ai pittori che non sanno più che cosa dipingere per spacciare la mercanzia, ai maestri di musica, che Dio li benedica! ai copisti, ai letterati, che non hanno mai fatto buoni affari nel mondo nemmeno in tempi migliori, ai giornalisti, obbligati a vendersi un paio di volte all'anno, ai professori e alle maestre più numerose delle stelle del cielo, quantunque non meno lucenti. Anzi se si voglion dire le cose come stanno, le classi meno disagiate, vale a dire quelle che fanno una carriera di studio, così detta professionale o liberale, soffrono oggi di questa miseria di lavoro e di collocamento non meno o forse di più delle classi operaie, le quali nella perfezionata loro organizzazione hanno provveduto o stanno per provvedere sempre più agli alti e bassi della richiesta e agli improvvisi spostamenti del lavoro.
Il professionista non può sempre adattarsi, come si adatta l'operaio, ai mutamenti. Il modesto manovale che disceso da val Vigezzo o da val Brembana tenta tutte le professioni, porta la secchia della calce, stacca i cavalli dalle carrozze, grida i giornali per le vie, si alloga in un magazzino, diventa capo fabbrica, direttore d'un opificio e col tempo banchiere o forse deputato, è un uomo, direbbe Emerson, che cammina di fronte a' suoi giorni, non si vergogna di perfezionarsi in ogni posizione, non ripone il viver suo nell'avvenire, ma vive di già; non gode i favori di una sorte, ma di cento. Se cade fa presto a risorgere, non sta ad aspettare che la fortuna passi sulla sua strada, ma va a cercarla, a scovarla dove c'è. Tutte le strade per il lavoratore libero menano a Roma. Il professionista è invece legato alla sua professione. Per venti o trent'anni egli si obbliga a un lavoro di preparazione tutto passivo, a una forte anticipazione di tempo e di denaro, a una lunga anticamera davanti all'uscio d'un impiego o a quello ancor più chiuso dei clienti: e ogni anno che passa l'uomo si sprofonda sempre più nella sua professione come in una fossa, dalla quale non solo non può più uscire, ma che gli nasconde la vista di tutto ciò che si agita di fuori. E poi non si vuol fare un passo indietro, si sa: la dignità è la toga delle professioni! e poi non si saprebbe resistere a certi mutamenti, perchè non si fa volontieri se non ciò che si sa fare. Pretendere che un bravo sonatore di violino segga a sonare il trombone, se non lo sa sonare, è un chieder l'impossibile. Ma i violini son troppi in orchestra. Ecco la disoccupazione.
Molti si rassegnano a cantare nei cori. Giovani e abilissimi ingegneri usciti tra i primi dei politecnici, dove si studia sul serio, devono chiamarsi arcifortunati, se dopo tre quattro cinque anni di sospiri, trovano una logora sedia in qualche ufficio amministrativo a centocinquanta lirette al mese. E una volta seduti, non fiatan più per paura di farsi sentire da un altro più bravo, e si rassegnano a risalire tranquillamente il mare della vita sospinti da quella forza che in gergo d'ufficio è detta anzianità, E non è rado veder dei giovani scienziati già ben avviati a studi di microscopia rassegnarsi a piccoli posti di medici comunali coll'incarico della constatazione giornaliera dei cadaveri a domicilio.
Di avvocati senza clienti è piena la Guida. Coloro che non si rassegnano alla grandissima carriera giudiziaria o che non riescono a fossilizzarsi in una banca o in una divisione di ministero, possono accendere la pippa delle loro notti di studente coi capitoli delle Pandette e cogli articoli del Codice. Il bisogno, sempre cattivo consigliere, trasforma i più deboli di questi avvocati o in politicanti di professione, o in azzeccagarbugli, sostegno al birbone, spavento agli innocenti.
Per la carriera militare, oltre alla vocazione, ci vuole una rassegnazione speciale, che aiuti a obbedire sempre e a non ragionar mai, a digerire i lunghi ozi delle guarnigioni, a difendersi dai vizi figliuoli dell'ozio. In tempi fortunosi può essere una carriera affascinante per un giovine che non abbia pel capo fisime umanitarie e filosofiche; ma in tempi di pace squallida e lunga non c'è nulla che più secchi a un giovine vivo come l'andare attorno impettito, coi bottoni lucidi, armato d'uno spadone incruento, alla conquista delle belle ragazze che è proibito sposare. Anche con tutta questa rassegnazione i posti sono scarsi, le promozioni lente come la morte, quantunque ogni anno si mandino a riposo forzato i più anziani per far il posto ai nuovi, creando una disoccupazione pagata per rimediare all'altra.
C'è la carriera dell'insegnamento. Ma non sentite che continuo piagnucolamento d'insegnanti sopra la meschinità d'una carriera, che oltre al mettere l'uomo legato mani e piedi all'obbedienza dei pochi che comandano, lo tien magro e leggiero per quarant'anni di sacrifici e di logoramento? Il professore dello Stato deve aver sempre la casa sulle spalle, pronto a partire lui la moglie e i cinque pargoletti al primo telegramma di S. E. Il maestro è alla discrezione del comune che lo paga, cioè tranne le solite e ben conosciute eccezioni, in balia del sindaco babbeo, del curato intransigente, o della sua serva pettegola. Le maestrine hanno già commosse le viscere della stampa, come sapete, colla storia dei loro dolori e continuano a ispirare poeti e drammaturghi come le figliuole di Niobe. E con tutto ciò, se c'è un posto largo il fondo d'un pane, son cento, son mille le concorrenti; dalle quali restano fuori ancora le istitutrici che non hanno diploma, le professoresse che ne hanno due o tre, le maestre di pianoforte e quelle incalcolabili di lingua francese!
Dei medici condotti ha già cantata la storia quarant'anni fa il Fusinato; e la sorte non è migliorata coi tempi nuovi, tutt'altro. Non si muore abbastanza per tutti.
Toccò a un autore di Strenne di mia conoscenza di dover raccomandare nello spazio di una settimana un medico per una condotta suburbana, un mezzo erudito per una biblioteca e un giovine specialista per il pubblico macello. Nessuno dei tre riuscì, segno che un altro sollecitatore più abile aveva fatto riuscire i suoi. Se interrogate, non un autore di Strenne, ma un uomo di qualche importanza, come può essere, per esempio, un deputato, un assessore comunale, un capo divisione, un commendatore non troppo avariato, uno di quei personaggi insomma che fanno correre i portieri e sfondano tutte le porte delle grosse amministrazioni, ne sentireste di curiose sulle persecuzioni a cui è esposto un uomo d'importanza da parte dei sollecitatori d'impiego. C'è della gente che si lascierebbe cuocere in una frittata pur d'arrivare sul piatto d'una persona influente. Il bisogno è ingegnoso, paziente, ostinato e non guarda se la povera dignità umana, costretta a trascinarsi per ore ed ore su per le scale degli uffici e dei dicasteri, non torna sempre a casa colla gonnella pulita.
Una volta c'eran le buone carriere ecclesiastiche, veri scaricatori delle famiglie, e gli sfoghi dei conventi; ma oggi, per tutte le ragioni che si sanno, pochissime son le famiglie che fanno dei conti sul futuro zio prete. Mancano i benefici, mancano le vocazioni, manca il credito. In quanto ai conventi, quei pochi che restano a dispetto dei santi sono più una mesta rinuncia, che non una carriera d'esercizio sociale.
In questo stato di cose che va diventando sempre più grave per il continuo frazionamento delle famiglie e dei patrimoni, il pensiero della carriera dei figliuoli è uno dei più tormentosi per un povero padre di famiglia, che non ha da lasciar loro che un nome onorato e l'esempio d'una vita intemerata e sobria. Se son figliuole, è ancor peggio, perchè la disoccupazione maschile ha per grande contraccolpo quella grande disoccupazione femminile, che le ragazze esprimono colla cantilena: - aspettare e non venire...
I pochi e magri impieghi conducono un uomo sano e simpatico sulla soglia dei quarant'anni prima ch'egli si risolva a prendere moglie; e quando ottenuta la promozione o la stabilità sospirata, pensa a pigliarla, gli viene un'altra terribile paura: che sia troppo tardi e pericoloso. E intanto all'anima gemella non resta che mettere sul telaio un altro paio di pantofole.
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Son cose che si dicono ridendo, tanto per non guastare la Strenna: ma non per nulla i padri di famiglia invecchiano presto. Da un pezzo si va predicando sui giornali e sui libri educativi che la donna è fatta per i dolci affetti di famiglia, non per le sterili nenie del chiostro. Andiamo ripetendo che l'ufficio della donna è la maternità, che la sua santa missione è di dare alla patria figliuoli robusti e valorosi cittadini... Ma con che cosa si fanno questi cittadini? che significano tutte queste belle parole, se non ci sono i mariti che le sposano? e come può un ragazzo di giudizio imbarcarsi nel matrimonio senza una buona posizione sociale?
Da cosa nasce cosa, dice il proverbio: ma si può anche dire che una cosa impedisce l'altra. Intanto per togliere queste nostre povere e belle figliuole al pericolo del morir di fame, quando noi non ci saremo più, le sciupiamo fin d'ora negli studi magistrali, nella contabilità, nella musica, nella così detta arte scenica, nei magazzini di mode, fin nelle stamperie e nelle raffinerie, ne facciamo delle farmaciste, delle contabili, delle dottoresse, delle professoresse, che muovono quasi per dispetto una spietata concorrenza ai galantuomini farmacisti, dottori, contabili e professori che dovrebbero sposarle. Così una disoccupazione ne produce un'altra e il disagio generale si dilata, come se il mondo fosse retto da un ministero italiano.
Una Strenna non può naturalmente risolvere un problema che si attacca a troppi inviluppi economici, politici, filosofici e che soltanto il tempo e la pazienza degli uomini potranno dipannare, se prima non mancherà il tempo e la pazienza. Ma è già qualche cosa aver in mente che le belle carriere facili non ci sono più: che per gli onesti l'andare avanti diventa sempre più arduo: che pei timidi e i poltroni non c'è posto nel mondo: che il perder tempo fin dai primi passi significa restare sempre indietro: che le pompose ambizioni dei titoli, dei gradi, degli alti impieghi, dei lauti stipendi, delle sinecure e dei canonicati è tutta mitologia d'altri tempi: che non basta nemmeno l'esser ricco e il possedere case e terre, se non si sa amministrare la propria roba o almeno difenderla dai ladri.
Sicuro che una Strenna non può dare un consiglio buono per tutti i casi; ma un consiglio non inutile per tutti è di ripetere ai nostri figliuoli: - Per carità non perdete tempo. Tenete da conto tutte le forze di cui natura vi ha provveduto e impiegatele tutte alla conquista del pane. L'avvenire non sconta più le cambiali dell'ozio e della dissipazione e chi spreca da giovane dovrà lavorare da vecchio.
Questi potranno sembrare consigli di vecchia morale tradizionale; e infatti non c'è nulla in essi che non sia già stato detto le mille volte. Ma il mondo dimentica facilmente e i nostri figliuoli sono nel caso di sentirle per la prima volta certe verità. Mentre da una parte ecciteremo al fare, dall'altra aggiungeremo qualche altro consiglio più fresco, che persuada piuttosto il non far troppo, il non desiderare di soverchio, il contentarsi di quello che si ha, il non cercare il fumo ma la sostanza delle cose, il mettere il decoro più dentro che fuori di sè. Diremo, per esempio, ai figli nostri: - "Non siate troppo ambiziosi: contentatevi anche di più modeste carriere; tutte le professioni sono nobili e pulite allo stesso modo, quando non sporcano la coscienza: toglietevi dal capo il pregiudizio che un uomo diventi rispettabile soltanto quando si chiama dottore, professore, cavaliere, e che non si possa vivere decentemente se non si spendono dieci mila lire l'anno. Chi non può essere avvocato procuri d'essere fotografo, o metta bottega di libri, o apra un magazzino di stoffe, o cerchi una rappresentanza, o dipinga delle insegne, o rompa la sua attività in tre o quattro mestieri, nobiliti egli il lavoro che fa, senza aspettare la nobiltà dai diplomi e dalle patenti di carta, che non salvano un mal capitato dal morire di fame. Abbassate, limitate i vostri bisogni alla misura dei vostri mezzi. Non è vero che senza un bicchiere di vermouth o di vin bianco secco un buon cittadino non possa acquistare appetito prima di pranzo, come non è vero che senza un bel paio di guanti lucidi e una stupenda cravatta di raso un negoziante ci rimetta un poco del suo credito presso i clienti: le abitudini costose e la vanità sono i grandi ostacoli al viver bene. Ciò che non può più dare il fasto e la pompa decorativa della carriera, lo può sempre dare la nobile e superba aristocrazia del carattere, senza della quale qualunque più fortunato e grosso affarista resta sempre un essere di razza inferiore.
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Compensi elevatissimi offrono in ogni modesta condizione il saper gustare le cose belle e spirituali della vita, la coltura intellettuale, il gusto dei piaceri semplici ed economici dell'arte, i sentimenti di carità e di umanità verso gli altri, la coscienza interiore, per cui la vita del povero può essere illuminata di dentro più splendidamente dei palazzi dei re. E questi compensi ognuno se li può educare e crescere in casa, come si tengono i vasi dei fiori sul davanzale della finestra. Cercate la ragione sufficiente dell'esistenza nella sincerità degli affetti che vi legheranno un giorno a una donnina brava e modesta come voi, e a due, a tre, a quattro figliuoli buoni e giudiziosi come il babbo e come la mamma. Questa felicità, non di princisbecco, ma di oro fino la si può acquistare con modesti stipendi, con rendite più che modeste, se non mancano l'abitudine del lavoro e la sobrietà della vita. Non la si trova con cinquantamila lire di rendita, se non si sa scavare nel filone naturale. Queste cose i padri dovrebbero prima recitare a sè stessi per esserne prima persuasi loro e poi ripetere, ricantare, trasfondere nella coscienza dei loro figliuoli al posto delle sterili ambizioni così dette di società, le quali si riducono quasi sempre a polvere negli occhi dei gonzi. La miglior maniera per far bella figura nel mondo è di saper farne senza: o in altre parole uno tanto vale presso i suoi simili quanto dimostra loro che non ne ha bisogno. Quest'orgoglio messo al posto delle vanità esteriori ci salverà dalla peggiore delle schiavitù, quella che obbedisce all'opinione degli sciocchi disoccupati.
Come t'è picciol fallo amaro morso!