Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Vecchie cadenze e nuove

PARTE III GLI INTIMI SENSI

IL CANTO DELLA PIETÀ

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IL CANTO DELLA PIETÀ

 

Essa diceva il suo dolor. La voce

Scaturiva dal cor come un gorgoglio

D'acque interrotte, che fan specchio al piede

D'una pallida Niobe di marmo.

Anch'essa nata era di carne viva

La bella donna e quel suo cuor di sasso

Avea pur gorgheggiato entro la festa

Degli usignoli, quando april dischiude

L'anima ai fiori ed escono i profumi

Dalle selve com'onda pia d'incenso

Verso un gran dio.

 

È allor che si diffonde

La giovinezza per il mondo e voce

La natura non ha che non diventi

Armonia sulle corde d'un pensiero

Innamorato. Il cor, come rosata

Conchiglia tolta ai ceruli misteri

Dell'onda, emana un mistico frastuono,

Che vien da un'invisibile e ritorna

A una sponda invisibile, tra cui

Non anco rugge la tempesta umana.

E mi dicea come morì travolta

Dalla sterile vita in un'angoscia

D'oltraggiate speranze, invan stringendo

Nella man l'ombra dei fuggenti sogni

Fatti quasi rimorsi. E non bagnava

Il suo mesto parlar stilla di pianto,

Ch'è pur sì dolce a chi racconta i mali:

Ma gli occhi aperti e cristallini tutta

Rinfrangean la mestizia del deserto,

Ove più non ritorna ombra di bella

Cosa passata e sol vi regna il nulla

Che ripensa stesso.

 

Allor si ruppe

La pietà del mio cor: e col mio pianto

Lei piangendo e le gelide di marmo

Piccole mani accarezzando, e tutta

Spirando su di lei l'anima accesa:

- Ch'io senta, dissi, oh ch'io per te ritrovi

Il tuo dolor, oh ch'io per te la piena

Versi del pianto mio sulle tue mani

A riscaldarle: e la mia mano ardente

Ti cerchi il cor fatto di pietra e un fiato

Passi della pietà che mi distrugge

Per le rigide labbra. A desolate

Rovine è vita il pio pensier dell'uomo,

Che le penetra spesso, onde par quasi

Ch'escan le storie più lontane e torni

La voce delle cose. Io so che a qualche

Simulacro sepolto la carezza

D'un amoroso artefice ha potuto

La bellezza ridar d'una divina

Luce scomparsa e l'immortal sorriso

Che fu delizia già del mondo. O estinta

Ove scenda la mia che ti carezzi

Spiritual , di fibra in fibra

Trascorrerà la vita, delle spine

Risentirai la punta e colar sangue

Vedrò dalle tue carni e gli occhi pregni

Farsi di pianto e trasalir le membra

Entro i soavi spasimi - soavi

Se ci fan questa vita anche una volta

Ritrovar sul cammin della speranza.

- Nulla può - mi rispose - a un corpo morto

Pietrificato in un dolor eterno

Dar vita e forza, non s'altri lo ponga

Nelle fiamme del sol. In me già spenta

È la memoria d'ogni antico sogno

E giace il desiderio in un oscuro

Angolo come spada irrugginita:

Lascia ch'io posi qui sul mio sepolcro

Statua dolente di me stessa morta,

In fin che il tempo colla lenta ingiuria

poco a poco il mio nome cancelli

Dalla pietra e la gialla edera stringa

Del mio destin la bruna urna caduta.

 

*

*  *

 

Così dicendo, aprì gli occhi solenni,

Che parver vuoti d'ogni idea e fece

Infine al fondo a me tutta palese

L'infinita tristezza. Un senso oscuro

Quasi di morte allor mi assalse e curvo

Sopra i ginocchi, al suo rigido corpo

Appoggiato, intonai l'inno del pianto,

A cui dal sen delle dolenti cose

Mille voci risposero piangendo.

Un fremito mandò scossa la selva

Pei rami infranti e dei rapiti fiori

Si querelò sul margine il cespuglio

Delle rose di maggio. In un lamento

Singhiozzando la tortora proruppe

Dall'alto nido e raccontò l'angoscia

Dei rotti amori. E fin dentro le grotte

Del cavo tufo risonò la lenta

Storia d'oscure lagrime stillanti,

Di cui le ortiche pasconsi e s'imbeve

L'orrida spina. Dai meandri, in cui

S'appiatta il verme, un susurrìo di duoli

 

Venne a narrar come si soffra indarno

Di vita fin nell'ultime radici

Poi che una legge di dolor governa

I sostegni del mondo e sol si pasce

Di stessa natura. Ecco non una

In braccio al vento trema arida foglia

Senza dolor, non sfiorasi una siepe,

Ma quando autunno misero sparpaglia

Per le fredde campagne quasi un sciame

D'anime stanche, stridono i viali

Che le vedon fuggir e lunghe stendono

A lor le braccia gli alberi morenti

Sopra i bianchi crepuscoli.

 

Più triste

Sarìa di quest'uman gregge la sorte

Nella valle del duol ove non fosse

Della pietà la lagrimosa fonte

A ristorar le forze inaridite.

Forse a rimedio d'immutabil sorte

E d'inconsulto error questa nel coro

Ci pose un dio di lagrime sorgente,

Che sovra i mali ampia trabocca e spegne

Di molti mali il furibondo orgoglio.

Sgorga la fonte e qual si apre al ristoro

Della rugiada un fior consunto, un fiore

Torna così di pallida speranza

Sulla tomba dell'anima e diffonde

Il non morto profumo. Essa è divina

E vien da noi questa bontà del pianto,

Che benedice alle morenti cose

E le morte consacra. Ai colpi acerbi

Della forza che strugge, una gentile

Forza che sana contrappone e tragge

Dall'ingiuria l'amor. Ove non fosse,

Nido di serpi il mondo ed esecrata

Sorte sarìa la vita e combattuta

Ragion l'amor come tra i ciechi armenti;

Ma la pietà che stilla e che ti avvolge

Di lagrime in un tiepido lavacro

Ti fa più bella pensierosa e santa,

Alta ti posa sull'altar del duolo

Quasi raggiante, e in te fissarsi è luce

Al lontan pellegrin ch'erra smarrito

Per la sassosa valle e che già teme

D'essere morto o faticosamente

Conduce il peso dell'inutil vita.

 

*

*  *

 

Un vermiglio color corse le guancie,

La man che ghiaccia resistea si sciolse

In un tiepor di calde rose al sole;

Si schiusero le labbra e fatto indarno

Argine all'onda che le gonfia il petto,

Proruppe il pianto vincitor dei mali.

 

 

 


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