Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Vecchie cadenze e nuove

PARTE III GLI INTIMI SENSI

LE ORE DELLA VITA

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LE ORE DELLA VITA

 

Disciolto il vago sogno, esco pei campi

sotto la neve e nella nebbia occulti,

quasi occulto a me stesso o a me sol noto

quanto basta per dir: son un che piango,

Per il nudo deserto in ordin mesto

mi seguono, lasciando dietro un solco

di tristezza nel pian candido, i morti

pensieri della vita e quei che all'alba

del primo gioco giovanil sereni

nunzi di glorie e fantasie di pace

all'innocente cor disser le prime

insidie e quelli che al maturo senso

schiusero il mito delle eterne cose.

E seguon lagrimando, angeli vinti

nella breve battaglia intorno al vinto

lor signore, le rotte ali strisciando

alle ruvide spine. Escono al pianto

nostro dalla socchiusa urna del Tempo

l'Ore cadute, che passar nel regno

della mia vita luminose o brune,

e ognuna a ricordar alza la voce

quel che già fummo.

 

*

*  *

 

«Io son - una ricorda -

l'ora del Sogno. Io son quella che i casti

giorni dipinse e suggerì le rime

preludiando all'amor. Se ti rimembri,

molto ti piacqui in sul fiorir degli anni,

allor che mi traevi ramingando

per vie solinghe a ricamar la trama

de' reconditi boschi o di solinga

tomba a baciar le squallide viole.

Nella vergine veste a te le immagini

spesso recai, che ti facean dal forte

sonno balzar ed allungar la mano

a rosei lembi ed a fuggenti chiome.

 

*

*  *

 

«Son io - mi dice una seguente voce -

l'ali fremente dell'amor son io,

Ora che mai si oblia, quella che prima

raccolsi sul bocciuol d'un rugiadoso

labbro il singhiozzo d'un soave affanno,

soave ancora a ricordar. La bella

mal renitente a te sporse la bocca

molle d'ogni dolcezza, onde fu a lungo

inebriata poi, lieta di canti,

l'aurora del tuo maggio e a lei men triste

degli anni brevi il pallido tramonto.

 

*

*  *

 

«Io te guidai per la superba via

e forte in man ti equilibrai la spada

della Giustizia - un'altra erra dicendo

in ton più grave. - Del voler ti cinsi

i fianchi il della battaglia e l'ira

t'armai di solitudine sdegnosa

contro il volgo dei mali. Io nelle gare

de' vili il core ti sostenni e stetti

fiera in disparte a ritemprar la forza

dei sacri sdegni. In altro scudo io penso

non brami d'esser collocato il giorno

che, nudo in terra, ma la fronte al cielo

cadrai.

 

*

*  *

 

«Deh, non fuggir quel che ti attrista

Io, io del tuo Dolor l'Ora più fiera

col mio singhiozzo non dovrei nell'ombra

rinnovellare i gemiti e gli auguri...

(così se stessa una dolente accusa).

Al cor molle di gioie e di speranze

io stesi il dito acuto e tanto il tenni

fin che quasi lo spensi. Amor e fede

ne strappai spaventosa e al suol, non morto,

ma sanguinante ti lasciai nel sangue

della tua vita alla pietà dei buoni

umil bersaglio. Ma del ben ti schiusi

l'intime fonti e nel tuo pianto immersa

i lenti moti dirizzai de' sensi

a seguir della logora mestizia

i passi tra i bisogni aspri de' miseri,

chè scuola è il nostro mal ai mali altrui.

Io non già t'insegnai l'orride piaghe

a denudar del volgo e a far d'un cencio

alta bandiera all'irritante musa,

ma dal palagio all'umil tana a dito

mostrai qual sia del vivere lo stento

e il signorile affanno.

 

*

*  *

 

«Ed io, mi guarda,

amico, io son la mite Ora che prega,

che teco inginocchiata, ove il materno

occhio vegliava, il tenero sospiro

della Fede sorella al sen raccolsi.

Andar senza di me, forte non lieto,

sciogliesti poi, nume a te stesso. E ancora

sulla soglia ti aspetto ove negletta

mi lasciasti, se mai d'una cocente

stilla di sangue ti lacrimi il cuore,

o se disperazion dai desolati

cieli più nera piova. Invan tu speri

dimenticarmi. A chi bevve profonda

la mia dolcezza in sul mattin, più lunga

di me nel vespro tornerà la sete.

 

*

*  *

 

«Volgiti lieto al mio chiamar. All'opra

sempre desta tu vedi in me la pronta

Ora del tuo Lavor, madre a robuste

speranze, quella che ai cresciuti danni

porsi il ristoro dei raccolti frutti,

che all'ombra edificai d'una sicura

coscienza del tuo vivere la casa.

Sai come al martellar forte e frequente

si scosse il tuo vigor: dalle riposte

fantasie scaturì qualche non rozzo

simulacro e l'idea venne all'incude

del sonante lavor docile ancella.

 

*

*  *

 

«Ed io son l'Ora del Dover - (sommessa

parla un'ultima voce) - umile vissi

nella tua vita e taciturna; scarse

lodi raccolsi; di ragion ministra

me di me stessa mi contento e pago».

 

*

*  *

 

Questo dell'Ore che fuggir il grido

tra il doloroso e il lieto, a cui tra il lieto

risposi e il doloroso: - O mie fedeli,

o del mio viver sacre e benedette

sorelle, il ricordar dite che giova?

voi ben sapete come voli il tempo

e in picciol spazio irrigidisca il labbro

delle parlanti cose. In aria un segno

di voi, di me non resterà più vivo

di quanto lasci nel volar la nera

rondinella che passa. Ove il più bello

ci venga tolto e in particelle, in polve

volga di noi la più divina parte,

qual gioia il dir: noi fummo? e quale il vanto

d'aver coi mali avuta inutil guerra?

ogni cosa vien meno e tutto oscura

un'estrema d'Oblìo ora che tace

sopra gli stessi mali eternamente.

 

*

*  *

 

«Non vano esser vissuti! - a me col pieno

coro rispondon le vaganti amiche -

non vano, ove in gentil opra di bene

si perpetui l'affanno. Anche se sciolta

e sparsa al vento è la dolente polve,

erra come di fior morto il profumo

nella stanza dei vivi. A un Nume è sacro,

non a quell'incenso che dall'ara

sale continuo nella oscura cella,

inutil scende la rugiada all'erbe

che poi dissipa il sol. Non a stessa

edifica la pietra. Al tempio giova

non men l'ignoto che sepolto giace

coccio sotto le basi e il crisolito

ardente che prostrato il volgo adora.

Ogni Ora nasce quando è il tempo e ognuna

scende dell'infinito Essere in grembo

di sua ragione coronata in fronte

in una tenue, che all'orecchio sfugge

del querulo mortal, vasta armonia.

Nulla è vano, fratel. Non la stanchezza

che mosse della terra i lenti semi,

non il pianto che largo li feconda,

non la morte che scioglie e riconduce

il mister della vita. Alza la speme,

chè a chi vien dietro non è vano il solco

di chi prima passò. Migrano a sciami

associati gii spiriti, siccome

scendon nel freddo tempo in lunga riga

gli stornelli a portar salva in più caldo

lido del caro stuolo la speranza.

Non ognuno per , ma ognun sorregge

della stirpe il destin colla brav'ala

non mai stanca, che tremola all'invito

degli spazi del ciel ampi e del mare».

 

 

 


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