Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Vecchie cadenze e nuove

PARTE III GLI INTIMI SENSI

LE VISIONI DEL CIECO

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LE VISIONI DEL CIECO

 

 

I.

 

Solo presso lo scoglio, ove il dolor mi lega,

vedo nel vuoto abisso passar gli anni caduti

e le cadute cose.

 

Giran le spente occhiaie qua e dentro la bruma

dell'ombra che mi serra e, brancicando, ancora

qualche fantasma io stringo.

 

Nell'addormito spirito, quale su mar deserto

repente un alcione candido irrompe, il cieco

così della mia tenebra

 

Orror fende una donna, uno splendor che i muti

segni richiama e suscita delle memorie spente

nel gran mar delle lagrime,

 

Quale si annuncia candida, qual sorge dalle fonde

acque in un riso tremulo che luccica sull'acque

e in sen dell'acque specchiasi

 

Aurora rinascente, così donna più bella

non parve ad occhi vivi. Pei rivoli del pianto

tutta m'inebria l'anima.

 

Va dalla riva all'ultima onda una via lucente,

in cui scende l'immagine bianca ad un dolce invito;

onde convien che il gracile

 

Corpo io raccolga e rotte l'ultime inerzie, segua

la folgorante traccia, in fin che morto io tocchi

del mar l'ultima riva.

 

 

II.

 

Fanno nel cielo bianco i curvi rami

della selva, che molta neve ingombra,

de' vani, sottilissimi ricami.

 

Per i viali della terra, sgombra

d'ogni speranza, passa una mortale

tristezza, che il candor del suolo adombra.

 

Lugubri augelli van sbattendo l'ale

contro i gelidi tronchi. Io piango. È questa

la morta selva piena d'ogni male.

 

Torna la donna in una verde vesta,

che tiene un molle ramicello in mano

e vien benedicendo la foresta.

 

Non cade, no la sua pietade invano

nel rigido dolor, ma il segno santo

della prudente piccioletta mano

 

Alla tristezza scioglie il duro incanto.

 

 

III.

 

Ogni nebbia si dissipa e prevale

il sol che nasce da un bel mar turchino,

entro la selva che mutò colore.

 

Approdan vele stanche al litorale,

donde scendono donne nel giardino,

che fa la selva tra le piante in fiore.

 

Hanno nel viso le signore sante

le soavi memorie e reca ognuna

un picciol vaso di preziosa essenza.

 

Per i viali muovono le piante

senza versar dai corpi ombra veruna

come di sogno molle evanescenza.

 

 

IV.

 

Vanno le donne angeliche nell'alta erba fiorita

in lagrime la cenere strisciando di lor veste,

E , ma ridente nel suo splendor celeste,

portano una fanciulla tra i gigli impallidita.

 

Di soave tristezza inebriate, il suono

mandan le bianche voci. L'anima sofferente

le segue umile e casta del pianto alla sorgente,

ove le belle attingono la grazia del perdono.

 

Presso la soglia candida, da cui l'onda deriva,

si prostra il fiero sdegno, l'ira si prostra cieca:

più t'immergi nell'acqua che la fontana reca,

più la fanciulla morta a te ritorna viva.

 

«Io sono la speranza nata dal tuo piacere,

ho il sol dentro ai capelli e molte spine ai piedi:

io son la pura essenza di quel che pensi e credi,

l'anima profumata son delle cose vere.

 

«Morta son viva e passo nei sogni del mortale,

spargendo colle mani aperte la semente

di nuovi sogni. Io sono la bella sorridente,

che stillo eterni aromi dai morti fior del male

 

 

V.

 

Venian per la selva silente

Con passo dolente le donne,

Non vive, ma come sottili

Fantasmi gentili nel viso.

Mi cinser la testa pietose

D'un olio di rose soave:

Mi tolser la nebbia che ingombra

Lo spirto com'ombra letale,

E - Figlio - mi dissero - Ave!

 

*

*  *

 

Noi siamo le eterne sorelle

Noi siamo le belle immortali,

Che sciolto il mister della Sfinge,

Di morte non spinge la mano.

Ci accoglie la selva divina,

Che verde sconfina nascosa

Ai cupidi sguardi dei vivi

Di rose e d'ulivi fiorente:

Riposa, riposa, riposa.

 

*

*  *

 

Solleva lo sguardo smarrito

Ascolta l'invito piacente:

Dal monte chi rotola in questa

Eterna foresta rivive.

Per balze scoscese e dirotte

Stancasti la notte: sei vinto.

Riposa, riposa, riposa.

L'effluvio di rosa immortale

Richiami lo spirito estinto.

 

*

*  *

 

Chi beve all'eterna fontana

Che limpida emana da Dio

S'inebria di santa certezza,

Gli anelli disprezza di morte.

Piantate per sempre le tende,

L'affanno distende di un'ora.

Ristora nel placido oblìo

Lo stanco desìo, dell'alma

Le crude ferite ristora.

 

 

VI.

 

Le belle voci e il vago incantamento

Aprir nel sasso la feconda vena,

Che corse come un rivolo d'argento.

La risorta fanciulla, a cui serena

Splendea la pace nel raggiante viso,

Mi die' dell'acqua colla mano piena,

Reggendomi degli occhi col bel riso.

 

*

*  *

 

Inebriare è pallida parola,

Se il dolce esprimer vuoi di paradiso,

In cui mi trasse la gentil carola.

Ma non dirò del sovrumano amplesso

Ond'io fui cinto e della bianca stola

Che me condusse fuori di me stesso.

 

*

*  *

 

S'anco è sognare, o miseri mortali,

Questo cieco veder che n'è concesso,

Se spento è il sole, resta il cielo all'ali.

 

 

 


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