Emilio De Marchi: Raccolta di opere
Emilio De Marchi
Vecchie storie

SCARAMUCCE.

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SCARAMUCCE.

 

Anche la nostra divisione, già da venti giorni accampata ad Oleggio, ricevette l'ordine di raggiungere il grosso dell'esercito, che moveva dal campo di Somma, per versarsi insieme sulla divisione del generale Incaglia, incaricato di difendere il Ticino. Noi eravamo i Bianchi, cioè colla fodera sul berretto, e il corpo dei Neri doveva rappresentare un esercito nemico di sessanta mila uomini, pronto a ritirarsi sopra Varese; a noi era comandato di vincere, e di coprirci di gloria, sparando coi fucili vuoti, fortuna che non capita sempre nemmeno nelle battaglie da burla, sebbene nel mondo si veggano molti menare scalpore anche per più poco. Nessuna meraviglia dunque, se alla vigilia stessa della manovra, molti cuori battessero come innanzi a una vera battaglia: ma il cuore batte spesso per nulla.

Alle tre di mattina il campo era già tutto in movimento. Splendevano ancora le stelle e la più bella luna che sia uscita dalle mani del Creatore. La tromba dava i segnali, e dopo un gran frugare al bujo per terra, ci avviammo in silenzio, carichi di sonno, per le strade biancheggianti e per le nere sodaglie alla volta di Arona. Giunti ai brulli poggi di Cagnago e di Cumignago, il Monte Rosa cominciò a disegnarsi e a colorirsi innanzi all'alba; ed ecco a un tratto escono le prime fucilate dalle siepi e dai boschetti che coronano le alture; e noi avanti, rispondendo noi pure colle fucilate. I Neri fuggivano come una nidiata di sorci, si appiattavano dietro i cigli, sparavano ancora quattro colpi, mostrando appena la fila dei berretti, poi un'altra corserella; si vedevano comparire e sprofondarsi nelle vallette, e poi sempre avanti come se giocassimo a rimpiattarelli. Così di poggio in poggio, di valloncello in valloncello, ora diritti dietro un muro, ora sdrajati nei fossatelli, o terra terra, scaglionati nelle piccole creste per una linea di forse sei miglia sulla destra del Ticino; finchè, occupate oramai tutte le alture colla nostra artiglieria, si cominciò a discendere, a incalzare il nemico contro il fiume. Il giorno s'era fatto chiaro del tutto: il cielo non aveva una ruga, e l'aria fresca della mattina ci lavava il viso dell'ultima nebbia di sonno. Già ne si apriva davanti il spettacolo del Lago Maggiore, azzurro come il cielo, nella sua bella conca di montagne verdi, dipinte in cima dal sole d'un bel colore di carminio.

Nessuno di noi pensava più che si fosse a una manovra. Il sangue, che trasalisce ai primi colpi e che si riscalda alle prime occhiate di sole, gli squilli di tromba, la voce dei capitani, il vedere correre e saltare i cannoni sopra i prati e piantarsi a urlare, le vedette che passano via come freccie, il luccichìo di qualche squadrone di cavalleria, che brilla in un nembo di polvere, superbo e maestoso come una legione di arcangeli; tutto ciò e più di tutto i vent'anni, che non pesano ancora sul sacco, fanno rincrescere quasi che non si faccia per davvero e che gli altri non siano disposti a lasciarsi ammazzare. Due compagnie di Bianchi e di Neri, che si scontrarono l'anno scorso sulla piazzetta di Divignano, mi dicono che, se non c'erano i superiori a fermarli, que' buoni figliuoli si tagliavano a pezzi. E veramente l'illusione è sì viva in questi istanti, che la ragione a stento può trattenere la selvaggia natura, e vi passano per la fantasia idee stravaganti, che son sorelle delle idee eroiche, e si capisce che cos'è lotta, che cos'è lo sterminio: non v'è ragazzo di vent'anni, che, trovandosi a cavallo fra quattro cannoni, non pensi di tagliare il mondo con un colpo di spada. Il corpo vi par diventato di bronzo sotto la giubba di panno. Insomma, non state a ridirlo, ma la guerra dev'essere una bella cosa, forse ancora più bella dell'amore.

Verso le nove giungemmo in vista di Arona.

In questi dintorni ha una villetta mio zio Michele, un buon uomo che ha fatto molti denari col sapone e colle candele steariche, non sapendo nulla dei grandi problemi che travagliano la pellegrina umanità. Sarei stato ben felice, se il caso mi avesse portato a dare una capatina alla villa Teresa (Teresa era il nome della mia povera zia), non perchè in casa di mio zio Michele la tavola sia quasi sempre preparata, ma per la gloria di comparire agli occhi di mia cugina, bello di polvere, abbronzato dal sole, cioè, come dicono i romanzieri, irresistibile. Mio zio, uomo di vecchia esperienza, non aveva mai veduto di buon occhio gli avvocati, e quando seppe ch'io m'ero dato allo studio della legge, crollò la testa, come se si trattasse d'un ladro mestiere. Forse il suo ideale (voglio dire il genero de' suoi sogni) non era un pitocchello di qualche ingegno, ricco soltanto di belle speranze, ma qualche cosa di più sostanzioso, di più palpabile. Perciò non posso dire nemmeno che mio zio mi amasse come la pupilla degli occhi suoi; tuttavia la mia bionda cuginetta Elisa, un diavoletto che avrebbe colle sue moine disarmata la Prussia, spadroneggiava nel cuore del babbo, e se per un capriccio avesse voluto sposare uno spazzacamino, il babbo avrebbe benedetto anche lo spazzacamino.

Io mi lusingavo d'essere qualche cosa di più: e sebbene, prima che mi cingessi un brando, potessi anche sembrare un mattarello di poco giudizio e considerare la Lisa come una ragazzina, oggi ero un volontario e caporale. Il soldato aveva aggiustato l'uomo, e dopo quasi un mese di vita selvaggia, all'erba, sotto la tenda all'aria, al sole, la figura snella di mia cugina mi tornava davanti come una dolce visione, mentre, appoggiato al mio fucile, procuravo di discernere qualche cosa di bianco a una finestra della villa.

Intanto che tutt'assorto nella contemplazione di due gelosie verdi, carezzavo una dolce speranza col pensiero, il capitano, forse ispirato da Dio, ordina al mio tenente di prendere con quattro o cinque uomini e di occupare proprio la villetta dalle gelosie verdi, che per trovarsi in una spianata elevata sul declivio, dominava dal suo terrazzo una buona parte del fiume. Il tenente mi dice: - Venga anche lei, caporale.

Non aveva ancora terminate queste parole, che io camminavo già sul viottolo che conduce alla palazzina, fra due siepi di bosco, lieto e trionfante. - Questa volta, caro zio, - dicevo fra me, - conquistiamo la posizione: l'avvocato ritorna a capo d'un esercito, basta una muraglia di sapone a questi assalti.

Strada facendo, il mio signor tenente, un vanerello ancor fresco d'accademia, con un finestrino di vetro nella cassa dell'occhio sinistro, non cessava dal far paragoni fra il Verbano e il Lago di Garda, dove i suoi avevano una villa: suo padre era marchese, e il tenentino non disperava di diventare un giorno almeno generale, e tante altre cose andava dicendomi, per dimostrarmi ch'egli era ricco, marchese, bravo cavalcatore, e amato da tutte le donne. Ma per conto mio pensavo alla meraviglia di mio zio e della mia cuginetta, quando mi avessero conosciuto; pensavo che, finiti gli studi dell'Università, sarei stato dottore e che la fortuna di questo mondo non la si fa solamente col sapone e colle candele steariche; pensavo che avrei saputo rendere felice la mia bella cugina, anche a costo delle sue duecentomila lire di dote.

Intanto giungemmo al cancello del giardino.

Al rivedere que' viali, quelle piante, que' luoghi pieni d'ombra e di frescura, que' sedili, quelle statue coperte di muschio, che mi ricordavano una lunga storia di giuochi, di capricci, di lagrime e di versi sbagliati, mi pareva di diventar piccino, e il cuore batteva anche a me come alla vigilia d'una vera battaglia.

Tip, il grosso Tip, fu il primo che ci corse incontro abbajando. Allora il sor tenente, accostandosi l'occhialino, - Caporale, - disse, - lei si fermi accanto a questo pino con due uomini e non perda di vista il campanile di Golasecca.

Condusse e piantò gli altri uomini in diversi punti, poi si avviò solo verso la villetta, che distava dal mio pino un quaranta passi, per rendere omaggio ai padroni di casa. Elisa gli venne incontro per la prima.

Vestiva, come di solito, un po' capricciosamente; i capelli biondi, sciolti, scendevano sopra un vestito quasi bianco, allacciato ai ginocchi da una fascia rossa di fuoco. Da sei mesi o forse più che io non la rivedevo, la ragazzina s'era fatta alta e complessa, e la moda ajutava a stringerla in vita e a darle attraenti disuguaglianze.

Il sor tenente, un gatto vecchio che sapeva arrampicarsi, portò la mano alla visiera, si piegò come si piega un bastoncino di giunco, sussurrò delle paroline sorridenti, Dio sa quali sciocchezze! Elisa arrossì un poco, sorrise anch'essa e corse ad avvisare il babbo.

Io intanto non perdevo di vista il campanile di Golasecca.

Elisa aprì le persiane della terrazza, e dopo un istante uscì anche lo zio Michele, sotto un gran cappello di paglia. Il buon uomo pareva beato che la villa Teresa diventasse un punto strategico da far parlare i giornali, e portò egli stesso sotto il padiglione della terrazza due lunghi cannocchiali, coi quali pretendeva di vedere le fabbriche di candele steariche anche nel mondo della luna. Elisa, una discreta chiaccherina quando voleva, avviò una grande conversazione col tenente che col braccio teso andava via via, segnandole i punti principali delle operazioni di campo, intercalando, suppongo, delle scipitezze, perchè le manovre son cose serie, e non si ride delle cose serie.

Io intanto non perdevo di vista il campanile di Golasecca.

Vedendo che non c'era modo di attirare l'attenzione di Elisa un poco anche sul caporale, mi volto a' miei due soldati, li squadro da cima a fondo, e scoperti due bottoni d'una uosa «che non c'erano»: - Pare impossibile, - strillai schiamazzando come un'oca del Campidoglio, - pare impossibile, sacr.... che si portino di quelle porcherie; testa di gatto! perchè mancano que' due bottoni? E zitto, o vi butto in prigione per tre settimane, sacr.....

Ma la conversazione del sor tenente era così piacevole che l'Elisa non s'accorse delle mie bestemmie. Mi pentivo di non aver detto prima al tenente che mio zio era mio zio, e mia cugina qualche cosa di più di una cugina: ma non l'avevo fatto per antipatia, per ignoranza. Peggio per me! Però mia cugina sapeva bene il numero del mio reggimento, e quel numero l'aveva sotto gli occhi; perchè non avrebbe dovuto domandare al tenente se conosceva il caporale così e così? Il tenente presentò a mio zio, com'era giusto, anche il suo biglietto di visita, con tanto di corona sopra: mio zio fe' due occhi di barbagianni, s'inchinò, strinse le labbra come se assaggiasse del vin santo, passò il biglietto alla figlia, che si profuse anch'essa in riverenze. Corbezzole! un marchesino non capita tutti i giorni tra' piedi; non si sa mai ciò che un marchesino può diventare. Mio zio avrebbe voluto essere una saponetta per le sue belle mani, o una torcia stearica per fargli lume.

Io intanto non perdevo di vista il campanile di Grolasecca.

Il mio bonissimo zio, dopo avere stretta fra le sue la mano del marchesino, distese sopra un tavolino una carta geografica della provincia, dove il tenente continuò la sua lezione, seduto accanto all'Elisa. Vi fu un momento che questa abbassò la testa per meglio orientarsi, e il tenente abbassò la sua, rasentando colle labbra i capelli della mia cara cugina. La battaglia era veramente disastrosa per me. Mentre pareva che i due eserciti volessero riposare un poco, le fucilate rincominciarono nel mio cuore: e son fucilate che fanno squarci, non c'è muro che tenga! Mio zio, facendosi visiera colle due mani, cercava il nemico in su quel di Sesto Calente, e gridava: - Si restringono; - mentre il tenente sussurrava delle paroline topografiche all'orecchio di Elisa.

- Signor tenente! - gridai, saltando a un tratto sul terrazzino.

La mia bella cugina si scosse, mi riconobbe e gridò: - To', Pierino.

- Sei tu, nipote mio? - esclamò mio zio con poco entusiasmo.

- Cos'avete, caporale? - interruppe il tenente in un modo insolito; e voltosi a mio zio: - Perdonerà, ma vi può essere un pericolo.

- La patria, la patria anzi tutto, - osservò quel sant'uomo di mio zio Michele.

- Una compagnia di Neri passeggia sul sagrato di Golasecca, - dissi affannosamente e, voltomi alla Lisa, le chiesi: - Come stai?

- Sto bene.... - rispose confusamente.

- È ben sicuro d'averli veduti! - tornò a dimandare il tenente un po' seccato.

- Co' miei occhi.... - ripicchiai insolentemente.

- Prenda i suoi uomini e faccia un giro per tutta la vigna, osservando attentamente tutti i punti all'intorno: anzi sarà bene che salga su qualche pianta.

Mentre il tenente parlava, i miei occhi erano inchiodati addosso all'Elisa che abbassò i suoi.

- Ha capito, caporale?

- Sissignore, - risposi a denti stretti.

- E non perda di vista....

- Ho capito! - gridai, interrompendolo, e voltai le spalle.

- Se i Neri ci lasceranno un po' di pace, le permetterò di far colazione con suo zio.

- Abbi pazienza, nipote mio: la patria anzi tutto. - E mio zio rideva.

La parola colazione il marchesino non l'aveva fatta sonare per nulla: mio zio, che non ci pensava nemmeno, si risvegliò come di soprassalto; pensò che il povero marchese poteva aver fame, e mentre io facevo il giro della vigna, presto presto, un tovagliolo, un pajo d'uova fritte, una bistecca, fra una fucilata e l'altra, un bicchierino di bordò con un pezzettino di ghiaccio. Questo dev'essere accaduto, mentre io andavo in cerca di una pianta... per impiccare l'amor mio, le mie speranze, le mie illusioni.

Infatti, quando tornai presso il pino della mia disperazione, in vista del campanile di Golasecca, il tavolino era imbandito sotto il padiglione, al fresco, e il tenente, servito dalle mani stesse di mia cugina, mangiava come un eroe di Omero.

Gli occhi a un tratto mi si offuscarono. Se invece di semplice polvere avessi avuto del piombo nel mio fucile, chi mi assicura che Pierino non avrebbe fatto uno sproposito? Rimasi più d'un quarto d'ora in una specie d'estasi rabbiosa, il tempo cioè che il tenente impiegò per trangugiare i due piatti freddi; quindi la compagnia entrò in sala, forse a prendere un caffè. No, la guerra non è più bella dell'amore!

- Essa non ha un briciolo di cuore per me, - andavo dicendo, - è una civetta che sogna il marchesino e la carrozza! essa mi lascerebbe anche morire di fame, se io potessi ancora aver fame! Povere mie speranze, poveri miei sogni! -

A queste lamentazioni s'intrecciò una musica malinconica che uscì dalla villa. Era lei che faceva sentire al tenente la Prière à la Madone sul piano-forte, una musica che non giungeva nuova al mio cuore, che mi aveva insegnate tante belle cose! Erano lagrime vere, che ora riempivano gli occhi (non state a dirlo) e che io asciugai colla manica ruvida del mio cappotto. Quando alzai il viso, vidi mio zio sul terrazzino, curvo, colle mani appoggiate alle ginocchia, intento a speculare nel cannocchiale le mosse dei Neri: la musica era cessata e il buon uomo gridava:

- Si restringono sempre. -

Io allora, col mio fucile stretto fra le mani, col passo leggiero d'uno scoiattolo, saltando sulla sabbia, eccomi sul terrazzino, anzi fin quasi alla persiana, prima che mio zio se ne accorga; mi arresto, arresto i moti del cuore, spingo il capo verso l'entrata e l'occhio verso il piano-forte, e, non vedendo più il campanile di Golasecca, sparo in aria un colpo, io non so perchè, un colpo che rimbombò come un temporale. Mio zio Michele saltò a cavallo del cannocchiale, Elisa gettò un grido e svenne nelle braccia... d'una poltrona; i miei soldati sparsi nella vigna, credendo di far bene, risposero con una salva, e a questa risposero altre salve dei nostri, rimasti sulla strada, che temevano d'un'imboscata. Tutto il campo fu messo sottosopra e per poco non ne andava di mezzo la fortuna della giornata.

Io, appoggiato al muro, pallido, irrigidito, non sapevo più in che mondo mi trovassi. Della lunga predica che il tenente infuriato e rosso in viso fece sonare al mio orecchio, io non intesi se non che, giunti a Milano, egli mi avrebbe condannato a un mese di prigione e a tre di consegna in caserma.

E mantenne la parola da vero gentiluomo. Ne' panni suoi avrei fatto di più; ma quando mi fu concesso di uscire, tutto era finito, la battaglia era perduta.

Sei mesi dopo ricevetti un bigliettino malinconico di mio zio, che mi pregava di andare a trovarlo e di perdonargli molte cose: non seppi resistere alla tentazione, e, sebbene avessi giurato di non porre più il piede nella sua casa, vi andai, Non era più lo zio d'una volta. Mi fece sedere accanto, mi prese malinconicamente la mano, mentre gli occhi gli si riempivano di lagrime.

- Elisa? - balbettai con voce tremante.

- È malata. -

Il nemico era passato devastando il paese.

 

 

 



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