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S. Alfonso Maria de Liguori
Pratica di amar Gesù Cristo

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CAPO XVI.

Caritas omnia sperat.

Chi ama Gesù Cristo spera tutto da Gesù Cristo.

La speranza fa crescere la carità, e la carità fa crescere la speranza. Certamente la speranza nella divina bontà fa crescere l'amore verso Gesù Cristo. Scrive S. Tommaso che nello stesso tempo che noi speriamo qualche bene da alcuno, cominciamo ancora ad amarlo: Ex hoc enim quod per aliquem speravimus nobis posse provenire bona, movemur in ipsum sicut bonum nostrum et sic incipimus ipsum amare (S. Thom. 2. 2. q. 40. a. 7).1 Perciò il Signore non vuole che mettiamo confidenza nelle creature: Nolite confidere in principibus (Ps. CXLV, 2); e maledice chi confida nell'uomo: Maledictus homo qui confidit in homine (Ier. XVII, 5). Non vuole Dio che confidiamo nelle creature, perché non vuole che noi mettiamo in esse il nostro amore. Quindi S. Vincenzo de' Paoli dicea: “Avvertiamo di non molto fondarci sulla protezione degli uomini, perché il Signore quando ci vede appoggiati ad essi si ritira da noi. All'incontro quanto più noi confidiamo in Dio, tanto più ci avanziamo


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in amarlo”.2 Viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum (Ps. CXVIII, 32). Oh come corre nella via della perfezione colui che ha il cuor dilatato dalla confidenza in Dio! Non solo corre, ma vola, perché, avendo riposta tutta la sua speranza nel Signore, lascierà di esser debole qual era e diventerà forte colla fortezza di Dio che vien comunicata a tutti coloro che in Dio confidano. Qui confidunt in Domino mutabunt fortitudinem, assument pennas ut aquilae, current et non laborabunt, ambulabunt et non deficient (Is. XL, 31).3 L'aquila volando in alto più si avvicina al sole; e così l'anima, confortata dalla confidenza, si stacca dalla terra e più si unisce a Dio coll'amore.

Or siccome la speranza giova ad aumentar l'amore verso Dio, così l'amore aumenta la speranza; poiché la carità ci rende figli di Dio adottivi. Nell'ordine naturale noi siamo fatture delle


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sue mani, ma nell'ordine sovrannaturale, per li meriti di Gesù Cristo, noi siam fatti figliuoli di Dio e partecipi della natura divina, come scrive S. Pietro: Ut... efficiamini divinae consortes naturae (II Pet. I, 4). E se la carità ci rende figliuoli di Dio, per conseguenza ci rende ancora eredi del paradiso, come parla S. Paolo: Si autem filii, et heredes (Rom. VIII, 17). Or a' figliuoli tocca l'abitare in casa del padre, agli eredi tocca l'eredità, e perciò la carità fa crescere la speranza del paradiso; onde l'anime amanti non lasciano di continuamente esclamare a Dio: Adveniat, adveniat regnum tuum.

In oltre Dio ama chi l'ama: Ego diligentes me diligo (Prov. VIII, 17); e colma di grazie chi con amore lo cerca: Bonus est Dominus... animae quaerenti illum (Theren. III, 25). Onde per conseguenza chi più ama Dio, più spera nella sua bontà. E da tal confidenza nasce ne' santi quella inalterabile tranquillità che gli fa stare sempre lieti ed in pace anche in mezzo alle avversità; perché, amando essi Gesù Cristo e sapendo quanto egli è liberale de' suoi doni con chi l'ama, in lui solo confidano e trovano riposo. Questa è la ragione per cui la sagra sposa abbondava di delizie, perché, non amando ella altri che il suo diletto, solo a lui si appoggiava; e sapendo quanto egli è grato con chi l'ama, stava tutta contenta: onde di lei fu scritto: Quae est ista quae ascendit de deserto deliciis affluens, innixa super dilectum suum? (Cant. VIII, 5). Troppo è vero quel che diceva il Savio: Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa (Sap. VII, 11): insieme colla carità viene all'anima ogni bene.

L'oggetto primario della speranza cristiana è Dio che dall'anime si gode nel regno beato. Ma non crediamo che la speranza di godere Dio nel paradiso sia di ostacolo alla carità; poiché la speranza del paradiso è inseparabilmente annessa alla carità, la quale nel paradiso si perfeziona e trova il suo pieno compimento. La carità è quel tesoro infinito, come dice il Savio, che ci rende amici di Dio: Infinitus enim thesaurus est hominibus quo qui usi sunt participes facti sunt amicitiae Dei (Sap. VII, 14). - Scrive S. Tommaso l'Angelico (2. 2. q. 65, a. 5) che l'amicizia ha per fondamento la comunicazione de' beni, perché non essendo altro l'amicizia che un amor reciproco tra gli amici, è necessario ch'essi reciprocamente si faccian del bene quanto a ciascuno conviene. Onde dice il santo:


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Si nulla esset communicatio, nulla esset amicitia.4 Che perciò disse Gesù Cristo a' suoi discepoli: Vos autem dixi amicos quia omnia quaecumque audivi a Patre meo nota feci vobis (Io. XV, 15). Perché gli avea fatti suoi amici, avea lor comunicati tutti i suoi segreti.

Dice S. Francesco di Sales: “Che se per impossibile vi fosse una bontà infinita, cioè un Dio, a cui non appartenessimo in alcun modo e con cui non potessimo avere alcuna unione e comunicazione, noi certamente la stimeremmo più di noi stessi; onde potremmo aver desideri di poterla amare, ma non l'ameremmo, perché l'amore riguarda l'unione; mentre la carità è un'amicizia, e l'amicizia ha per fondamento la comunicazione e per fine l'unione”.5 Per tanto insegna S. Tommaso che la carità non esclude il desiderio della mercede che Iddio ci prepara nel cielo, ma anzi ce la fa riguardare


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come principale oggetto del nostro amore, quale è Dio che da' beati si fa godere; poiché l'amicizia importa che l'amico goda scambievolmente dell'altro: Amicorum est, quod quaerant invicem perfrui; sed nihil aliud est merces nostra quam perfrui Deo videndo ipsum: ergo caritas non solum non excludit, sed etiam facit habere oculum ad mercedem (S. Thom. in III Sen. Dist. 29. q. 1. a. 4).6

E questa è quella scambievol comunicazione di doni della quale parlava la sposa de' Cantici: Dilectus meus mihi et ego illi (Cant. II, 16). L'anima in cielo si dà tutta a Dio, e Dio si dà tutto all'anima per quanto ella n'è capace, secondo la misura dei suoi meriti. Ma conoscendo l'anima il suo niente a rispetto dell'infinita amabilità di Dio, e per conseguenza vedendo che Iddio ha un merito infinitamente maggiore di essere amato che non è il merito suo di esser amata da Dio, desidera ella più il gusto di Dio che il suo godimento; e perciò più gioisce in darsi ella tutta a Dio per compiacerlo, che in darsi Dio tutto a lei; ed in tanto si compiace che Dio tutto a lei si dona, in quanto ciò l'infiamma a darsi tutta a Dio con amore più intenso. Gode già della gloria che Dio le comunica, ma ne gode per riferirla allo stesso Dio e così accrescergli gloria per quanto ella può. In cielo l'anima, in veder Dio, non può non amarlo con tutte le forze: all'incontro Iddio non può odiare chi l'ama; ma se per impossibile potesse Dio odiare un'anima che l'ama, e l'anima beata potesse vivere senza amare Dio, più presto ella si contenterebbe di patire tutte le pene dell'inferno, purché le fosse concesso di amare Dio quantunque Dio l'odiasse, che vivere senza amare Dio, ancorché potesse godere tutte le altre delizie del paradiso. Sì, perché l'anima, conoscendo che Dio merita d'essere amato infinitamente più di lei, desidera molto più di amare Dio che di essere amata da Dio.

Caritas omnia sperat. La speranza cristiana, come insegna S. Tommaso col Maestro delle sentenze, si definisce un'aspettazione certa della felicità eterna: Spes est expectatio certa beatitudinis.7 E la certezza nasce dall'infallibil promessa


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di Dio di dar la vita eterna a' servi fedeli. Or la carità, siccome toglie il peccato, così toglie insieme l'impedimento a conseguir la beatitudine; e perciò la carità quanto è più grande, ella rende più grande e ferma la nostra speranza; la quale all'incontro certamente non può esser di ostacolo alla purità dell'amore, perché l'amore, come dice S. Dionigi l'Areopagita, naturalmente tende all'unione dell'oggetto amato.8 Anzi, come dice S. Agostino, lo stesso amore è come un laccio d'oro che unisce insieme i cuori dell'amante e dell'amato: Amor est quasi iunctura quaedam duo copulans.9 E perché quest'unione non può farsi da lontano, perciò chi ama desidera sempre la presenza dell'amato. La sagra sposa stando lontana dal suo diletto languiva, e pregava le sue compagne che gli facessero intendere la sua pena, acciocch'egli venisse a consolarla colla sua presenza: Adiuro vos, filiae Ierusalem, si inveneritis dilectum meum, ut nuncietis ei quia amore langueo (Cant. V, 8). Un'anima che ama assai Gesù Cristo non può, vivendo in questa terra, non desiderare e sperare di presto andar al cielo ad unirsi col suo amato Signore.

Sicché il desiderare di andare a veder Dio nel cielo, non tanto per lo contento nostro che ivi proveremo in amare Dio, quanto per lo contento che daremo a Dio in amarlo, è puro e perfetto amore. Né il gaudio che si prova da' beati in cielo in amare Dio osta alla purità del loro amore; un tal gaudio è inseparabile dall'amore; ma i beati si compiacciono principalmente assai più dell'amore ch'essi portano a Dio, che


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del gaudio che provano in amarlo. - Dirà taluno: Ma il desiderar la mercede è amor di concupiscenza, non già d'amicizia. Ma bisogna distinguere le mercedi temporali promesse dagli uomini, dalla mercede del paradiso promessa da Dio a chi l'ama. Le mercedi che danno gli uomini son distinte dalle loro persone, poiché gli uomini, nel rimunerare gli altri, non danno già se stessi, ma solamente i loro beni; la principal mercede all'incontro che Dio dà a' beati è il dar loro se stesso: Ego... merces tua magna nimis (Gen. XV, 1); onde è lo stesso desiderar il paradiso che desiderar Dio, il quale è l'ultimo nostro fine.

Voglio qui proponere un dubbio che facilmente può venire in mente di un'anima che ama Dio e che cerca di uniformarsi in tutto a' suoi santi voleri. Se mai a costei fosse rivelata la sua dannazione eterna, è obbligata ella ad accettarla per uniformarsi alla volontà di Dio? No, insegna S. Tommaso: anzi dice che pecca se vi acconsente, perché acconsentirebbe a vivere in uno stato che va unito col peccato ed è contrario al suo ultimo fine datogli da Dio, il quale non crea l'anime per l'inferno, ove l'odiano, ma per lo paradiso ove l'amano: e perciò egli non vuole la morte neppure del peccatore, ma vuol che tutti si convertano e si salvino. Dice il S. Dottore che il Signore non vuole alcuno dannato se non per lo peccato; e per tanto se uno acconsentisse alla sua dannazione, non già si uniformerebbe alla volontà di Dio, ma alla volontà del peccato. Unde velle suam damnationem absolute non esset conformare suam voluntatem voluntati divinae, sed voluntati peccati (S. Thom., De verit. q. 3. a. 8). - Ma se Dio, prevedendo già il peccato di alcuno, avesse fatto il decreto della sua dannazione, ed un tal decreto fosse a lui rivelato, è tenuto egli ad acconsentirvi? Neppure, dice l'Angelico nel luogo citato; poiché dovrebbe intender quella rivelazione non come decreto irrevocabile, ma fatto per modum comminationis, come minaccia se egli persiste nel peccato.10


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Ma ognuno procuri di scacciar dalla mente pensieri così funesti che non servono ad altro che a raffreddare la confidenza e l'amore. Amiamo Gesù Cristo quanto possiamo quaggiù, sospiriamo ogni momento di andarlo a vedere in paradiso per amarlo ivi perfettamente; e questo sia il principale oggetto di tutte le nostre speranze, l'andare ivi ad amarlo con tutte le nostre forze. Abbiamo sì bene anche in questa vita il precetto di amare Dio con tutte le forze: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo, et ex tota anima tua, et ex omnibus viribus tuis etc. (Luc. X, 27), ma dice l'Angelico che questo precetto non può dagli uomini perfettamente adempirsi in questa terra.11 Solamente Gesù Cristo che fu uomo e Dio, e Maria SS. che fu piena di grazia e libera dalla colpa originale, perfettamente l'adempirono; ma noi, miseri figli di Adamo infetti dalla colpa, non possiamo amar Dio senza qualche imperfezione, e solo in cielo, allorché vedremo Dio da faccia a faccia, l'ameremo, anzi saremo necessitati ad amarlo con tutte le forze.

Ecco dunque lo scopo ove han da tendere i nostri desideri, tutti i sospiri, tutti i pensieri e tutte le nostre speranze, di andare a goder Dio in paradiso per amarlo con tutte le forze e godere del godimento di Dio. Godono sì i beati della loro felicità in quel regno di delizie, ma il lor godimento principale, che assorbisce tutti gli altri diletti, sarà quello di


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conoscere la felicità infinita che gode il loro amato Signore, mentre essi amano Dio immensamente più che se stessi. Ogni beato, per l'amore che porta a Dio, si contenterebbe di perdere tutti i suoi godimenti e di patire ogni pena, purché non mancasse a Dio, se mai potesse mancare, una minima particella della felicità che gode. Onde, vedendo che Dio è infinitamente felice né mai la sua felicità può mancare in eterno, questo è tutto il suo paradiso. Così s'intende quel che dice il Signore ad ogni anima nel possesso che le dà della gloria: Intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV, 21). Non già il gaudio entra nel beato, ma il beato entra nel gaudio di Dio, mentre il gaudio di Dio è l'oggetto del gaudio del beato. Sicché il bene di Dio sarà il bene del beato, la ricchezza di Dio sarà la ricchezza del beato, e la felicità di Dio sarà la felicità del beato.

Subito che un'anima entra in cielo e vede alla scoperta col lume della gloria l'infinita bellezza di Dio, si troverà tutta presa e consumata dall'amore. Allora avviene che il beato resta felicemente perduto e sommerso in quel mare infinito della divina bontà. Allora si dimentica di se stesso, ed inebriato dell'amore di Dio, non pensa ad altro che ad amare il suo Dio: Inebriabuntur ab ubertate domus tuae (Ps. XXXV, 9). Gli ubbriachi non pensano più a sé, e così l'anima beata non pensa che ad amare ed a compiacere l'amato: desidera di possederlo tutto, e già tutto lo possiede senza timore di poterlo più perdere; desidera di darsegli tutta per amore ogni momento, e già l'ottiene poiché in ogni momento si dà tutta a Dio senza riserba: e Dio con amore l'abbraccia, e così abbracciata la tiene e la terrà per tutta l'eternità.

Sicché in cielo l'anima sta unita tutta a Dio e l'ama con tutte le sue forze, con un amor consumato e compito, il quale sebbene è finito, perché la creatura non è capace di amore infinito, nondimeno è tale che la rende appieno contenta e sazia, sì ch'ella niente più desidera. Iddio all'incontro si comunica e si unisce tutto all'anima, riempiendola di se stesso, per quanto ella n'è capace secondo i suoi meriti; e si unisce a lei, non già per mezzo de' soli suoi doni, lumi ed attratti amorosi, come fa con noi in questa vita, ma colla sua medesima essenza. Siccome il fuoco penetra un ferro e par che tutto in sé lo converta, così Dio penetra l'anima e di sé la riempie; ond'ella benché non perda il suo essere, non però


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viene ad essere talmente ripiena ed assorbita in quel mare immenso della sostanza divina, che resta come annientata e più non fosse. Questa era la sorte felice che implorava l'Apostolo a' suoi discepoli: Ut impleamini in omnem plenitudinem Dei (Eph. III, 19).

E questo è l'ultimo fine che il Signore per sua bontà ci ha dato a conseguire nell'altra vita. Onde finché l'anima non giunge ad unirsi con Dio in cielo ove si fa l'unione perfetta, non può avere qui in terra il suo pieno riposo. È vero che gli amanti di Gesù Cristo nell'uniformarsi alla divina volontà trovano la loro pace; ma non possono trovare in questa vita il lor pieno riposo, perché questo si ottiene coll'ottenere l'ultimo fine, qual è di vedere Dio da faccia a faccia ed esser consumati dall'amor divino; e fintanto che l'anima non conseguisce tal fine, sta inquieta e geme, e sospirando dice: Ecce in pace amaritudo mea amarissima (Is. XXXVIII, 17).

Sì, mio Dio, io vivo in pace in questa valle di lagrime, perché questa è la vostra volontà, ma non posso non provare un'inesplicabile amarezza vedendomi da voi lontano e non ancor perfettamente unito con voi che siete il mio centro, il mio tutto e 'l pieno mio riposo.

E perciò i santi benché ardessero d'amore verso Dio in questa terra pure non faceano che sospirare il paradiso. Davide esclamava: Heu mihi, quia incolatus meus prolongatus est! (Ps. CXIX, 5). Satiabor cum apparuerit gloria tua (Ps. XVI, 15). S. Paolo dicea di sé: Desiderium habens... esse cum Christo (Phil. I, 23). S. Francesco d'Assisi dicea: “Tanto è grande il ben che aspetto, che ogni pena mi è diletto”.12 Questi erano tutti atti di carità perfetta. - Insegna l'Angelico


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che il grado più alto di carità a cui può ascendere un'anima in questa vita è il desiderare intensamente di andare ad unirsi con Dio ed a goderlo in cielo: Tertium autem studium est, ut homo ad hoc principaliter intendat, ut Deo inhaereat et eo fruatur, et hoc pertinet ad perfectos qui cupiunt dissolvi et esse cum Christo (S. Thom. 2. 2. q. 24. a. 9).13 Ma questo godere di Dio in cielo, come abbiam detto, non tanto consiste nel ricevere l'anima il godimento che ivi Iddio le dona, quanto nel godere del godimento di Dio, amato dall'anima assai più che se stessa.

La maggior pena delle anime sante del purgatorio è il desiderio che hanno di possedere Dio che non ancora possedono. E questa pena specialmente affliggerà quelle anime che poco in vita han desiderato il paradiso. Anzi dice il cardinal Bellarmino (Lib. II. De Purgat. c. 7) che nel purgatorio vi è un certo carcere detto carcer honoratus, ove alcune anime non patiscono alcuna pena di senso, ma solamente la privazione della vista di Dio.14 Di ciò ne riferiscono più esempi S. Gregorio, il Ven. Beda, S. Vincenzo Ferrerio e S. Brigida.15


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E questa pena si dà non per li peccati commessi, ma per la freddezza nel desiderare il paradiso. Molte anime aspirano alla perfezione, e poi sono troppo indifferenti all'andare a veder Dio o al seguire a vivere in questa terra. Ma la vita eterna è un bene troppo grande che Gesù Cristo ci ha meritato colla sua morte, ond'egli castiga poi quelle anime che poco l'han desiderato nella lor vita.




1 «Inquantum... spes respicit bonum speratum, spes ex amore causatur; non enim est spes, nisi de bono desiderato et amato. Inquantum vero spes respicit illum per quem fit aliquid nobis possibile, sic amor causatur ex spe... Ex hoc enim quod per aliquem speramus nobis posse provenire bona, movemur in ipsum sicut in bonum nostrum et sic incipimus ipsum amare.» S. THOMAS Aquinas, Sum. Theol., I-II, qu. 40, art. 7, c.



2 «Il dit un jour, au commencement de l' établissement de sa Congrégation, à ceux de sa communauté...: «Ayons confiance en Dieu, Messieurs et mes Fréres... mais ayons la entiére et parfaite, et tenons pour assuré qu' ayant commencé son oeuvre en nous, il l' achévera... Mettons toute notre confiance en lui: car si nous la mettons aux hommes, ou bien si nous nous appuyons sur quelque avantage de la nature ou de la fortune, alors Dieu se retirera de nous. Mais, dira quelqu' un, il faut se faire des amis, et pour soi et pour la Compagnie. O mes Fréres, gardons-nous bien d' écouter cette pensée, car nous y serions trompés. Cherchons uniquement Dieu, et il nous pourvoira d' amis et de toute autre chose, en sorte que rien ne nous manquera. Voulez-vous savoir pourquoi nous ne réussissons pas dans quelque emploi? C' est parce que nous nous appuyons sur mous-mêmes. Ce prédicateur, ce supérieur, ce confesseur, se fie trop à sa prudence, à sa science et à son propre esprit. Que fait Dieu? Il se retire de lui, il le laisse là: et quoiqu' il travaille, tout ce qu' il fait ne produit aucun fruit, afin qu' il reconnaisse son inutilité, et qu' il apprenne par sa propre expérience que, quelque talent qu' il ait, il ne peut rien sans Dieu.» ABELLY, Vie, liv. 3, ch. 3, section 1. - «O mon Dieu! Messieurs, ô mon Dieu! mes Fréres, demandons à sa divine bonté une grande confiance pour l' événement de tout ce qui nous regarde; pourvu que nous lui soyons fidèles, rien ne nous manquera; il vivra lui-même en nous, il nous conduira, défendra et aimera; ce que nous dirons et ce que nous ferons, tout lui sera agréable» Ibid., Section II. - «Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei caeli commorabitur: celui qui loge à l' enseigne de la confiance en Dieu sera toujours favorisé d' une spéciale protection de sa part, et en cet état il doit tenir pour certain qu' il ne lui arrivera aucun mal, parce que toutes choses coopèrent à son bien, et qu' aucun bien ne lui manquera, d' autant que Dieu lui-même se donnant à lui, il porte avec soi tous les biens nécessaires, tant pour le corps que pour l' âme.» Ibid., Section III.



3 Qui autem sperant in Domino, mutabunt fortitudinem, assument pennas sicut aquilae, current et non laborabunt, ambulabunt et non deficient. Is. XL, 31.



4 «Caritas non solum significat amorem Dei, sed etiam amicitiam quamdam ad ipsum, quae quidem super amorem reddit mutuam redamationem cum quadam communicatione mutua... Et quod hoc ad caritatem pertineat, patet per id quod dicitur I Io. IV, 16: Qui manet in caritate, in Deo manet et Deus in eo; et I Cor. I, 9: Fidelis Deus per quem vocati estis in societatem Filii eius. Haec autem societas hominis ad Deum, quae est quaedam familiaris conversatio cum ipso, inchoatur quidem hic in praesenti per gratiam, perficietur autem in futuro per gloriam, quorum utrumque fide et spe tenetur. Unde sicut aliquis non posset cum aliquo amicitiam habere, si discrederet vel desperaret se posse habere aliquam societatem vel familiarem conversationem cum ipso: ita aliquis non potest habere amicitiam ad Deum, quae est caritas, nisi fidem habeat per quam credat huiusmodi societatem et conversationem hominis cum Deo, et speret se ad hanc societtatem pertinere; et sic caritas sine fide et spe nullo modo esse potest.» S. THOMAS, Sum. Theol., I-II, qu. 65, a. 5, c. -



5 «Mais si, par imagination de chose impossible, il y avait une infinie bonté à laquelle nous n' eussions nulle sorte d' appartenance et avec laquelle nous ne pussions avoir aucune union ni communication, nous l' estimerions certes plus que nous-mêmes; car nous connaîtrions qu' étant infinie, elle serait plus estimable et aimable que nous, et par conséquent nous pourrions faire des simples souhaits de la pouvoir aimer; mais, à proprement parler, nous ne l' aimerions pas, puisque l' amour regarde l' union; et beaucoup moins pourrions-nous avoir la charité envers elle, puisque la charité est une amitié et l' amitié ne peut être que réciproque, ayant pour fondement la communication et pour fin l' union. Ce que je dis ainsi pour certains esprits chimeriques et vains qui, sur des imaginations impertinentes, roulent bien souvent des discours mélancoliques qui les affligent grandement. Mais quant à nous, Théotime, mon cher amì, nous voyons bien que nous ne pouvons pas être vrais hommes sans avoir inclination d' aimer Dieu plus que nous-mêmes, ni vrais chrétiens sans pratiquer cette inclination: aimens plus que nous-mêmes Celui qui nous est plus que tout et plus que nous-mêmes. Amen, il est vrai. » S. FRANÇOIS DE SALES, Traité de l' amour de Dieu, liv. 10, ch. 10. Œuvres, V, Annecy, 1894.



6 S. THOMAS, in III Sent., dist. 29, qu. 1, art. 4, Sed contra. - Vedi Appendice, 99.



7 «De spe, quid sit. - Est autem spes virtus qua spiritualia et aeterna bona sperantur, id est, cum fiducia exspectantur. Est enim spes, certa exspectatio futurae beatitudinis veniens ex Dei gratia et ex praecedentibus meritis: vel ipsam spem quam natura praeit caritas, vel speratam rem, id est beatitudinem aeternam. Sine meritis enim aliquid sperare, non spes sed praesumptio dici potest.» III Sententiarum, distinctio 26, A.



8 «Estque hoc - sive caritas sive dilectio dicatur - virtutis cuiusdam unitivae ac collectivae excellentesque contemperantis.» DIONYSIUS AREOPAGITA, De divinis nominibus, cap. 4, § 12. MG 3-710. - «Amorem, sive divinum, sive angelicum, sive spiritalem, sive animalem, sive naturalem dixerimus, vim quamdam sive potestatem copulantem et commiscentem intelligamus: superiora quidem moventem ad providentiam inferiorum; ea vero quae sunt eiusdem ordinis, ad mutuam communicationem; et novissime ea quae sunt inferiora, ad convertendum se ad praestantiora et praeposita.» Ibid. , § 15, col. 714.



9 «Quid est autem dilectio vel caritas... nisi amor boni?... Quid est ergo amor, nisi quaedam vita (vitta?) duo aliqua copulans, vel copulare appetens, amantem scilicet et quod ametur? S. AUGUSTINUS, De Trinitate, lib. 8, cap. 10, n. 14. ML 42-960.



10 Quamvis de potentia absoluta Deus possit revelare suam damnationem alicui, non tamen hoc potest fieri de potentia ordinata: quia talis revelatio cogeret eum desperare. Et si alicui talis revelatio fieret, deberet intelligi non secundum modum prophetiae praedestinationis vel praescientiae, sed per modum prophetiae comminationis, quae intelligitur supposita conditione meritorum. Sed dato quod esset intelligenda secundum praescientiae prophetiam, adhuc non teneretur ille, cui talis revelatio fieret, velle suam damnationem absolute, sed secundum ordinem iustitiae, quo Deus vult persistentes in peccato damnare. Non enim vult Deus ex parte sua aliquem damnare: sed sedundum id quod ex nobis est, ut ex supradictis patet. Unde velle suam damnationem absolute, non esset conformare voluntatem suam divinae, sed voluntati peccati.» S. THOMAS, Quaestiones disputatae de veritate. Qu. 23: de voluntate Dei, art. 8, ad 2.



11 «Praeceptum aliquod dupliciter potest impleri. Uno modo perfecte; alio modo imperfecte. Perfecte quidem impletur praeceptum, quando pervenitur ad finem quem intendit praecipiens; impletur autem, sed imperfecte, quando, etsi non pertingat ad finem praecipientis, non tamen receditur ab ordine ad finem. Sicut si dux exercitus praecipiat militibus ut pugnent, ille perfecte implet praeceptum qui pugnando hostem vincit, quod dux intendit. Ille autem implet, sed imperfecte, cuius pugna ad victoriam non pertingit, non tamen contra disciplinam militarem agit. Intendit autem Deus, per hoc praeceptum, ut homo sibi totaliter uniatur; quod fiet in patria, quando Deus erit omnia in omnibus, ut dicitur I Cor. XV, 28. Et ideo plene et perfecte in patria implebitur hoc praeceptum; in via autem impletur, sed imperfecte. Et tamen in via tanto unus alio perfectius implet, quanto magis accedit per quamdam similitudinem ad patriae perfectionem.» S. THOMAS, Sum. Theol., II-II, qu. 44, art. 6, c.



12 «Giunge santo Francesco a questo castello (di Montefeltro, nel quale castello si faceva allora un grande convito e corteo...: ivi erano raunati molti gentili uomini di diversi paesi), ed entra e vassene sulla piazza, dove era raunata tutta la moltitudine di questi gentili uomini, ed in fervore di spirito montò in su un muricciuolo e cominciò a predicare, proponendo per tema della sua predica queste parole in volgare: Tanto è il bene ch' io m' aspetto, ch' ogni pena m' è diletto; e sopra questo tema per dittamento dello Spirito Santo, predicò si divotamente e sì profondamente... che ogni gente stava con gli occhi e colla mente sospesa verso lui ed attendevano, come se parlasse uno agnolo di Dio.» Fioretti di S. Francesco. Delle sacrosante Istimate di Santo Francesco, Consideraione 1a. (In questa occasione, correndo l' anno 1224, Messer Orlando da Chiusi di Casentino offì a S. Francesco il solitario monte della Vernia, ove poco dopo il Santo ricevé le sacre Stimmate.)



13 «Spirituale augmentum caritatis considerari potest, quantum ad aliquid, simile corporali hominis augmento. Quod quidem quamvis in plurimas partes distingui possit, habet tamen aliquas determinatas distinctiones secundum determinatas actiones vel studia, ad quae homo perducitur per augmentum. Sicut infantilis aetas dicitur antequam habeat usum rationis; postea autem distinguitur alius status hominis, quando iam incipit loqui et ratione uti; iterum tertius status eius est pubertas, cum iam incipit posse generare, et sic deinde quousque perveniatur ad perfectum: ita etiam et diversi gradus caritatis distinguuntur secundum diversa studia ad quae homo perducitur per caritatis augmentum. Nam primo quidem incumbit homini studium principale ad recendum a pecato et resistendum concupiscentiis eius, quae in contrarium caritatis movent. Et hoc pertinet ad incipientes, in quibus caritas est nutrienda vel fovenda, ne corrumpatur. Secundum autem studium succedit, ut homo principaliter intendat ad hoc, quod in bona proficiat. Et hoc studium pertinet ad proficientes, qui ad hoc principaliter intendunt ut in eis  caritas per augmentum roboretur. Tertium autem studium est, ut homo ad hoc principaliter intendat ut Deo inhaereat et eo fruatur: et hoc pertinet ad perfectos, qui cupiunt dissolvi et esse cum Christo. Sicut etiam videmus in motu corporali, quod primum est recessus a termino, secundum autem est appropinquatio ad alium terminum, tertium est quies in termino.» S. THOMAS Aquinas, Sum. Theol., II-II, qu. 24. art. 9. c.



14 S. Robertus Bellarminus, De Purgatorio (scilicet De Controversiis, tomi 2di Tertia Controversia Generalis, De Ecclesia quae est in Purgatorio,) lib. 2: De circumstantiis Purgatorii; cap. 7: Sitne post hanc vitam aliquis locus pro an mabus iustis, praeter caelum et purgatorium.  Vedi Appendice,  100.



15 Vedi Appendice,  100.






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