- CAPO XII - Della carità del prossimo.
- § 2 - Della carità che dee praticarsi nelle parole.
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§ 2
- Della carità che dee praticarsi nelle parole.
1.
In quanto alla carità che dobbiamo usare verso del prossimo nel parlare,
primieramente e sovra tutto dovete astenervi da ogni mormorazione. Dice lo
Spirito Santo: Susurro coinquinabit
animam suam, et in omnibus odietur (Eccli. XXI, 31): Il mormoratore
imbratterà l'anima sua, e sarà odiato da Dio e dagli uomini; i quali benché
alle volte l'applaudiscano e lo stimolino a parlare del prossimo per
divertirsi, nulladimeno essi stessi poi lo fuggono e se ne guardano, pensando
giustamente che com'egli parla degli altri, così cogli altri parlerà e
mormorerà di loro. Dice S. Girolamo che taluni, benché abbiano lasciati gli
altri vizi, nondimeno par che non possano astenersi dal seguire a mormorare: Qui ab aliis vitiis recesserunt, in illud
tamen incidunt.1 E volesse Dio che anche ne' monasteri non si
trovassero alcune religiose, che tengono una lingua, che non sa lambire senza
cavar sangue: voglio dire, non san discorrere senza dir male del prossimo:
d'ogni persona di cui parlano, trovano che dire. Queste lingue taglienti
dovrebbero affatto discacciarsi da' chiostri, o almeno tenersi sempre chiuse in
un carcere, poich'elle son causa di disturbare il raccoglimento, il silenzio,
la divozione
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e la pace di tutta la comunità; in somma sono la ruina
de' monasteri. E Dio faccia che a queste tali non avvenga la morte che avvenne
ad un certo sacerdote mormoratore, conosciuto da Tommaso Cantipratense, il
quale narra (Apum etc. cap. 37) che quel misero morì smaniando da furioso,
lacerandosi la lingua co' denti.2 Un altro mormoratore in porsi a dir
male di San Malachia, nello stesso punto se gli gonfiò la lingua e se gli
riempì di vermi, e così fra sette giorni infelicemente se ne morì.3
2.
All'incontro oh come è amata dagli uomini e da Dio una religiosa che dice bene
di tutti! Dicea S. Maria Maddalena de' Pazzi che se mai avesse conosciuta una
persona, la quale in sua vita non avesse mai detto male del prossimo, ella
l'avrebbe canonizzata per santa.4 Procurate per tanto voi di astenervi
da ogni parola che sa di mormorazione circa d'ognuno, ma specialmente delle vostre
sorelle, e più specialmente de' vostri superiori, come prelato, badessa,
confessore; perché il dir male de' superiori, oltre il danno della fama, di più
fa perdere all'altre l'amore all'ubbidienza: almeno fa perdere la soggezione di
giudizio: e se mai le sorelle per opera vostra giungono ad apprendere che i
superiori operano senza ragione, difficilmente poi ubbidiranno loro come si
dee.
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La
mormorazione poi si commette non solo quando si cerca di denigrare la fama del
prossimo, con imporgli qualche difetto non vero o con amplificarlo più del vero
o con palesarlo quando è occulto, ma ancora quando s'interpretano in male le
sue azioni virtuose, o pure si dicono fatte con mala intenzione. È mormorazione
ancora il negare le buone opere che fa taluna, o negare la giusta lode che le
vien data. Alcune lingue mormoratrici, per rendere la mormorazione più
credibile, che fanno? cominciano a lodare una persona, ma poi terminano colla
maldicenza: La tale è di molto talento, ma è superba: è liberale, ma è vendicativa.
3.
Procurate voi di dire sempre bene di tutti. Parlate degli altri come vorreste
che gli altri parlassero di voi. E quando la persona è assente, praticate la
bella regola che dava S. Maria Maddalena de' Pazzi: Non dee dirsi in assenza
cosa che non si direbbe in presenza.5 E quando accade sentire una
sorella, che dice male di un'altra, guardatevi d'incitarla a dire o di
dimostrarle che avete genio di sentire, perché allora vi fareste rea dello
stesso peccato. O riprendete allora chi mormora o spezzate il discorso o
partitevi o almeno non le date udienza. Sepi
aures tuas spinis, dice lo Spirito Santo, linguam nequam noli audire
(Eccli. XXVIII, 28): Quando odi alcuno che mormora, metti alle tue orecchie una
siepe di spine, acciocché non vi entri la mormorazione. Bisogna dunque allora
dimostrare, almeno col silenzio, col far viso mesto o col calare gli occhi a
terra, che vi dispiace un tal discorso. Portatevi sempre in modo tale che niuno
per l'avvenire ardisca d'intaccar la fama altrui avanti di voi. E quando
potete, la carità vuol che prendiate le parti della persona ch'è mormorata. Sicut vitta coccinea labia tua (Cant.
IV, 3). Sposa mia, dice il Signore, voglio che le tue labbra sieno come una
benda di scarlatto, cioè, secondo spiega Teodoreto, sien le tue parole di
carità che covrino il difetto quanto si può;6 almeno scusino
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l'intenzione, se non può scusarsi l'azione: Excusa intentionem, si opus non potes (S. Bern., Serm. 10 in
Cant.).7 L'abbate Conestabile, come narra il Surio (17 febr.), era
chiamato Operimentum fratrum, il
coprimento de' fratelli, poiché questo buon monaco, quando sentiva parlare de'
difetti altrui, cercava sempre di coprirli.8 Lo stesso diceano le
monache del monastero
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di S. Teresa, dicendo che dove stava la santa,
teneano sicure le spalle, perché sapeano ch'essa le difendeva.9
4.
Di più guardatevi ancora dal riferire ad alcuna sorella quel che un'altra di
male ha detto di lei, mentre con ciò alle volte ne nascono disturbi e rancori
tali, che durano per mesi ed anni. Oh che conto han da rendere a Dio le lingue
rapportatrici ne' monasteri! Chi semina discordie, diventa l'odio di Dio. Sei
cose, dice il Savio, odia il Signore: Sex
sunt quae odit Dominus; ed in ultimo luogo vi mette: Eum qui seminat inter
fratres discordias (Prov. VI, 16 et 19). Se una monaca parla per passione, è
più compatibile; ma quella che senza passione semina discordie e disturba la
pace comune, come mai potrà soffrirla il Signore? Se voi sentite qualche cosa
contro di alcuna sorella, fate ciò che dice lo Spirito Santo: Audisti verbum adversus proximum tuum?
commoriatur in te (Eccli. XIX, 10). Quella parola che avete intesa del
vostro prossimo, non solo stia chiusa in voi, ma fatela morire. Chi sta chiuso
in un luogo, può di la scappare e farsi vedere; ma chi è morto, non può uscir
più dalla sepoltura: viene a dire che stiate attenta a non dar minimo segno di
ciò che avete udito; perché, se mai ne deste qualche indizio con alcuna parola
mozza o con qualche moto di testa, possono le altre combinare le circostanze, e
giudicare o almeno fortemente sospettare di quel che voi avete inteso. Alcune
religiose, sentendo qualche cosa segreta, par che patiscano dolori di morte, se
non la svelano in qualche modo, come se quel segreto fosse una spina che le
punge il cuore, sin tanto che non la cavano fuori. Quando voi venite a saper
qualche difetto d'alcuna, potete dirlo solamente a' superiori, e solamente
allora ch'è necessario farcelo sapere, affin di riparare il danno della
comunità o della stessa sorella che manca al suo obbligo.
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5.
Di più, quando state in conversazione, guardatevi di pungere alcuna sorella,
ancorché lo facciate per burla. Burle che dispiacciono al prossimo, sono
contrarie alla carità ed a quel che ha detto Gesù Cristo: Omnia... quaecumque vultis ut faciant vobis homines, et vos facite
illis (Matth. VII, 12). Piacerebbe a voi l'esser derisa e posta in canzona
avanti l'altre, come voi ponete quella vostra sorella? e perciò lasciate di
farlo. Inoltre procurate quanto potete di fuggir le contese. Alle volte per
bagattelle che niente importano, si afferrano certi contrasti, da' quali poi si
passa a' disturbi e ad ingiurie. Vi sono alcune persone che hanno lo spirito di
contraddizione, poiché senza alcun bisogno o utile, ma solo per contraddire si
mettono a fare certe questioni, come suol dirsi, di lana caprina, e così
rompono la carità: De ea re quae te non
molestat, ne certeris, dice il Savio (Eccli. XI, 9). Dice colei: Ma io ho
ragione; non posso sentire le cose storte. Ma udite quel che risponde il
cardinal Bellarmino: Vale più un'oncia di
carità che cento carri di ragione.10 Quando si discorre, e
specialmente di cose che poco importano, dite il vostro sentimento, se volete
dirlo per discorrere, e poi quietatevi, senza ostinarvi a difenderlo; e meglio
sarebbe che allora cedeste e vi uniformaste a quel che dicono l'altre. Dicea il
B. Egidio che in tali controversie, quando cedi, allora vinci, perché resti
superiore in virtù e così conservi ancora la pace, ch'è un bene assai maggiore
del vanto di averti fatto far ragione.11 E perciò S. Efrem dicea
ch'egli, affin di mantener la pace, avea sempre ceduto nelle contese.12
Quindi il B. Giuseppe Calasanzio
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dava l'avvertimento: Chi vuol pace,
non contraddica a niuno.13
6.
Di più, se amate la carità, procurate d'essere affabile e mansueta con ogni
genere di persone. La mansuetudine si chiama la virtù dell'Agnello, cioè la
virtù diletta di Gesù Cristo, il quale perciò voll'esser chiamato agnello. Nel
parlare e nel trattare, usate dolcezza con tutte, non solo colla superiora e
colle officiali, ma dico con tutte, e specialmente con quelle sorelle, che per
lo passato vi hanno offesa o che al presente vi mirano di mal occhio o che son
del partito contrario o pure che vi son naturalmente antipatiche, perché son
rozze di tratto o sconoscenti del bene che avete lor fatto. Caritas patiens est:14 La carità
sopporta tutto: ond'è che non avrà mai vera carità chi non vuol sopportare i
difetti del prossimo. Su questa terra non v'è persona, per virtuosa che sia,
che non abbia i suoi difetti. Quanti ne avete voi, e volete che l'altre vi
usino carità e vi compatiscano? e così bisogna che voi ancora abbiate carità
coll'altre e compatiate le loro imperfezioni, secondo esorta l'Apostolo: Alter alterius onera portate (Gal. VI,
2). Vedete come le madri soffrono con pazienza le insolenze de' figli; e
perché? perché l'amano. Qui per tanto si vede se voi amate le vostre sorelle
con amor di carità, il quale, essendo soprannaturale, dee esser più forte del
naturale. Con qual carità il nostro Salvatore sopportò le rozzezze e le
imperfezioni de' suoi discepoli, in tutto il tempo che con essi convisse! Con
quanta carità sopportò Giuda, sino a lavargli i piedi per intenerirlo! Ma a che
parliamo d'altri? parliamo di voi: con qual pazienza il Signore sinora ha
sopportata voi? e voi non volete poi sopportar le vostre sorelle? Il medico
odia l'infermità, ma ama l'infermo; e così voi, se avete carità, dovete odiare
il difetto, ma nello stesso tempo dovete amare chi lo commette. - Ma che ho da fare? dice taluna. Io con
quella sorella ci ho un'antipatia naturale, che non mi fido di trattarvi.
Ma io vi rispondo: Abbiate voi più spirito e più carità, e vi passerà tutta
l'antipatia.
7.
Veniamo alla pratica. Procurate per prima nelle occasioni di raffrenare l'ira
quanto potete. Guardatevi poi dal dir
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parole dispiacenti, e più
dall'usare modi altieri ed aspri, mentre alle volte più dispiacciono i modi
rozzi che le stesse parole ingiuriose: e quando ricevete qualche parola di
disprezzo dalle sorelle, eh via soffritela: soffritela per amore di Gesù
Cristo, il quale ha sofferti altri disprezzi assai più grandi per amor vostro.
Dio mio, e che miseria è il vedere certe religiose che ogni giorno vanno
all'orazione, che spesso si comunicano, e poi sono così sensibili e delicate ad
ogni parola di poco rispetto e ad ogni atto di poca attenzione che viene lor
fatto! Suor Maria dell'Ascensione, in ricevere qualche affronto, subito se ne
andava al SS. Sagramento, e gli dicea: Sposo mio, vi porto questo picciol
presente, vi prego ad accettarlo, e a dare il perdono a chi m'ha offesa.15
Perché non fate così ancor voi? Bisogna soffrir tutto, per non rompere la
carità. Dicea il P. Alvarez che la virtù è debole, finché non si prova col
ricevere maltrattamenti dal prossimo; in queste occasioni si conosce se
un'anima ha carità.16
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8.
Quando taluna vi parla con ira, o anche v'ingiuria e vi rimprovera di qualche
cosa, rispondetele voi con dolcezza, e subito la vedrete placata. Responsio mollis frangit iram (Prov.
XV, 1): Una risposta dolce seda lo sdegno. Dice S. Gio. Grisostomo: Igne non potest ignis exstingui, nec furor
furore (Hom. 58, in Gen.):17 Siccome il fuoco non può smorzarsi col
fuoco, così lo sdegno non può placarsi collo sdegno. Quella vi parla con ira,
voi rispondete con ira: come volete quietarla? maggiormente accenderete in
colei lo sdegno, e offenderete ancor voi la carità. Rispondete con dolcezza, e
vedrete spento il fuoco. Narra a questo proposito Sofronio che, viaggiando due
monaci ed avendo errata la via, entrarono a caso in un seminato; il contadino
che guardava quel territorio, in vederli ivi entrati, li carico d'ingiurie;
essi al principio tacquero, ma vedendo che il contadino più s'infuriava e
s'accendeva ad ingiuriarli, gli dissero:
Fratello, abbiamo fatto male; per amore del Signore perdonaci. Allora colui
a questa risposta così umile si compunse, ed egli poi si pose a cercar loro
perdono delle ingiurie dette; e tanto si compunse, che lasciò il mondo e si fe'
monaco con essi.18
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9.
Alle volte forse vi sembrerà ragionevole, anzi necessario il ribatter
l'insolenza di qualche sorella, con risponderle aspramente, specialmente se voi
vi trovaste superiora e quella vi perdesse il rispetto. Ma avvertite l'inganno:
sappiate che allora non è la ragione, ma la passione più presto che vi fa
parlare. Non nego che speculativamente parlando sia lecito alle volte
l'adirarsi, purché si faccia senza difetto, come disse Davide: Irascimini et nolite peccare (Psal. IV,
5). Ma qui sta la difficoltà, a mettere ciò in pratica. Il lasciarvi in mano
dell'ira e come il porvi su d'un cavallo furioso che non ubbidisce al freno, e
non sapete dove vi porta. Onde saviamente scrisse S. Francesco di Sales nella
sua Filotea (P. III, c. 8) che i moti di sdegno, per qualunque giusta causa vi
sia, sempre debbono raffrenarsi: È meglio,
scrive il Santo, che si dica di te che
non ti adiri mai, che si dica che giustamente ti adiri.19 E S.
Agostino dice che quando si permette all'ira di entrar nell'anima,
difficilmente poi si discaccia; e perciò egli esortava che a principio se le
chiudesse affatto la porta.20 Un certo filosofo, chiamato Agrippino,
avendo perdute le robe, disse: Se
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ho perdute le robe, non voglio perder
la pace.21 Così dite voi, quando ricevete qualche disprezzo. Avete
già ricevuto l'affronto: volete perdervi appresso anche la pace con adirarvi?
Se vi adirate, sarà molto maggiore il danno che vi fate voi stessa con
disturbarvi, che 'l danno fatto alla vostra stima con quell'ingiuria. Disse il
medesimo S. Agostino che chi s'adira negli affronti, egli si fa il castigo di
se stesso.22 Il disturbarvi sempre porta danno, ancorché fosse perché
abbiate commesso qualche difetto; poiché, come dicea S. Luigi Gonzaga,
nell'acqua torbida, cioè in un'anima disturbata, sempre trova che pescare il
demonio.23
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10.
Vi ho detto che quando alcuna sorella vi dice qualche ingiuria o vi parla con
ira, voi dovete risponderle con dolcezza. Ma ora vi dico che quando in
quell'incontro vi sentite disturbata, allora è meglio tacere; perché allora la
passione vi farà vedere giusto e ragionevole tutto quel che dite; ma sedato che
sarà il disturbo, vedrete che quanto avrete detto, tutto è stato scomposto.
Dice S. Bernardo: Turbatus prae ira
oculus rectum non videt (L. II, de Consid. c. 11):24 L'occhio
offuscato dallo sdegno non vede più quel ch'è giusto o ingiusto. Figuratevi che
la passione è come un velo nero, che ci si mette avanti gli occhi, e non ci fa
più discernere il torto dal dritto.
11.
Quando poi accadesse che la sorella che vi ha offesa, ravveduta, venisse a
cercarvi perdono, guardatevi di riceverla con cera brusca o di rispondere con
parole mozze o di abbassar gli occhi a terra o di mettervi a guardar le stelle:
facendo così, molto offendereste la carità, e dareste ansa alla sorella
d'imperversarsi vie più nell'odio contro di voi; e di più dareste un grande
scandalo a tutto il monastero. No, allora dimostratele un affetto di cuore; e
s'ella mai per umiltà s'inginocchiasse avanti di voi, anche voi
inginocchiatevi; e quando comincia a cercarvi perdono, spezzatele le parole in
bocca, dicendo: O sorella mia, che serviva far questo? voi sapete quanto vi amo
e stimo; voi cercate perdono a me? io cerco perdono a voi di avervi disturbata
colla mia ignoranza e trascuraggine, non usandovi quell'attenzione che vi si
dovea; voi dunque compatitemi e perdonatemi.
12.
Quando poi avvenisse all'incontro che voi aveste offesa o disgustata alcuna
sorella, subito cercate tutt'i modi per placarla e per togliere dal suo cuore
ogni rancore verso di voi. Dice S. Bernardo: Sola humilitas laesae caritatis reparatio est:25 Non vi è
mezzo più atto a riparar la carità offesa,
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che l'umiliarvi. E ciò
fatelo subito che potete, facendovi forza a vincer la ripugnanza che vi
sentite; perché quanto più tratterrete a farlo, tanto più crescerà la vostra
ripugnanza, e poi non ne farete niente. Sapete già quel che disse Gesù Cristo: Si ergo offers munus tuum ad altare, et ibi
recordatus fueris quia frater tuus habet aliquid adversus te, relinque ibi
munus tuum ante altare, et vade prius reconciliari fratri tuo; et tunc veniens
offeres munus tuum (Matth. V, 23, 24): Se stai all'altare per offerire il
tuo dono - viene a dire per comunicarti o per sentir la Messa - e ti ricordi
che il tuo prossimo sta disgustato con te, lascia l'altare e va prima a
riconciliarti col prossimo. Avvertasi non però che talvolta non conviene usar
quest'atto di umiliazione, quando si giudica che un tal atto cagionerebbe nuovo
disturbo alla persona che si sente offesa. Allora o si aspetti altro tempo
opportuno o pure si passi quell'officio per mezzo d'altra sorella, e si attenda
frattanto a dimostrarle un'attenzione e rispetto particolare.
1
«Pauci admodum sunt qui huic vitio renuntient, raroque invenies qui ita vitam
suam irreprehensibilem exhibere velint, ut non libenter reprehendant alienam.
Tantaque huius mali libido mentes hominum invasit, ut etiam qui procul ab aliis
vitiis recesserunt, in istud tamen quasi in extremum diaboli laqueum incidant.»
Epistola 148 (inter Opera S.
Hieronymi), ad Celantiam matronam, n. 16. Questa lettera, come già l' abbiam
notato, sarà forse di S. Paolino, forse di Sulpizio Severo, certamente di
qualche autore non volgare di quel tempo, ma non è di S. Girolamo.
2
«Novi.... sacerdotem qui in tantum vitio linguae deditus erat, ut potius de se
pessima mentiretur, quam non socios vel cohabitantes sibi criminibus infamaret.
Hic ante mortem raptus in furiam, tanta in se
debacchatus est caede, ut propriis dentibus linguam maliloquam laniaret.»
THOMAS CANTIPRATANUS, O. P., Episcopus suffraganeus Cameracensis, Bonum universale, seu Liber apum, seru Miraculorum et exemplorum memorabilium sui temporis libri duo, lib.
2, cap. 37, n. 3.
3 «Quidam.... gratiam habens
principum.... quod esset adulator et garrulus, et potens in lingua, favebat per
omnia adversariis Malachiae... Sancto vero et praesenti resistebat in facie, et
detrahebat absenti, irreverenter occurrens ei in omni loco, maximeqe ubi
celebrioribus illum sciret interesse conventibus. Sed cito digna linguae
procacis mercede donatus est. Intumuit et computruit lingua maledica, vermibus
ex ea scatenibus, et diffluentibus toto ore blasphemo: quos per septem ferme
dies incessantes vomens, tandem cum illis miseram exspuit animam.» S. BERNARDUS, Vita S. Malachiae, cap. 13, n. 28. ML
182-1091.
4
«Tra gli altri difetti de' quali ella fu rigorosa correttrice, in particolare
fu della mormorazione. Onde se qualcheduna delle sue suddite incorreva in
questo eerrore... non permetteva che la sera ella entrasse nell' oratorio con
le altre, se prima non aveva fatto la penitenza di tal difetto... e per farle
venire in stima di questo errore, diceva, che se ella avesse conosciuto una, la
quale in vita sua non avesse mai detto male del prossimo, l' avrebbe stimata
meritevole d' esser canonizzata in vita.» PUCCINI, Vita, Venezia, 1671, cap. 106.
5
«Tra u rimedi che ella dava loro (alle sue novizie) per non incorrere in questo
errore (della mormorazione), era questo, che parlassero pochissimo del
prossimo, ancorchè in bene: perchè, diceva lei, si comincia in bene, e poi per
ordinario si finisce in male; e se pure era necessario parlarne, non si dicesse
mai cosa in assenza che non si dicesse anco in presenza.» PUCCINI, Vita, Venezia, 1671, cap. 106.
6 THEODORETUS, In Canticum Canticorum, lib. 2, MG 81-130, 131, in h. l., Cant. IV,
3: «Sicut funiculus coccineus labia tua,
et eloquium tuum decorum. Per funiculum coccineum sponsae redigit in memoriam Rhaab meretricem,
quae figuram eius gerebat in Veteri Testamento. Etenim cum speculatores missos
a Iosua filio Nave suscepisset, per illos aeterna salute digna effecta est:
habuitque ipsa quoque salutis signum funiculum coccineum, quem e fenestra
suspensum dimittere iussa est, ut Israelitis in urbem ingressis signum id
apparens illam a caede liberaret eiusque saluti consuleret. Signum hoc sponsus
in ore sponsae, tamquam in fenestra collocatum intuetur: et «Sicut funiculus
coccineus, inquit, labia tua, et eloquium tuum decorum.» Duxit
enim colorem ex sanguine meo, et verba profert veritatis, quibus tamquam
funiculo quodam capiuntur auditores, et vinciuntur. Nam eloquium tuum decorum
eos demulcet et retinet, nec discedere permittit, sed labiis tuis cogit inhaerere.»
- Vi è qualche traduttore (Dujardin, Tournai,
1867, seguito in ciò dal Pladys, Paris,
1892), il quale crede di dover qui sostituire al Teodoreto il Gregorio Nisseno. Ecco le parole del Nisseno: «Non
solum... absolute filum dicit esse labra: sed addidit etiam florem boni
coloris, adeo ut per utrumque ornetur os Ecclesiae, nempe et per filum et per
coccinum... Nam per fila quidem docetur consensionem ac concordiam, ut ea tota
in filo sit una et eadem catena ex diversis filis contexta; per coccinum autem,
ad sanguinem per quem redempti sumus ut aspiciat docetur, et confessionem ipsam
in ore habeat eius, qui suo nos redemit sanguine. Nam per
haec ambo labris Ecclesiae impletus est suus decor, quando et fides praelucet
confessioni, et caritas cum fide contexitur.... Coccineum
filum est fides, quae operatur per dilectionem.» S. GREGORIUS NYSSENUS, In Cantica Canticorum, hom. 7: MG 44.927.- Ora ci sembra che quell'
«eloquium decorum» il quale «demuicet et retinet, nec discedere permittit, sed
labiis cogit inhaerere» del Teodoreto, sia assai più vicino all' argomento
trattato da S. Alfonso- della carità nelle parole- che non sia quel consenso
nella confessione della fede e quella carità nel suo senso generale, del
Nisseno. Basta notare che l' interpretazione del Teodoreto, il quale loda tutto
quel che rende soave il parlare, viene applicata da S. Alfonso ad un punto
particolare, con quella graziosa forma della «benda di scarlatto» che ricopre
di difetti altrui. Dicendo: «secondo spiega Teodoreto», S. Alfonso non intende
riferire le parole di quel Padre, ma solo appoggiarsi sulla sua interpretazione
del testo sacro: il che è conforme al vero.
7 «Cave alienae conversationis esse aut
curiosus explorator, aut temerarius iudex. Etiamsi perperam actum quid
deprehendas, nec sic iudices proximum, magis autem excusa. Excusa intentionem,
si opus non potes» S. BERNARDUS, In
Cantica, sermo 40, n. 5. ML 183-984.
8 «Hunc quippe venerabilem patrem, pro
mirabili illo suae caritatis affectu quo tegere culpas delinquentium solebat,
operimentum fratrum vocare consueverant.» SURIUS, De probatis Sanctorum historiis: tomus 7, opera atque studio F. Iac. MOSANDRI, Carthusiani; die 17 februarii: De Constabili, Abbate Cavensi (+ 1138),
cap. 6.- Vita S. Constabilis (la
stessa che presso il Surio), auctore coaetaneo anonymo, cap. 2, n. 6: inter Acta Sanctorum Bollandiana, die 17 febr.
9
«De aquel poco tiempo vi nuevas en mi estas virtudes.... No tratar mal de nadie
por poco que fuese, sino lo ordinario era excusar toda mormuraciòn: porque
traia muy delante còmo no habìa de querer, ni decir de otra persona lo que no
querìa dijesen de mi. Tomaba esto en harto extremo para las ocasiones que
habia, aunque no tan perfetamente, que algunas veces, quando me las daban
grandes, en algo no quebrase: mas la contino era esto; y ansi, a las que
estaban conmigo y me trataban, persuadia tanto a esto, que se quedaron en
costumbre. Vinose a entender que adonde yo estaba tenian
siguras las espaldas, y en esto estaba con las que yo tenia amistad y deudo, y
enseñaba.» S.
TERESA, Libro de la Vida, cap. 6. Obras, I, 36.
10
Dall' istesso affetto di ben radicata umiltà aveva origine una risposta ch'
egli soleva dare, quando veniva invitato da alcuno a risentirsi, cioè che valeva
più un' oncia di carità che una libra di riputazione: non volendo con
pregiudizio della grazia celeste neppur un tantino crescere nel concetto degli
uomini.» Giacomo FULIGATTI, S. I., Vita, 2a ed., Roma, 1644, cap. 35.- Cf.
BARTOLI, Vita, lib. 3, cap. 12:
COUDERC, Vie, II, pag. 264.
11
«Se alcuno teco contrasta, volendo tu vincere, perdi, perchè facendo
altrimenti, quando penserai d' aver vinto, avrai perduto.» MARCO DA LISBONA, Croniche del P. S. Francesco, parte 1,
lib. 7, cap. 22.
12
«Amorem vero in Deum et proximum adeo (Ephraem) servavit studiose, ut ex hoc
decedens saeculo, haec inter postrema referret....: «....Neminem in omni vita
mea maledictis oneravi; nec cum ullo plane christiano homine contentiosum me
praebui.» S. GREGORIUS NYSSENUS, De vita S. Patris Ephraem Syri. MG 46-827.
13 «Qui in Religione pacem vult habere
cum fratribus, nemini contradicat.» TALENTI, Vita, lib. 7, cap. IX, III, n. 42.
14
I Cor. XIII, 4.
15
«Suor Maria dell' Ascensione, monaca di Siviglia nel Monastero della Madonna
delle Grazie, se sentiva qualche parola pungente o molesta, subito ella
ricorreva al Santissimo per ringraziarnelo, e poi diceva con una sincerità
ammirabile: «Ecco, Signore, un presente che io offerisco: vi prego, ricevetelo,
perdonate alla mia sorella, la qual enon pensava a quel che ha detto.» Paolo de BARRY, S. I., Solitudine di Filagia, Settimo giorno,
(primo) Trattenimento spirituale. Milano (senza data), p. 268.
16 «Perchè non si disanimasse per i pericoli e
per le difficoltà che s' incontrano in questo tratto (coi prossimi), gli diè
Nostro Signore a sentire il bene che da lor si ritrae, scoprendogli i tesori
che si racchiudono in quel versetto di Davide: «Coloro, che navigano per il
mare, rompendo molte ondate, essi vedranno le opere del Signore (Ps. CXI, 23,
24).» Subito gli fè intendere che questi tali debbano stare avvertiti che, se
veramente si porranno a navigare, egli si ha da alterare il mare: giacchè per
ciò aggiunse il Salmista che si levò lo spirito della tempesta, ed i marosi si
ergevano fino ai cieli, e si profondavano fino agli abissi (Ps. CVI, 25, 26).
Ma tanto succede, affinchè con preghiere ricorrano al Signore, e crescano, non
affinchè periscano.... Onde era solito dire che la virtù è di basso corato,
finattantochè sia provata al tocco della pietra paragone del tratto co'
prossimi: nel qual tratto la carità, l' umiltà, la pazienza, la limpidezza e
purità del cuore, hanno di grandi sperienze, e molto ci profittano i loro dispiaceri,
le lor condizioni e le loro abitudini, contrarie alle nostre, se vengano
sofferte per Dio.» Ven. Lodovico DA
PONTE, Vita, cap. 7, § 2.- In una
gran tempesta che si levò contro di lui, il P. Baldassarre tradusse «in fatti
ciò che agli altri esortava in parole: ed era: che non vi avea perfetta umiltà
senza umiliazione, nè vera pazienza senza veementi assalti, e che la più
precipua parte della virtù in ciò consisteva di non lasciarsi fuggir dalle mani
le occasioni e le opportunità di esercitarsi in essa, e che l' istesso profitto
singolarmente consisteva in ciò, ch' era sapersi umiliare, tollerare, e tacere
coll' esponere anco a pericolo per amor di Dio l' onore e la propria stima.» La stessa opera, capo 40, § 1, pag. 395,
396.
17
«Num potest igni ignis exstingui? Repugnat hoc naturae. Sic neque furor furore
alio demulceri poterit umquam.» S. IO. CHRYSOSTOMUS,
In Genesim, hom. 58, n. 5. MG 54-512.
18 «Narravit nobis abbas Sergius,
antistes monasterii abbatis Constantini, dicens: «Cum aliquando iter ageremus
cum quodam sancto sene, erravimus de via, et neque scientibus nobis neque
volentibus, inter sata inventi sumus, et aliqua de satis volentes nolentesque
calcavimus. Quod cum vidisset agricola - erat enim illic operans- coepit contra
nos iniuriosa multa proferre cum iracundia, dicens: «Vos monachi estis? vos
timetis Deum? Si
timorem Dei ante oculos habuissetis, hoc profecto non fecissetis.» Tunc ait nobis sanctus senior: «Per Dominum nullus ei respondeat.» Conversusque ad illum,
dixit: «Recte locutus es, fili mi; nam si timorem Dei haberemus, non ita
fecissemus.» Ille rursus furens, contumeliis impetebat nos.
Rursumque dixit senior ad illum: «Vera prosequeris, fili; nam si veri monachi
essemus, istud non egissemus; sed per Dominum indulge nobis, quoniam
peccavimus.» Stupefactus ergo ille ad tantam senis humilitatem, accessit
propius, prostravitque se ad pedes senis, dicens: «Peccavi, indulge mihi, et
per Dominum assumite me vobiscum.» Dicebatque beatus Sergius, quia secutus sit
illos rusticus, et acceperit habitum.» Pratum
spirituale, cap.
218. ML (de Vitis
Patrum, lib. 10) 74-238; MG 87-3107, 3110.- L' autore è «IOANNES, cognomento MOSCHUS.» L'
opera però viene, da S. Giovanni Damasceno, da Niceforo, perfino dal secondo
Concilio di Nicea e da altri, chiamata Liber
Sophronii, cioè di S. Sofronio, poscia patriarca di Gerusalemme, discepolo
prediletto in tutte le sue pie peregrinazioni. Giovanni, poco prima di morire a
Roma, consegnò il libro a Sofronio, a cui l' aveva dedicato; anzi per lui l'
aveva composto, come dice nel Prologo (ML
74-122): «Ex his (virtutibus sanctorum virorum qui nostris temporibus claruere)
ego flores pulcherrimos decerpens, coronam tibi ex immarcescibili ac perenni
prato contexui, fidelissime fili, eamque tibi ac per te omnibus offerro.» Per
queste ragioni, ed anche perchè le diligenti cure di Sofronio la fecero
conoscere, l' opera del maestro prese il nome del discepolo.
19 «Il est donc mieux d' entreprendre de
savoir vivre sans colère que de vouloir user modérément et sagement de la
colère.» S. FRANÇOIS DE SALES, Introduction
à la vie dévote, partie 3, ch. 8. (Euvres,
III, 164.
20 «Fratri Profuturo Augustinus... Non
desunt scandala, sed neque refugium; non desunt moerores, sed neque
consolationes. Atque inter haec quam vigilandum sit ne cuiusquam odium cordis
intima teneat... nosti, optime frater: subrepit autem, dum nulli irascenti ira
sua videtur iniusta. Ita enim inveterascens ira fit odium, dum quasi iusti
doloris admixta dulcedo, diutius eam in vase detinet, donec totum acescat,
vasque corrumpat. Quapropter multo melius, nec iuste cuiquam irascimur, quam
velut iuste irascendo in alicuius odium irae occulta facilitate delabimur. In
recipiendis enim hospitibus ignotis, solemus dicere, multo esse melius malum
hominem perpeti, quam forsitan per ignorantiam excludi bonum, dum cavemus ne
recipiatur malus: sed in affectibus animi contra est. Nam incimparabiliter
salubrius est etiam irae iuste pulsanti non aperire penetrate cordis, quam
admittere non facile recessuram, et perventuram de surculo ad trahem. Audet quippe impudenter
etiam crescere citius quam putatur. Non enim erubescit in tenebris, cum super
eam sol occiderit (Eph. IV, 26). Recolis certe qua cura et quanta sollicitudine
ista scripserim, si recolis quid mecum nuper in itinere quodam locutus sis.» S.
AUGUSTINUS, Epistola 38, n. 2. ML
33-153.
21
Questo Agrippino non può esser altro che Paconius
Agrippinus, proconsole di Creta sotto Claudio, mandato in esilio da Nerone,
il quale ebbe nome tra gli stoici, e viene lodato da Epitetto, da Arriano, da
Stobeo. Ne fa anche menzione Tacito. Basti riferire questo frammento di
Epitetto (Epitecti fragmenta, LVI,
Parisiis, Didot, 1877(, conservatoci da Stobeo (Ioannis Stobazi Sententiae ex thesauris Graecorum delectae, Tiguri,
1559, lib. 7, sermo VII, De fortitudine, pag.
87): «Proptereea merito laudandus Agrippinus, quod cum vir esset maximi
faciendus, numquam se ipsum laudaret, sed et, si quis alius ipsum laudaret,
erubesceret. Hic autem, inquiebat, vir talis erat, ut eius quod illi accidisset
mali laudationem scriberet: si quidem febricitaret, febris; si dedecore
afficeretur, dedecoris; si exsularet, exsilii. Et aliquando, inquiebat,
pransuro ipsi astitit qui diceret, iubere Neronem ut in exsilium abiret; hic
autem: «Ergo, inquit, Ariciae prandebimus.»
22 «Frenate iram... Ira enim scorpio
est.... Si vindicare te vis de inimico tuo, ad ipsam iram tuam te converte:
quia ipsa est inimica tua, quae occidit animam tuam.... Talem
pone tibi inimicum qui saeviat usque ad mortem, quid facturus est? Quod Iudaei Stephano: sibi
poenam, illi coronam... Ergo inimicus tuus quicumque fuerit usque ad mortem,
nihil tibi nocebit. Ira vide quid noceat. Agnosce inimicam tuam: agnosce cum
qua pugnas in theatro pectoris tui. Augustum theatrum:
sed Deus spectat.... Vis videre quam sit ista vera tua inimica? Modo ostendo. Oraturus es
Deum.... Venturus es ad illum versum: Dimitte
nobis debita nostra. Quid sequitur? Sicut et nos dimittimus debitoribus nostris.
Ibi illa
inimica stat contra te. Sepit viam orationis tuae:
murum erigit, et non est qua transeas... Non permittitur ut saevias contra
inimicum tuum: in istam saevias... In manu tua est... Si fortis es, iram
vince.» S. AUGUSTINUS, Sermo 315,
cap. 6, 7, n. 9, 10. ML 38-1430, 1431.
23
«Diceva non esser possibile che un' anima, la quale nel tempo della meditazione
e contemplazione ha in sè qualche sollecitudine, affetto o desiderio d' altra
cosa, possa stare attenta a ciò che medita, e ricevere in se stessa l' immagine
di Dio, nel quale meditando cerca di trasformarsi. Mi ricordo avergli udito
dire questa similitudine in tal proposito, che siccome un' acqua, la quale è
agitata da' venti, o non rappresenta l' immagine d' un uomo che se le accosti, per
essere ella torbida, o se pure resta chiara, non rappresenta le membra unite al
busto, ma disparate, e quasi tagliato e disgiunto un membro dall' altro, così
l' anima, la quale nella contemplazione è da' venti delle passioni combattuta,
o dagli affetti e desideri agitata e commossa, non è atta nè disposta a
ricevere in sè l' immagine di Dio, nè a trasformarsi nella similitudine di
quella divina Maestà, la quale
contempla.» CEPARI, Vita, parte 2,
cap. 8.
24 «Caliginis sunt duae causae: ira et
mollior affectus. Is
iudicii censuram enervat, illa praecipitat. Quomodo ab altero (alterutro) non
periclitetur aut pietas clementiae aut zeli rectitudo? Turbatus prae ira oculus
clementer nil intuetur; suffusus fluxa quadam et muliebri mollitie animi rectum
non videt.» S. BERNARDUS, De
consideratione, lib. 2, cap. 11. ML 182-755.
25 «Sola virtus humilitatis est laesae
reparatio caritatis.» S. BERNARDUS, In Nativitate
Domini, sermo 2, n. 6. ML 183-122. Parla qui, direttamente, S. Bernardo,
degli abbassamenti del Verbo fattosi uomo, la quale umiliazione è stata rimedio
alla nostra rovina e causa della nostra salute. Ma ben si applica questa sua
parola all' intento di S. Alfonso: perchè se l' umiltà di Gesù Cristo ristabilì
l' unione dell' uomo con Dio, la nostra ristabilirà l' unione con Dio e col
nostro prossimo. Del resto, la sentenza di San Bernardo è generale, e si adatta
a tutti i sensi che vi possono esser contenuti.
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