- CAPO VIII - Della mortificazione esterna de' sensi.
- § 2 - Della mortificazione della gola.
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§ 2
- Della mortificazione della gola.
1.
Dicea Sant'Andrea d'Avellino che chi vuole incamminarsi alla perfezione, dee
con molta attenzione principiare a mortificar la gola.1 E prima lo
disse S. Gregorio: Non ad conflictum
spiritualis agonis consurgitur, si non prius gulae appetitus domatur (Mor.
l. 30, c. 13).2 Scrive inoltre il P. Rogacci nel suo Uno necessario che
la maggior parte della mortificazione esterna consiste nel mortificare il
gusto.3 Ma il mangiare naturalmente diletta il gusto, dunque non si ha
da mangiar più? No, si ha da mangiare, perché Dio vuole che così conserviamo la
vita del corpo, affin di servirlo, finché vuol egli tenerci su questa terra. Ma
dobbiamo attendere a mantenere il corpo, secondo quel che diceva il P. Vincenzo
Carafa, come appunto farebbe un monarca, che possedesse mezzo mondo, e fosse
obbligato a stregliare di sua mano un cavallo più volte al giorno: questi
adempirebbe il suo obbligo; ma come? con una certa nausea e disdegno, e se ne
spedirebbe quanto più presto potesse.4 Dice S. Francesco di Sales: Si ha da mangiare
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per vivere, non
si ha da vivere per mangiare.5 Alcuni par che non vivano per altro
che per mangiare, come fanno le bestie. Belluinus
est homo, dice S. Bernardo, amando
talia qualia belvae:6 È brutale quell'uomo, non già spirituale né
ragionevole, il quale ama i cibi come l'amano i bruti; siccome fece l'infelice
Adamo, che per cibarsi d'un pomo, diventò simile a' giumenti. Dice lo stesso S.
Bernardo che se i giumenti allora avessero
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avuta la ragione, in
vedere Adamo che, per lo gusto miserabile di mangiare un frutto, si scordava di
Dio e della sua eterna salute, avrebbero detto: Ecco Adamo ch'è diventato bruto
come uno di noi: Puto iumenta dicerent,
si loqui fas esset: Ecce Adam quasi unus ex nobis factus est (S. Bern., In
Cant. serm. 35).7 Quindi dicea S. Caterina da Siena: Chi non è mortificato nel mangiare, è impossibile che possa conservar
l'innocenza, mentre Adamo per la gola la perdé.8 Che miseria è il
vedere alcuni, al dir di S. Paolo, i quali fan diventare il ventre il loro Dio!
Quorum Deus venter est (Philip. III,
19).
2.
Quanti miseri han perduta l'anima per lo vizio della gola! Narra S. Gregorio
ne' suoi Dialoghi (Lib. 4, c. 38) che in un monastero di Licaonia viveva un
monaco di vita molto esemplare; ma ritrovandosi poi costui in morte, se gli
fecero attorno i suoi religiosi, per ritrarne in quell'ultimo di sua vita qualche
ricordo di edificazione. E che udirono? Fratelli,
disse il moribondo, sappiate che quando voi digiunavate, io mangiava di
nascosto, e perciò sono stato già consegnato al demonio, che già mi uccide e si
porta l'anima mia. E così dicendo spirò.9 Narra di più lo stesso
santo (Dial. 1. 1, c. 4) che una
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monaca, adocchiando nell'orto una
bella lattuga, la prese contro la regola, e la mangiò; e subito fu invasata da
un demonio, che cominciò molto a straziarla. Chiamarono le compagne il santo
abbate Equizio, alla venuta di cui gridò il demonio e disse: Che male ho fatt'io? io sedea su quella
lattuga: ella è venuta e m'ha preso. Ma il servo di Dio colla forza de'
suoi comandi lo costrinse a partire.10 Narrasi di più nelle Istorie cisterciensi
(Vincent., Spec. hist. lib. VII, c. 108) che S. Bernardo, visitando una volta i
suoi novizi, ne chiamò uno in disparte, che nominavasi Acardo, e gli disse che
un altro novizio, additandogli chi era, in quello stesso dì miseramente sarebbe
fuggito dal monastero; onde gli raccomandò che, vedendolo fuggire, l'inseguisse
e lo fermasse. Ed in fatti, nella notte seguente, Acardo vide prima un demonio,
che appressatosi al novizio lo tentò di gola, con accostargli alle narici un
pollo arrostito. Intanto il misero si risvegliò, e cedendo alla tentazione,
prese le sue vesti e si avviò per uscir dal monastero. Allora Acardo lo
raggiunse, ma senza pro, poiché lo sventurato, vinto dalla gola, volle
ostinatamente ritornare al secolo, dove, soggiunge l'autore, terminò
infelicemente la vita.11
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3.
Stiamo attenti dunque a non farci vincere da questo vizio brutale. Dice S.
Agostino esser già necessario il prender cibo per sostentar la vita, ma doverlo
noi prendere come si prendon le medicine, cioè per quanto son necessarie, e
niente più.12 L'intemperanza nel cibarci fa gran danno al corpo ed
all'anima. In quanto al corpo è certo che la maggior parte de' morbi umani son
cagionati dal vizio della gola: le apoplessie, le diarree, le ostruzioni, i
dolori di testa, di viscere, di fianchi ed altri innumerabili mali, per lo più
non hanno l'origine che dal cibo soverchio. Ma il minor male sono i morbi del
corpo; il peggiore è l'infermità che ne proviene all'anima. Questo vizio
primieramente, come dice l'Angelico (2. 2. quaest. 148, a. 6), ottenebra la
mente e la rende inetta agli esercizi spirituali e specialmente
all'orazione.13 Siccome il digiuno dispone l'anima alla contemplazione
di Dio e de' beni eterni, così l'intemperanza ne la distoglie. Dice il
Grisostomo che chi tiene il ventre ripieno di cibi è come una nave carica di
pesi, che poco può
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muoversi, e perciò sta in molto rischio di
perdersi, se le sovraggiunge qualche tempesta di tentazioni.14
4.
Dice pertanto S. Bernardo: Panem ipsum
cum mensura sume, ne onerato ventre stare ad orandum taedeat (In Cant.
serm. 66):15 Procura di prender anche il pane con misura moderata,
acciocché il peso del ventre non ti faccia tediar l'orazione. Poiché, in altro
luogo dice: Si ad vigilias indigestum
cogis, non cantum, sed planctum potius extorquebis (S. Bern., Apol. ad
Guiliel. ab.):16 Se tu costringi a vegliare una persona indigesta,
affin di cantare le divine lodi, ne ritrarrai pianto e fastidio più presto che
canto. Perciò bisogna che i religiosi stiano attenti a mangiar poco, e
specialmente la sera nella cena, poiché nella sera la fame che si sente, spesso
è fame falsa, causata dall'acido prodotto dal cibo preso nel pranzo; onde chi
allora vuole soddisfar la fame, facilmente eccede, e ritrovandosi poi nella
mattina indigesto, si sentirà collo stomaco imbarazzato, e col capo stordito e
pieno di fumi, che non sarà abile a dire un'Ave Maria. Pensate poi, dice S.
Bernardo, se il Signore vorrà consolar nell'orazione chi attende a ricrearsi
co' cibi, come si ricreano le bestie: Divina
consolatio, dice il santo, non datur
admittentibus alienam
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(Serm. 5 de Ascens.):17 Le
consolazioni divine non si donano a chi cerca le terrene.
5.
Inoltre chi dà libertà alla gola, facilmente darà libertà poi anche agli altri
sensi; poiché, avendo perduto il raccoglimento, come si è detto, facilmente
caderà in altri difetti di parole indecenti e di gesti scomposti. E 'l peggior
male si è che coll'intemperanza ne' cibi passa gran pericolo la castità. Ventris saturitas, dice S. Girolamo, seminarium libidinis (In
Iovinian.):18 La sazietà del ventre è un gran fomento
dell'incontinenza. Onde scrisse Cassiano essere impossibile che non esperimenti
tentazioni impure, chi sta sazio di cibi: Impossibile
est saturum ventrem pugnas non experiri (Inst. lib. 5, c. 13).19
Perciò i santi, per conservarsi casti, sono stati così
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attenti a
mortificare la gola. Dice l'Angelico: Diabolus,
victus de gula, non tentat de libidine:20 Quando il demonio resta
vinto nel tentar di gola, lascerà di tentare d'impudicizia.
6.
All'incontro quei che attendono a mortificare il gusto fanno continuamente
avanzamento nello spirito: poiché, mortificando la gola, facilmente
mortificheranno anche gli altri sensi e si eserciteranno nelle virtù, secondo
canta la santa Chiesa: Deus, qui
corporali ieiunio vitia comprimis, mentem elevas, virtutes largiris et praemia (Praefat.
Quadrag.). Per mezzo del digiuno il Signore dà forza all'anima di superare i
vizi, di sollevarsi dagli affetti terreni, di praticar le virtù e di acquistare
meriti eterni. Dicono quei che sono attaccati a' piaceri di terra: Ma Iddio a
questo fine ha creati questi cibi, acciocché ce ne vediamo bene. Ma non dicono
così i santi. Dicea il Ven. P. Vincenzo Carafa della Compagnia di Gesù: Il
Signore ci ha donate le delizie di questa terra, non solo per nostro diletto,
ma ancora affinché avessimo ond'esser grati con lui, dimostrandogli il nostro
amore, con donargli i suoi stessi doni, privandoci di goderli.21 E così
infatti praticano le anime
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sante. I monaci antichi, come riferisce S.
Girolamo, riputavano un gran difetto il cibarsi di cibi cotti;22
tutt'il loro pasto consistea in un pane d'una libra.23 S. Luigi
Gonzaga, non ostante che fosse di sanità così debole, facea tre digiuni in pane
ed acqua la settimana.24 S. Francesco Saverio nelle sue missioni non si
cibava d'altro che d'una branca di riso
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abbrustolato.25
Similmente
S. Giovan Francesco Regis, girando colle missioni, non prendeva altro cibo che
un poco di farina stemperata nell'acqua.26 A S. Pietro d'Alcantara
tutto il sostentamento era una scodella di brodo.27 Ed a' giorni nostri
leggesi nella vita del Ven. fra Gio. Giuseppe della Croce alcantarino - da noi
ben conosciuto - che il servo di Dio, dopo la sua professione, per ventiquattro
anni non si cibò d'altro che di pane e di qualch'erba o frutto, oltre i tanti
digiuni che facea in solo pane ed acqua; obbligato poi dalle sue infermità e
dall'ubbidienza a prendere qualche cibo caldo, questo non fu altro che il solo
pane intinto in una tazza di brodo. E perché i medici l'obbligarono a bere
ancora un poco di vino, egli mescolava quel vino nello stesso brodo, rendendo
così più disgustevole quel suo scarso alimento.28 Io non pretendo di
obbligare
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alcuna monaca ad imitar questi esempi per farsi santa; ma
dico che chi sta attaccata alla gola e non attende di proposito a mortificarla,
non farà mai alcuno avanzo notabile nello spirito. Quest'azione del cibarsi è
un'azione usuale di due volte al giorno, ond'è che coloro che non attendono a
mortificar il gusto, ogni giorno commetteranno mille difetti.
7.
Ma veniamo alla pratica. Vediamo in quali cose abbiam noi da mortificar la
gola. Ce l'insegna S. Bonaventura: In
qualitate, in quantitate et modo (De prof. rel. 1. 2,
c. 47).29
E
per 1. In qualitate: ut non delicata
requirat, sed simplicia.30 Dà segno di poco spirito, dice il santo
in altro luogo, una religiosa che non si contenta de' cibi che le sono portati,
ma ne cerca altri più piacevoli al palato, o pure dimanda che quel cibo le sia
apparecchiato in altro modo.31 La religiosa mortificata non fa così:
ella si contenta di ciò che l'è posto avanti: e quando le son presentate più
vivande, si elegge la meno gradita al palato, purché non le faccia danno. Così
facea S. Luigi Gonzaga, procurando di scegliersi ciò che era più contrario al
gusto.32 E parlando specialmente della carne e del vino, dice Clemente
alessandrino: Vinum et carnium sagimen
robur quidem adducunt corpori, sed animam reddunt languidam (Strom. 1.
7):33 Il vino e le carni ben danno forza
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al corpo, ma rendono
inferma l'anima. In quanto alle carni, leggiamo ne' sagri canoni che
anticamente a' monaci non era permesso neppure di gustare la carne: Carnem monacho nec sumendi nec gustandi est
concessa licentia (De consecr. Dist. 5).34 E S. Bernardo, parlando
di se stesso, diceva: Abstineo a
carnibus, ne carnis nutriant vitia (Serm. 66, in Cant.):35 Io mi
astengo dalle carni, acciocché quelle non nutriscano i vizi della carne. In
quanto poi al vino, dice la sagra Scrittura: Noli regibus dare vinum (Prov. XXXI, 4). Per questi re non
s'intendono già quei che governano i regni, ma quelle persone che dominano e
soggettano alla ragione i loro appetiti malvagi. In altro luogo dice lo stesso
Savio: Cui vae?... nonne his qui commorantur in
vino et student calicibus epotandis? (Prov. XXIII, 29,
30).36 Guai e guai eterni - poiché la parole vae, come spiega S. Gregorio,37 nelle Scritture significa
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la dannazione eterna - guai a coloro che hanno il vizio del vino! E
perché? Lo dice lo stesso Salomone: Luxuriosa
res vinum (Prov. XX, 1): Il vino è fomento dell'incontinenza. Quindi S.
Girolamo scrisse alla vergine Eustochio: Hoc
primum moneo ut sponsa Christi vinum fugiat pro veneno. Vinum et adolescentia duplex
incendium voluptatis est (Epist. 22).38 Se voi, le
disse, volete conservarvi casta, qual dee essere una sposa di Gesù Cristo,
fuggite il vino come il veleno: il vino colla gioventù è un doppio incendio a
desiderare i piaceri illeciti. Da tutto ciò deve dedursi che chi non ha lo
spirito o pure non può per la debolezza della sua sanità astenersi in tutto
dalle carni e dal vino, dee almeno usare in queste cose una gran moderazione,
per non esser molto molestato dalle tentazioni impure.
8.
È bene ancora che la religiosa mortificata si astenga da' condimenti superflui,
che ad altro non servono, se non per soddisfare la gola. I condimenti usati da'
santi sulle loro vivande non sono stati altri che cenere, aloe ed assenzio. Io
non pretendo queste mortificazioni da voi, né pretendo molti digiuni
straordinari. Anzi a voi che non vivete solitaria in qualche deserto, ma state
in comunità, conviene, secondo dice Cassiano, che fuggiate, ordinariamente
parlando, tutto ciò che non è conforme all'uso comune del monastero, come cosa
molto soggetta alla vanagloria.39 Dicea S. Filippo Neri: In tavola, in cui si convive, si dee mangiar
d'ogni cosa.40 Ond'egli poi esortava i suoi congregati: Fuggite ogni singolarità, come origine per
lo più di superbia spirituale.41 Del resto chi
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ha spirito
ben trova il modo di mortificarsi senza farlo comparire. S. Giovanni Climaco
cibavasi di tutto, ma tutto più presto assaggiava che mangiava: e così
mortificava la gola, senza pericolo di vanità.42 Dicea S. Bernardo che
talvolta chi vive in comunità, più si compiacerà d'un digiuno fatto a vista
degli altri che mangiano, che di sette digiuni, mentre gli altri ancora
digiunano.43 Ciò nulladimanco non vi proibisce di far qualche digiuno
rigoroso, intendo in pane ed acqua, ne' giorni di divozione, come nel venerdì o
sabato e nelle vigilie delle festività di Maria santissima e simili. Tali digiuni
sono ordinariamente usati dalle religiose divote.
9.
Almeno, se non avete lo spirito o le vostre infermità non vi permettono di far
digiuni rigorosi, non vi lamentate de' cibi della comunità, e contentatevi di
quelli che vi presentano. S. Tommaso d'Aquino non mai domandò cibo particolare,
ma sempre si chiamò soddisfatto con quelli soli che gli poneano avanti; e di
quelli cibavasi poi con molta moderazione.44 Similmente di S. Ignazio
di Loiola si legge che non mai rifiutò alcuna vivanda, né lagnossi mai che
fosse mal cotta o mal condita.45 Ciò spetta alle superiore, il
provvedere che la comunità in ciò non patisca; ma la religiosa non dee
lamentarsi
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se la pietanza vien poco o molto cotta, se scarsa, se presa
di fumo, se insipida o troppo salita. Il povero, purché abbia cibo da sostentar
la vita, prende quel che gli è dato senza patti e senza lagnanze; e così la
religiosa dee accettar quel che l'è portato, come limosina che le vien data da
Dio.
10.
Per 2. circa la quantità, dice S. Bonaventura: In quantitate: ut non nimium et saepius quam decet, ut sit refectio
corpori, non onus:46 Non dee la persona caricarsi di cibo in
maggior quantità o più spesso di ciò che bisogna, affinché il cibo apporti
sollievo e non peso al corpo. Perciò è regola di tutte le persone spirituali di
non cibarsi mai a sazietà: Sit tibi
moderatus cibus, et numquam venter expletus, scrisse S. Girolamo alla
vergine Eustochio (Ep. 22).47 Alcune monache fanno il digiuno in un
giorno, e poi nel seguente mangiano smoderatamente: meglio è, dicea S.
Girolamo, prendere abitualmente il cibo che conviene e non far succedere al
digiuno un pasto eccedente.48 Avverte di più lo stesso S. Dottore che
non solo ne' cibi delicati si eviti la sazietà, ma anche ne' vili e grossolani:
Sed et in vilissimis cibis vitanda
satietas est (In Iovin. lib. II).49 Che importa che quella monaca
non si sazii di pernici, ma di legumi, quando i legumi cagionano lo stesso mal
effetto delle pernici? Circa poi la quantità conveniente del cibo, S. Girolamo
assegna questa regola, che la persona resti talmente leggiera dopo il pasto che
possa subito applicarsi all'orazione o alla lettura: Quando comedis, cogita quod statim tibi orandum et legendum est
(Ep. ad Furiam).50
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Dicea
saggiamente un padre antico: Chi mangia
molto e resta famelico, sarà più premiato di colui che mangia poco e si sazia.51
Narra Cassiano (Instit. 1. 5, c. 25) che un certo buon monaco, avendo dovuto un
giorno sedersi più volte a mensa per assistere a certi forastieri? ed avendo
ogni volta mangiato per convenienza, anche nell'ultima volta si era alzato non
sazio dalla tavola.52 Questo è il più bel modo di mortificarsi, ed è
anche il più difficile, mentr'è più facile il lasciar in tutto una vivanda
gradevole, che 'l contenersi a provarla e mangiarne poco.
11.
Chi vuol ridursi poi ad una conveniente moderazione nel cibarsi, è bene che
cominci a mancare il cibo a poco a poco, sin tanto che colla sperienza scorga
di potersi sostenere con quella determinata quantità, senza notabile incomodo.
Così S. Doroteo ridusse il suo discepolo S. Dositeo ad una giusta
mortificazione.53 Ma per liberarsi la persona da ogni
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dubbio
ed angustia circa i digiuni o le astinenze, la regola certa è che dipenda dal
giudizio del direttore. Dice S. Bernardo che quelle mortificazioni che si fanno
senza la licenza del padre spirituale, s'imputano più presto a presunzioni
degne di castigo che ad opere degne di premio: Quod sine permissione patris spiritualis fit, praesumptioni
deputabitur, non mercedi (S. Bern., In Reg. c. 49).54 Sia non però
regola generale per tutti, specialmente per le religiose, l'attendere, come già
si è accennato di sopra, a cibarsi parcamente nella cena, quantunque paresse
che vi fosse una grande esigenza; perché nella sera spesso la fame è fame
falsa, e perciò, per poco che si passa la giusta misura, la persona si
ritroverà nella mattina tutta incomodata, colla testa aggravata, con pena di
stomaco, e per conseguenza svogliata e quasi inabile ad ogni esercizio
spirituale.
12.
Circa poi il bere, ben può usarsi la mortificazione di astenersi dal bere fuori
della mensa, senza lesione della sanità, sempreché non vi sia qualche speciale
esigenza della natura, come può avvenire ne' tempi estivi, talmente che il
soffrire quell'arsura possa cagionar nocumento. Del resto S. Lorenzo
Giustiniani anche ne' calori della state non beveva mai fuor di tavola; ed a
chi l'interrogava come potesse sopportar quella sete, rispondea: Ma come potrò soffrire l'arsure del
purgatorio, se ora non tollero quest'astinenza?55 E sappiasi che
gli antichi Cristiani ne' giorni di digiuno asteneansi anche dal
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bere
fuori del pasto che prendeano solamente nella sera.56 Ed oggidì così
praticano i Turchi ne' digiuni della loro quaresima.57 Almeno si
osservi la buona regola che danno universalmente i medici di non bere per
quattro o cinque ore dopo il pranzo della mattina.
13.
Per 3. in quanto finalmente al modo, dice S. Bonaventura: In modo, ut non importune requiratur (cibus), et inordinate sumatur,
sed religiose.58 Dice importune, ciò importa che non si prenda cibo
prima della mensa comune. Questo era il difetto di quel penitente di S. Filippo
Neri, che non sapeva astenersi tra 'l giorno dal mangiar qualche cosa, a cui il
santo poi disse: Figlio, se non ti levi
questo difetto, non acquisterai mai spirito.59 Scrisse
l'Ecclesiastico: Beata terra cuius
principes vescuntur tempore suo! (Eccl. X, 17).60 E beato, dico io,
quel monastero, dove le religiose non prendono alcun cibo fuor del tempo suo,
cioè del pranzo e della cena.
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S. Teresa, avendo inteso che certe sue
monache in un monastero avean cercata la licenza al provinciale di tenere
qualche cosa da mangiare in cella, fece loro una forte riprensione, dicendo: Guardate che cosa andate a domandare! Cosi
verrebbe a distruggersi il tutto.61
14.
Quell'inordinate poi importa che non si prenda il cibo con avidità ed
ingordigia, com'è il mangiare a due ganasce, o pure con tanta fretta che un
boccone non aspetti l'altro: Noli avidus
esse in omni epulatione, è avvertimento dello Spirito Santo (Eccli. XXXVII,
32). Importa ancora che si prenda il cibo col retto fine di mantener le forze
al corpo, acciocché la persona possa esser atta a servire il Signore. Il
mangiare all'incontro per solo diletto, non può scusarsi almeno da colpa veniale;
essendo già stata condannata da Innocenzo XI la proposizione di coloro che
diceano non essere alcun peccato il mangiare e bere per sola soddisfazione
della gola.62 Ciò nondimeno non s'intende che sia peccato il sentir
piacere nel cibarsi, perché, ordinariamente parlando, non è possibile che nel
prendersi il cibo non si sperimenti quel diletto naturale che vi è: s'intende
esser colpa il cibarsi a solo fine di aver quella dilettazione sensuale a modo
di bestie, senza alcun fine onesto. Quindi è che quando vi è il retto fine, noi
possiam prender cibi anche delicati senza alcuna colpa; ed all'incontro possiam
prender cibi vili con colpa, quando si mangia per attacco al piacere. Narrasi
nelle Vite de' Padri (Lib. de Praevid. c. 25) che un santo vecchio, stando
tutti i monaci a mensa, benché ivi le pietanze fossero le stesse, vide che
alcuni cibavansi
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di mele,63 altri di pane, altri di sterco.
Gli fu dato ad intendere con tal visione che cibavansi di mele quei che
prendeano il cibo con santo timore di non offendere la temperanza, e che in
quel tempo teneano la mente sollevata a Dio con atti buoni: si cibavano poi di
pane quei che, sentendo qualche diletto nel mangiare, ne ringraziavano il
Signore: si cibavano finalmente di sterco quei che mangiavano per solo gusto di
mangiare.64
15.
Importa inoltre il modo che non si facciano digiuni indiscreti, talmente che la
persona per l'inedia si renda poi inabile a servir la comunità e ad osservare
le regole; difetto in cui spesso cadono le principianti, che, trasportate da
qualche fervore sensibile che Dio suol loro comunicare ne' principi per
animarle a camminare per la perfezione, sono indiscrete in caricarsi di
penitenze e digiuni; e quindi ne avviene che cadono in qualche infermità, ed
allora o si rendono inabili agli esercizi della comunità o pure per cagione
dell'infermità lasciano tutto. In ogni cosa è necessaria la discrezione. Il
padrone che dà a governare un cavallo al suo servo, tanto lo riprenderà se gli
dà cibo soverchio, quanto se non gli dà il cibo sufficiente, sì che il padrone
non possa servirsene quando vuole. Dicea S. Francesco di Sales alle sue monache
della Visitazione: Una moderata continua
sobrietà e migliore delle astinenze violente, fatte in diverse riprese, tra cui
si frammettono gravi rilasciamenti.65 Oltreché costoro son soggette a
stimarsi più sante delle altre, che non fanno i loro digiuni.66 Non
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ha dubbio che bisogna fuggire l'indiscrezione, ma bisogna
all'incontro avvertire quel che dicea un gran maestro di spirito, cioè che lo
spirito rare volte inganna in eccedere nelle mortificazioni, ma il corpo spesso
inganna in farsi compatire ed esentare da ciò che gli dispiace.67
16.
Buona mortificazione è l'astenersi da' cibi che piacciono alla gola, ma in
qualche modo nuocono alla sanità: astenersi dalle primizie de' frutti ed in
tutto l'anno da qualche loro specie cavata a sorte, ed una o due volte la
settimana lasciare in tutto i frutti, e in ogni giorno lasciar qualche parte di
quelli che si danno a mensa; lasciar qualche vivanda delicata, con solamente
provarla e dire che non le giova, come faceva S. Maria Maddalena de'
Pazzi;68 lasciar qualche particella del piatto più gradita al palato, come
consiglia S. Bernardo: Unusquisque super
mensam aliquid Deo offerat (In Reg. c. 49).69 Frenare per qualche
tempo l'ansia di bere o di
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cibarsi della vivanda già posta innanzi;
astenersi, specialmente le giovani, dal vino, acquavita ed aromi. Queste sorte
di mortificazioni ben possono farsi senza pericolo di superbia e di nocumento
alla sanità; né è necessario il praticarle tutte: si facciano quelle sole che
permette la superiora o il direttore. Del resto certa cosa si è, esser meglio
far poche astinenze e che sieno spesse, che farne grandi e straordinarie a
raro, e poi vivere senza mortificazione.
Circa
poi altre mortificazioni che possono farsi in refettorio, si osservi quel che
si dirà nel capo XXV dove si parlerà del Regolamento di vita.
1
«Questa (la mortificazione della gola) soleva dire essere la prima cosa che
deve fare chi desidera giungere alla perfezione... Quattro mesi avanti la sua
morte.... trattenendosi cogli altri Fratelli... ad uno che gli dimandò qual
fosse la prima cosa alla quale dovesse attendere uno che volesse camminare per
la strada della perfezione, dopo essere stato alquanto sospeso,... risposegli
che prima d' ogni altra cosa doveva mortificare la gola... Ed essendogli
replicato perchè più tosto la gola che qualche altro sentimento, soggiunse...:
«Chi non mortifica la gola non fa niente.» BAGATTA, Vita, parte 2, cap. 8.
2
«Nullus palmam spiritualis certaminis apprehendit, qui non in semetipso prius
per affictam ventris concupiscentiam carnis incentiva devicerit. Neque enim ad
confictum spiritalis agonis assurgitur, si non prius intra nosmetipsos hostis
positus, gulae videlicet appetitus, edomatur.» S. GREGORIUS MAGNUS, Moralia in Iob, lib. 30, cap. 18 (al. 13, al. 26), n. 58. ML 76-555.
3
«Il principal campo di questa mortificazione esterna sono gli altri due sensi,
cioè quello del gusto e quello del tatto.» ROGACCI, Dell' uno necessario, parte 3, cap. 23, n. 9.
4 «Lo stato d' un perfetto vivere religioso,
diceva esser questo: ridursi a tale staccamento da tutte le cose sensibili e
temporali, come si fosse non altro che spirito, e perciò prendere i servigi,
che convien fare al corpo per mantenerlo in vita, non come ristori di
consolazione o materia di diletto, ma come debiti di servitù o miserie di
condannato. Nella maniera che se un monarca, che avesse la signoria e il
governo di mezzo il mondo, fosse obbligato a stregghiare di sua mano un
cavallo, anco più volte al dì, il farebbe con un certo abborrimento e disdegno,
e il più tosto che per lui si potesse, se ne spedirebbe.» BARTOLI, Vita del P. Vincenzo Carafa, settimo
Generale d. C. d. G., lib. 2, cap. 13.
5 «Je ne vous nie pas, (me
répliqua-t-il), que je ne trouve plus de goût aux viandes délicates qu' aux grossières.
Je ne voudrais pas chercher le salé, l' èpicé, et le haut goût, pour en trouver
le vin meilleur; nous autres Savoyards le goûtons assez sans cela; mais comme
l' on est à table pour se nourrir plus que pour satisfaire à la sensualitè, je
prends ce que je connais qui me nourrit mieux, et qui m' est plus convenable;
car vous savez bien qu' il faut manger pour vivre, et non pas vivre pour
manger, c' est-à-dire pour distinguer les morceaux, et avoir l' esprit attentif
aux plats et à la différence et diversité des mets.» CAMUS, éd. Collet, Esprit de S. François de Sales, 5éme
partie, ch. 3.
6 «Heu tristis et lacrimosa mutatio! ut
homo paradisi accola, terrae dominus, caeli civis, domesticus Domini Sabaoth,
frater beatorum spirituum, et caelestium coheres virtutum, repentina se
conversione invenerit et propter infirmitatem iacentem in stabulo, et propter
similitudinem pecorinam indigentem feno, et propter indomitam feritatem
alligatum praesepio.... Hinc egregia creatura gregi admixta est, hinc bestiali similitudine Dei
similitudo mutata est, hinc societas cum iumentis pro consortio angelorum inita
est... Puto quod... si bene advertas, posteriorem ire pecoribus hominem
iudicabis. An non siquidem tibi videtur ipsi bestiis quodam
modo bestialior esse homo ratione vigens et ratione non vivens? Nam pecus
quidem si se ratione non regat, excusationem habet a natura, a qua hoc ei
penitus munus negatum est; non habet homo, cui, ab ipsa, speciali praerogativa
donatum est. Merito proinde eo ipso censetur homo egredi, et post ire
gregalibus animantibus, quod solum hoc animali conversatione degeneri iura
naturae transgrediens, rationis compos rationis expertia moribus et affectibus
imitatur.» S. BERNARDUS, In Cantica, serm.
35, nn. 5, 6, 8. ML 183-964, 965,966. «Quid tibi post mortem de his omnibus
(temporalibus bonis et meritis), nisi sola fortassememoria relinquetur? et hoc
quoque solummodo super terram... Quod si hic est finis omnium laborum tuorum,
ut pace tua dixerim, quid habes amplius iumento? Siquidem et de tuo palefrido
(equo scilicet magno et insigni), cum mortuus fuerit, perhibebitur quia bonus
fuit. Simul vide quid tibi ante tribunal illud terrificum respondendum sit de
eo quod acceperis in vano animam tuam, et animam talem, si tamen inveniaris nihil
egisse amplius de immortali et rationali spiritu tuo, quam quodvis pecus de
suo... Quid, quaeso, dignum te iudicabis, qui, factus ad imaginem factoris,
tantae in te maiestatis non defendis dignitatem; et tu, homo cum esses, honorem
tuum non intelligens, comparatus iumentis insipientibus, et similis factus sis
illis! dum nil spirituale videlicet aut aeternum elaboraveris, sed instar
belluini spiritus, qui ut a corpore, ita cum corpore dissolvitur, solis fueris
contentus corporalibus ac temporalibus bonis.» IDEM, Epistola
104, ad Magistrum Gualterum de Calvo Monte, n. 2. ML 182-239.
7
Puto, dicerent iumenta, si loqui fas esset: Ecce
Adam factus est quasi unus ex nobis (Gen. III, 22).» S. BERNARDUS, In Cantica, serm. 35, n. 3. ML 183-964.
8
«E' impossibile che l' uomo non corretto nel mangiare conservi l' innocenza,
perduta da' nostri primi parenti, perchè mangiarono del pomo vietato.» Ammaestramenti e sentenze notabili di S. CATERINA
DA SIENA, raccolte dal P. Paolo Frigerio,
dell' Oratorio, n. 27. Opere della
Santa, IV, Siena, 1707, pag. 379.- «Impossibile sarebbe a quegli che sta in
molta conservazione, in delicatezza di corpo, in prendere disordinatamente i
cibi, e senza la vigilia e l' orazione, conservare la mente sua pura.» S.
CATERINA DA SIENA, Il Dialogo, cap.
159: Della eccellenza degli obedienti, e
della miseria degli inobedienti, e della miseria degli inobedienti, i quali
vivono nello stato della Religione. Opere IV, Siena, 1707, pag. 304.
9
«Est etiam nunc apud nos Athanasius Isauriae presbyter, qui in diebus suis
Iconii rem terribilem narrat evenisse. Ibi namque, ut ait, quoddam monasterium?
dicitur, in quo quidam monachus magnae aestimationis habebatur. Bonis quippe
cernebatur moribus, atque in omni sua actione compositus; sed sicut ex fine res
patuit, longe aliter quam apparebat fuit. Nam cum ieiunare se cum fratribus
demonstraret, occulte manducare onsueverat, quod eius vitium fratres omnino
nesciebant. Sed corporis superveniente molestia, ad vitae extrema perductus est.
Qui cum iam esset in fine, fratres ad se omnes qui monasterio aderant
congregari fecit. At illi tali, ut putabant, viro moriente, magnum quid ac
delectabile se ab eo audire crediderant. Quibus ipse afflictus et
tremens compulsus est prodere cui hosti traditus cogebatur exire. Nam dixit:
«Quando me vobiscum credebatis ieiunare, occulte comedebam, et ecce nunc ad
devorandum draconi traditus sum, qui cauda sua genua pedesque colligavit, caput
vero suum itra meum os mittens, spiritum meum ebibens extrahit.» Quibus dictis
statim defunctus est, atque ut poenitendo liberari potuisset, a dracone quem
viderat exspectatus non est.» S. GREGORIUS MAGNUS, Dialogi, lib. 4, cap. 38. ML 77-393.
10 «Quadam vero die, una Dei famula ex
eodem monasterio virginum (cui nempe invigilabat Equitius abbas) hortum
ingressa est: quae lactucam conspiciens concupivit, eamque signo crucis
benedicere oblita, avide momordit: sed arrepta a diabolo protinus cecidit.
Cumque vexaretu, eidem patri Equitio sub celeritate nuntiatum est, ut veniret
concitus et orando succurreret. Moxque hortum idem Pater ut ingressus est,
coepit ex eius ore quasi satisfaciens ipse qui hanc arripuerat diabolus
clamare, dicens: «Ego quid feci? ego quid feci? Sedebam mihi super laactucam;
venit illa, et momordit me.» Cui cum gravi indignatione vir Dei praecepit ut discederet, et locum in
omnipotentis Dei famula non haberet. Qui protinus abscessit, nec eam ultra
contingere praevaluit.» S. GREGORIUS MAGNUS, Dialoghi, lib. 1, cap. 4. ML 77-168, 169.
11 Vincentius BELLOVACENSIS, Speculum
historiale, lib. 7, cap. 108.- «In eodem... monasterio (Clarae Vallis)
exstitit... quidam monachus, nomine Acardus...genere nobilis, sed conversatione
nobilior... Plurimorum coenobiorum initiator atque exstructor fuit. Qui dum adhuc esset in
probatione... beatissimus Bernardus una die... Acardum
cum aliis duobus novitiis traxit in partem, et praemonuit... ita loquens:
«Futurum est, inquit, ut novitius ille (designavit autem eum ex nomine) ante
diem crastinum furtive recedat. Vos igitur vigilate... ut
fugientem cum rapinis effugere non sinatis...» Profunda vero nocte duo ex
illis, cum fugitivum in lecto firmiter dormientem conspicerent, tunc et ipsi
dormire coeperunt... Acardus... somnolentiae spiritum... repellebat... Cumque iam prope esset ut
signum ad vigilias pulsaretur, ecce duo quasi gigantei aethiopes... per ostium
domus visibiliter ingrediuntur. Is vero qui praecedebat, gallinam assatam in
spico portabat. Porro in ipso veru coluber ingens per caput et caudam infixus erat,
qui gallinam.... hinc inde cingebat. Cum tali... ferculo accedit ad locum
novitii, et gallinam fumantem naribus applicat dormientis. Quo statim
expergefacto, daemones egrediuntur... Ille vero quantocius surgit... veniensque
ad ostium armarii quod erat in claustro... moliebatur firmaturam effringere ac
secum tollere libros. Porro... Acardus... socios excitat... Recedentem....
insequentes, reperiunt illum pessulum ostii concutientem... Per ostia pomarii
ruens, murorum tandem septis retinetur atque reducitur. In crastinum autem
cum.. respicere nollet, dimissus est... ut abiret in locum
suum. Eadem vero die arreptus a diabolo dementiam incurrit, et usque ad mortem
furere non cessavit. Haec nobis novitiis ipse domnus Acardus, cum iam esset
aetate decrepitus, plena fide narravit, utpote qui omnia noverat et perspexerat
oculis suis.» S. Bernardi Vita prima, lib. 7, Fragmenta ex HERBERTI libris
de Miraculis Cisterciensium monachorum, n. 1. ML 185-453, 454, 455.
12
«Hoc me docuisti, (Domine), ut quemadmodum medicamenta, sic alimenta sumpturus
accedam.» S. AUGUSTINUS, Confessiones,
lib. 10, cap. 31, n. 44. ML 32-792.
13 «Acies (rationis) hebetatur ex
immoderantia cibi et potus. Et quantum ad hoc, ponitur filia gulae hebetudo sensus
circa intelligentiam, propter fumositates ciborum perturbantes caput. Sicut et
e contrario abstinentia confert ad sapientiae perceptionem: secundum illud
Eccl. II, 3: Cogitavi in corde meo
abstrahere a vino carnem meam, ut animum meum transferrem ad sapientiam.»
S. THOMAS, Summa Theol., II-II, qu.
148, art. 6, c. - «Hebetudo sensus quantum ad eligibilia communiter invenitur
in omni peccato. Sed hebetudo sensus circa speculabilia maxime procedit ex
gula.» Ibid. ad 1.
14 «Corpus... eget alimento, non
deliciis; corpus opus habet ut alatur, non ut ingringatur et diffluat.. Nam pro robusto fit
imbecillius, pro firmo mollius, pro salubri valetudinarium... turpe pro
formoso.. tardumque et hebes pro celeri.. Si autem corpus ita perit,
quomodo afficietur anima, quanto tumultu, quantis fluctibus, quanta tempestate
erit referta? Propterea quidem certe ad omnia fit inutilis, et nec dicere, nec
audire, neque consultare neque aliquid agere eorum quae decet facile poterit:
sed sicut gubernator, si tempestas vicerit artem, cum ipsa nave et vectoribus
submergitur, ita etiam anima cum corpore demergitur in gravem abyssum
insensibilitatis.... Quid rursus dixeris de alia illorum insania, de
re, inquam, venerea? Nam ea quoque ex hoc fonte manat: et sicut equi in feminas
durore perciti, ita ebrietatis oestro stimulati, omnes insiliunt, stolidius et
furiosius quam illi exsultantes, et multa alia indecore facientes, quae nefas
quidem est dicere.. Sed non est eiusmodi is qui non dat operam deliciis; sed sedet in
porto, aliorum videns naufragia.» S. IO. CHRYSOSTOMUS, In Epist. I ad Cor. hom. 39, n. 9. MG
61-345, 346, 347.
15
«Panem ipsum cum mensura studebo sumere, ne onerato ventre stare ad orandum
taedeat.» S. BERNARDUS, In Cantica, sermo
66, n. 6. ML 183-1097.
16
«Cum venae fuerint vino ingurgitatae, toto in capite palpitantes, sic surgenti
a mensa quid aliud libet, nisi dormire? Si autem ad vigilias surgere indigestum
cogis, non cantum, sed planctum potius extorquebis.» S. BERNARDUS, Apologia ad Guillelmum, cap. 9. n. 21.
ML 182-911.
17
«Pretiosa siquidem divina consolatio est, nec omnino tribuitur admittentibus
alienam.» GAUFRIDI Abbatis Declamationes
ex S. BERNARDI Sermonibus, § 55,
n. 65. ML 184-472.- «Nimirum advertere potest in omnibus fere religiosis
congregationibus viros repletos consolatione, superabundantes gaudio,...
ferventes spiritu... quibus amabilis disciplina, dulce ieiunium, vigilae
breves, labor manuum delectabilis, et universa denique conversationis huius
austeritas refrigerium videatur. Contra sane invenire est homines pusillanimes
et remissos, deficientes sub onere... quorum, obedientia sine devotione, sermo
sine circumspectione, oratio sine cordis intentione... Nonne tibi horum vita
inferno penitus appropinquare videtur, dum, intellectu affectui et affectu
intellectui repugnante, necesse habent mittere manum ad opera fortium, qui cibo
fortium minime sustentatur, socii plane tribulationis, sed non consolationis?
Exsurgamus, obsecro, quicumque huiusmodi sumus,.... abiicientes perniciosam
tepiditatem, etsi non quia periculosa est,... certe quia molestissima, plena
miserae et doloris, inferno plane proxima, et umbra mortis iure censetur.» S.
BERNARDUS, In Ascensione Domini, sermo
5, n. 7. ML 183-318, 314.- S. Bernardo tratta o tocca spesso questo argomento;
per esempio: In Psalm. Qui habitat, sermo
9, n. 6, ML 183-219: «Ecce numera tribulationes. Secundum multitudinem earum
consolationes eius laetificabunt animam tuam: dummodo ad aliam non
convertaris.» Cf. Liber de diligendo Deo,
cap. 3 (in fine), cap. 4 (a principio): ML 182-980, 981; in Nativitate Domini, sermo 4, n. 5: ML
183-130; de Adventu Domini, sermo 6,
ML 183-54; in Vigilia Nativitatis, sermo
4, n. 1. ML 183-100.
18 «Esus carnium, et potus vini, ventrisque
saturitas, seminarium libidinis est.» S. HIERONYMUS, Adversus Iovinianum lib. 2, n. 7. ML 23-297.
19 «Impossibile namque est saturum
ventrem pugnas interioris hominis experiri; nec bellis robustioribus attentari
dignum est eum qui potest deiici leviore conflictu.» IO. CASSIANUS, De coenobiorum institutis, lib. 5, cap.
13. ML 49-229.
(S. Alfonso aggiungendo la particella negativa, ha variato il concetto. Il
senso inteso da Cassiano apparisce più chiaro, se si attende al titolo del
capitolo: Quod nisi gulae fuerimus vitio
liberati, nequaquam possimus ad pugnas interioris hominis pervenire. In
altre parole: la vittoria sulla gola è la preparazione indispensabile a più
alti e più duri combattimenti. Del resto, Cassiano non passa sotto silenzio il
nesso tra la gola e la lussuria; specialmente nel 5 libro della stessa opera,
intitolato «de spiritu gastrimargiae», il
capitolo 6 comincia così: «Quibuslibet escis refectus venter seminaria luxuriae
parit.» Ibid.,
col. 217.)
20 «In Eccli. 37: In multis escis non
deerit infirmitas (In multis enim escis
erit infirmitas, Eccli. XXXVII, 33); valet etiam hoc ad custodiendam vitam
gratiae: sobrietatem enim comitatur continentia, unde super Matth. 4 dicit Glossa: Diabolus victus de gula non tentat de libidine. Si tentetur
aliquis de ira, vel luxuria, vel loquacitate post excessum in cibo et potu,
facile acquiescit: non est sic, si sobrietatem servaverit.» S. Thomae Aquinatis Opera omnia, tom.
17, Romae, 1570, Opusculum medium inter 40 et 41: De eruditione principum, lib. 5, cap. 18, f. 249, col. 4.- L' autore non è S. Tommaso,
ma GUGLIELMO PERALDO (dal luogo di nascita Perault,
oggi Peyraud), «Lugdunensis
(religiosae professionis titulo), ex eodem Ordine Praedicatorum, qui eodem
tempore quo Doctor Angelicus florebat.» S. Thomae Opera omnia (edizione Leonina), tom. 1, Romae 1882, Dissertatio
XXII, cap. 4, p. CCLVIII.
21
«Diceva che Iddio, dandoci tutto il mondo, e quanto in esso è, per uso
necessario del vivere, e di vantaggio ancora per delizie da dilettarci, non
solemente l' ha fatto per usar co' suoi un atto di sua liberalità e
magnificenza, offerendoci in dono un mondo intero di beni, ma perchè noi
avessimo onde esser grati e liberali con lui, donandogli il suo medesimo dono:
e anco perchè l' amor nostro verso lui avesse con che mostrarsi puro e senza
niuno interesse, mentre potendo noi possedere Dio e le cose create, non solo
non vogliamo lasciar lui per queste, ma in segno di non pregiare altro che lui,
d' ogni altra cosa che non è lui, volontariamente ci spogliamo, ricchi solo
della sua grazia, contenti del suo amore, e di non altro beati che della
speranza di viver seco in eterno.» BARTOLI, Vita,
lib. 2, cap. 13.
22 «De cibis vero et potu taceo, cum
etiam languentes monachi aqua frigida utantur, et coctum aliquid accepisse,
luxuria sit.» S.
HIERONYMUS, Epistola 22, ad
Eustochium, n. 7. ML 22-398.
23
«Praeter duo paxamacia... nihil sibimet amplius unusquisque praesumit.» CASSIANUS, De coenobiorum institutis,
lib. 4, cap. 14. ML 49-169.- «Paxamacium», o «paxamidium», era un piccolo pane di sei
oncie incirca: due «paxamacia» facevano poco meno di una libbra di dodici
oncie.- Presso lo stesso Cassiano
(Collatio 2, cap. 19: ML 49-551, 552), l' abbate Mosè dice: «(Maiores nostri)
discutientes continentias diversorum qui vel solis leguminibus, vel oleribus
tantum, vel pomis vitam iugiter exigebant; praeposuere cunctis illis
refectionem solius panis, cuius aequissimum modum in duobus paximaciis
statuerunt, quos parvulos panes vix librae unius pondus habere certissimum
est.» L' abbate Cheremone (Collatio 12,
cap. 15: ML 49-896) richiede dal monaco, il quale voglia raggiunger presto la
perfezione della castità, «(ut) duobus tantum paximaciis (sit) quotidiana
refectione contentus, aquae (etiam) satietate subtracta.»- L' uso però non fu
uniforme nè presso tutti, nè dovunque, tanto per la qualità quanto per la
quantità dei cibi. S. GIROLAMO, (Epist. 22,
n. 35: ML 22- 420), parlando del tenor di vita dei cenobiti dell' Egitto,
scrive: «Vivitur pane, leguminibus et oleribus, quae sale solo condiuntur.» A Marcella poi (Epistola 43, ML
22- 479): «Cibarius panis, et olus manibus nostris irrigatum, et lac deliciae
rusticanae, viles quidem, sed innocentes cibos praebent.» A Paolino (Epistola 58, ibid. col. 583): «Sit vilis et vespertinus cibus, olera et
legumina: interdumque pisciculos pro summis ducas deliciis.» Dà però questo
avviso non ai soli monaci, ma a tutti: «Et ex vilissimis cibis vitanda satietas
est.» (Contra Iovinianum, lib. 2, n. 12,
ML 23-302.)- Del resto, lo stesso Cassiano,
De coenobiorum institutis, lib. 5, intitola così il cap. 5: Quod non possit ab omnibus uniformis
ieiuniorum regula custodiri; e prosegue: «Nec robur unum corporibus inest,
nec, sicut ceterae virtutes, animi solius rigore (ieiunia) parantur;» quindi
dichiara, secondo la tradizione dei Padri, «diversum esse refectionis quidem
tempus ac modum et qualitatem, pro impari scilicet corporum statu, vel aetate
ac sexu:» giacchè «non omnibus infusorum leguminum esus convenit enervatus, nec
cunctis purorum olerum habilis est parcimonia, nec universis sicci panis
refectio castigata (i. e. certae mensurae legibus astricta) conceditur. Alius
quantitate librarum duarum saturitatem non sentit; alius librae unius, sive
unciarum sex (i. e. dimidiae librae) edulio praegravatur.» (ML 49-209 et seq.).
24
«Si diede (fin dall' età di tredici anni incirca) a fare molti digiuni formali
fra settimana, e per ordinario digiunava almeno tre dì della settimana, cioè
ogni sabbato ad onore della beatissima Vergine: i venerdì sempre in pane ed
acqua, in memoria della Passione del Salvatore, ed in questo digiuno la mattina
prendeva solo tre fette di pane infuso nell' acqua, e niente altro, e la sera
per colazione una sola fetta di pan bruscato pur bagnato nell' acqua; i
mercoledì gli digiunava or in pane ed acqua, ed ora secondo l' ordinario uso
della Chiesa.» CEPARI, Vita, parte 1,
cap. 7.
25
«Rigorosa poi quanto mai altrove fu qui (nel Giappone) la maniera del vivere
che intraprese. Aveva ineso che i bonzi si accreditavano appresso la gente
fingendo una totale astinenza dal vino, dalle carni, da' pesci, e da'
latticini; ed egli per evitare ogni ombra di scandalo si pose ad osservare in
realtà ciò che in sola apparenza osservavano i bonzi; onde in tutto il tempo
che faticò sì smisuratamente nel Giappone, non usò di cibarsi che una volta al
giorno, e tutto il suo pasto era semplice acqua per bere, e per mangiare una
piccola misura di riso, a cui aggiungeva talvolta per istraordinario ristoro
alcun frutto, o alcune radiche d' erbe; e queste sì amare, che certi Giapponesi
rammentavano al Padre Melchior Nugnez, ch' era gran penitenza il solo
assaggiarle.» G. MASSEI S. I., Vita, lib.
3, cap. 1.- «Pro pane, oryza: pro obsonio, pomis fere et herbis barbaro quodam
modo conditis, trahebat vitam.» TURSELLINUS, Vita, lib. 4, cap. 2 (in principio).
26 «Ses jeûnes étaient continuels, l'
eau et le pain faisaient sa nourriture, et ses repas délicieux consistaient à
prendre quelquefois un peu de lait, et quelques herbes sans aucun
assaisonnement. Il n' usait ni de vin, ni de viade, ni d' œufs, ni de poisson.»
DAUBENTON, S. I., Vie, liv. 5, § Mortification.
27 «Iubebat concoqui ollam ciceribus vel
fabris (lege fabis) plenam, quae
integrae septimanae sufficiebant; et singulis diebus media hora ante meridiem
coquus ex illis igni superponebat quantum satis erat futurae refectioni;
apponebat dein unicuique scutellam suam; atque his factum omnibus erat satis.» IOANNES A S. MARIA, Vita, (ex Chronico Provinciae S. Ioseph
Discalceatorum O. S. F.), cap. 3, n. 25, inter Acta Sanctorum Bollandiana, die 19 octobris.
28
«I medici coi superiori vollero che andasse in Ischia a sperimentare le
beneficenze di quei bagni salutari: ed al suo ritorno gli interdissero senza
riserva quel metodo di vitto sì severo di solo pane e poche frutta o erbaggi,
da lui in assai scarsa quantità usato per ben ventiquattro anni. Ubbidì il
beato prontamente; ma l' industria della sua penitenza, superando le attenzioni
dell' altrui carità, gli fece cambiare questo genere di vitto in un altro assai
più mortificativo. Prendeva una moderata tazza di scondito brodo, che con del
vino, dell' aceto o dell' acqua, sovente ancora con dell' assenzio o della
cenere rendeva stomachevole all' eccesso; ed inzuppatovi poco pane, non
concedeva per il resto del giorno altro rifocillamento alla sposata ed inferma
natura.» DIODATO DELL' ASSUNTA, Saggio
istorico della vita, Napoli, 1789, art. VIII, pag. 55, 56.- S. Giov.
Giuseppe della Croce morì nel 1734 e fu canonizzato nel 1839 insieme col nostro
santo Autore.
29
«Sobrietas in tribus consistit: in qualitate, in quantitate, et modo.» De profectu Religiosorum, lib. 2, cap.
47. Inter Opera S. Bonaventurae, Lugduni,
1668, tom. 7, pag. 595, col. 2.- L' autore è il B. DAVIDE d' AUSBURGO.- Vedi Appendice, 10.
30
«In qualitate: ut non delicata et pretiosa aut sumptuosa requirat, sed
simplicia, quibus valeat sustentari natura et gula non irritari, et quae de
facili possunt haberi.» Ibid.
31
«Verum quam turpe sit pauperibus hominibus cibaria quaerere lautiora et
appositis non esse contentos, de modo praeparandi cibum disponere, aut quomodo
praeparetur requirere, potum vel cibum aliquem in speciali laudare ut de eisdem
amplius apponatur, aut suas inter extraneos medicinas ostendere, quis sanae
mentis ignorat?» Speculum disciplinae, pars
1, cap. 32, n. 4. Opera S. Bonaventurae, ad
Claras Aquas, VIII, 1898, p. 614.- Quale parte abbia avuto S. Bonaventura nella
composizione di questa opera del suo socio e segretario, Fr. BERNARDO DA BESSA,
vedi nella nostra Appendice, 10.
32
«Soleva ancora a tavola appigliarsi sempre a quella vivanda che gli sembrava
peggiore.» CEPARI, Vita, parte 1,
cap. 7.
33 «Fortasse autem Gnosticus quispiam,
exercitationis quoque gratia abstinuerit a carnibus, et ne caro nimis luxuriet,
et nimio impetu feratur ad rem veneream. «Vinum enim, inquit Androcydes, et
carnis ingurgitationes, corpus quidem robustum efficiunt, animam vero
debiliorem.» CLEMENS ALEXANDRINUS, Stromata,
lib. 7, cap. 6. MG 9-447.- Questo Androcide non è quel filosofo Pitagorico di cui parla
altrove Clemente, ma un medico, a quanto pare, di qualche nome.
34
«Carnem cuiquam monacho nec sumendi nec gustandi est concessa licentia...
servato tamen moderamine pietatis erga aegrotos. Quod si quis monachus
violaverit, et contra sanctionem regulae usumque veterum vesci carnibus
praesumpserit, sex mensium spatio retrusioni (i. e. inclusioni in carcere) et
poenitentiae subiacebit.» Decretum Gratiani, pars 3, distinctio 5, c. 32.
35 «Abstinebo a carnibus, ne dum nimis
nutriunt carnem, simul et carnis nutriant vitia.» S. BERNARDUS, In Cantica, sermo 66, n. 6. ML 183-1097.
36
Cui vae? cuius patri vae? cui rixae? cui
foveae? cui sine causa vulnera? cui suffusio oculorum? Nonne his qui commorantur in
vino, et student calicibus epotandis? Prov.
XXIII, 29, 30.
37 «Impius... vae habet... quia...
aeterna damnatio reprobum sequitur.» S. GREGORIUS MAGNUS, Moralia in Iob, lib. 9, cap. 56 (al. 41, al. 32). ML
75-905, 906.- Altrove però S. Gregorio intende quel minaccioso vae delle tribolazioni dei giusti nella
vita presente: «Carmen... et vae continent (divina eloquia), quia sic de spe gaudium praedicant, ut in
praesenti tamen pressuras atque angustias incident (in Bibliotheca Veterum Patrum: indicent). Carmen
et vae discipulis praedicabat Dominus, cum dicebat: Haec locutus sum vobis, ut in me pacem habeatis; in mundo pressuram
habebitis (Ioan. XVI, 33).» Moralia in Iob, lib.
26, (al. 11, al. 12), n. 26. ML 76-363.- Più precisamente, Homiliarum in Ezechielem lib. 1, hom. 9, n. 33: «Vae autem in
Scriptura sacra saepius de aeterno
luctu quam praesenti solet intelligi. Unde scriptum est: Vai impio in malo... (Is. III, 11). Et
beatus Iob loquitur, dicens: Si impius
fuero, vae mihi est; si autem iustus, non levabo caput, saturatus afflictione
et miseria (Iob, X, 15). Iustorum enim afflictio temporalis est. Vae ergo
quod dixit, a temporali afflictione distinxit, qui et iustum afflictionem, et
impium vae habere perhibuit. Per semetipsam quoque Veritas dicit: Vae mundo a scandalis (Matth. XVII,
7)...» ML 76-885.
38 «Hoc primum moneo, hoc obtestor, ut
sponsa Christi vinum fugiat pro veneno. Haec adversus adolescentiam prima arma
sunt daemonum. Non
sic avaritia quatit, infiat superbia, delectat ambitio. Facile
aliis caremus vitiis; hic hostis nobis inclusus est. Quocumque pergimus,
nobiscum portamus inimicum. Vinum et adolescentia, duplez incendium voluptatis
est. Quid oleum
fiammae adiicimus? Quid ardenti corpusculo fomenta ignium ministramus?» S.
HIERONYMUS, Epistola 22, ad
Eustochium, n. 8. ML 22- 399.
39
«Quidquid etiam in conversatione fratrum minime communis usus recipit vel
exercet, omni studio, ut iactantiae deditum, declinemus.» IO.
CASSIANUS, De coenobiorum institutis, lib.
11, cap. 18. ML
49-419.
40
«Dicea (a' suoi) che a tavola, massimamente dove si convive, si dee mangiare d'
ogni cosa, e non dire: Questo non voglio, o questo non mi piace.» BACCI, Vita, lib. 2, cap. 14, n. 6.
41
«Esortava che si fuggisse ogni singolarità, origine per lo più e fomento di
superbia, massimamente spirituale.» BACCI, Vita,
lib. 2, cap. 17, n. 26.
42
«In mensa nihil reiiciebat quod a vitae religiosae instituto legibusque non
abhorrebat, sed cibum ita modice sobrieque sumpsit, uti gustare potius quam
edere videretur. Atque ita, existimo, fracto cornu superbiae, per
sobrietatem... voluptatem elisit.» DANIEL monachus,
Vita S. Ioannis Climaci (Isagoge ad Scalam paradisi, cap. 3). MG 88-599,
43 «Turpe est ei, qui se supra ceteros
iactat, si non plus ceteris aliquid agat, per quod ultra ceteros appareat... Non melius vivere, sed
videri vivere gestit... Plus sibi blanditur de uno
ieiumio, quod ceteris prandentibus facit, quam si cum ceteris septem septem
dies ieiunaverit.» S. BERNARDUS, Tractatus
de gradibus superbiae, cap. 14, n. 42. ML 182-965.
44 «Fr.
Iacobus de Caiatica, O. P., testis citatus et iuratus.. dixit «quod ipse
vidit dictum Fr. Thomam.... Erat... magnae sobrietatis, numquam petens
speciales cibos, sed tantum contentus erat iis quae apponebantur sibi, et illis
temperate et sobrie utebatur.» Processus
de vita S. Thomae Aquinatis, cap. 5, n. 42: inter Acta Sanctorum Bollandiana, die 7 martii.- Ibid., n. 45: testimonium Fr.
Petri de S. Felice, O. P., qui «fuit discipulus eius (S. Thomae)»; n. 47,
testimonium Fr. Corradi de Suessa, O.
P.- Ibid. cap. 7, n. 59: testimonium Guilhelmi de Tocco, O. P.
45
«Proseguì per quanto visse a mescolar terra e cenere nel grosso e pochissimo
cibo che prendeva, sin' a parere ch' havesse perduto affatto il senso del
gusto. Non ordinò mai, nè anco ammalato, vecchio e Generale, vivanda o
condimento particolare per sè; non mostrò mai d' appetire o di gustar d' alcun
cibo, quantunque bisognoso ne fosse, nè si querelò mai di vitto, nè di vino
male stagionato, di cattivo sapore, o di pessima qualità.» NOLARCI, S. I., Vita, cap. 24.
46
«In quantitate: ut non nimis et saepius quam decet, sed temperate; ut sit
refectio corpori, non onus.» De profectu Religiosorum, lib. 2, cap. 47. Opera (Lugduni,
1668), tom. 7, pag. 595. Autore: il B. DAVIDE D' AUSBURGO. - Vedi Appendice, 10.
47 «Sit tibi moderatus cibus, et numquam
venter expletus. Plures quippe sunt, quae cum vino sint sobriae, ciborum
largitate sunt ebriae. Ad orationem tibi nocte surgenti, non indigestio ructum faciat, sed
inanitas.» S. HIERONYMUS, Epistola 22,
ad Eustochium, n. 17. ML 22-404.
48 «Parcus cibus, et venter semper
esuriens, triduanis ieiuniis praefertur; et multo melius est quotidie parum,
quam raro satis sumere.» S. HIERONYMUS, Epistola 54,
ad Furiam, n. 10. ML 22- 555.- «Quale illud ieiunium est, aut qualis
illa refectio post ieiunium, cum pridianis epulis distendimur....? Dumque
volumus prolixioris inediae famam quaerere, tantum voramus, quantum vix
alterius diei nox digerat.» IDEM, Adversus Iovinianum, lib. 2, n. 12. ML
23-302.
49 «Sed et ex vilissimis cibis vitanda
satietas est.» S. HIERONYMUS, Adversus
Iovinianum, l. c.
50 «Quando comedis, cogita quod statim
tibi orandum, illico et legendum sit.» S. HIERONYMUS, Epistola
54, ad Furiam, n. 11. ML 22-555.
51 «Dicebat unus ex Patribus: «Quia
invenitur homo multum comedens, et adhuc esuriens se continet ne satietur;
alter autem parum comedit, et satiatur. Qui ergo multum comedit, et adhuc
esuriens se continet, maiorem mercedem habet quam ille qui parum comedit et satiatur.»
De vitis Patrum, lib. 3, auctore probabili RUFFINO, n. 48. ML
73-767. Cf. De vitis Patrum, lib. 5,
auctore graeco incerto, interprete Pelagio,
libell. 10, n. 99, ML 73-931; lib. 7, auctore graeco incerto, interprete Paschasio, cap. 1, n. 3. ML 73-1026.
52
«Quidam seniorum cum reficientem me, ut adhuc paululum quid ederem, hortaretur,
iamque ne dixissem non posse, respondit: «Ego iam sexies, diversis
advenientibus fratribus, mensam posui, hortansque singulos cum omnibus cibum
sumpsi, et adhuc esurio: et tu primitus nunc reficiens, iam te dicis non posse?
(Titolo del capitolo: De continentia
senis cuiusdam, qui sexies ita frugaliter cibum sumpsit, ut servaret esuriem.)
IO. CASSIANUS, De coenobiorum institutis,
lib. 5, cap. 25. ML 49-244, 245.
53
«Quando autem edendi tempus advenerat, dicebat ei (Dorotheus): «Comede ad
satietatem; tantummodo observa mihi quantum comederis.» Et
abiens comedit, et venit dicens ipsi: «Comedi unum panem cum dimidio.» Erat
autem panis quatuor librarum. Ait illi Dorotheus: «Num bene te habes,
Dosithee?» Respondit ille: «Etiam, Domine, bene habeo.» Tum ait Dorotheus:
«Numquid esuris?»- «Nequaquam, domine, inquit ille; minime esurio.»- «Igitur,
infert Dorotheus, comede panem unum et quartam alterius partem: aliam vero
quartam partem in duas partes dividito, quarum alteram comede.» Et fecit sic.
Tum ait ei Dorotheus: «Esurisne, Dosithee?» Respondit: «Etiam, Domine, modicum
esurio.» Post paucos dies, iterum dicit illi: «Quomodo habes, Dosithee? Numquid
mansisti famelicus?» - «Nequaquam, Domine, sed per preces tuas bene habeo.» -
«Igitur, inquit, tolle aliud dimidium quartae partis.» Et fecit sic. Iterum
post paucos dies dicit ipsi: «Quomodo nunc te habes? numquid esuris?»
Respondit: «Bene habeo, Domine.» Dicit illi: «Divide quartam illam aliam partem
in duas partes, et dimidium comede, alterum dimidium relinque.» Et fecit
similiter: sicque Deo cooperante, paulatim ex sex libris constitit in octo
unciis. Etenim vel in comedendo etiam valet assuetudo.» Vita S. Dosithei, auctore coaetaneo anonymo, n. 7: inter Acta Sanctorum Bollandiana, die 23 februarii.
54
«Non legistis in Regula vestra, quod quidquid sine voluntate vel consensu
patris spiritualis fit, vanae gloriae deputatur, non mercedi?» S. BERNARDUS, In Cantica, sermo 19, n. 7. ML 183-866. - «His diebus augeamus nobis aliuquid ad solitum pensum
servitutis nostrae... ut unusquisque aliquid propria voluntate cum gaudio
Sancti Spiritus offerat Deo... Hoc ipsum tamen quod unusquisque offert, abbati
suo suggerat, et cum eius fiat oratione et voluntate: quia quod sine
permissione patris spiritualis fit, praesumptioni deputabitur et vanae gloriae,
non mercedi. Ergo
cum voluntate abbatis omnia agenda sunt.» Regula
S. BENEDICTI, cap. 49, de
Quadragesimae observatione. ML 66-736, 737, 738.
55
«Nihil (dicam) de sitis tolerantia, qua numquam sic torreri visus est, ut vel
per ieiunium, vel manuum operationem, vel peregrinationem, vel valetudinem
adduci potuerit ut potum deposceret; qui si invitaretur a fratribus, dicebat:
«Quo igitur pacto feremus purgatorii calores, si parvam hanc sitim ferre non
possumus?» Vita (Operibus eius
praemissa), auctore Bernardo IUSTINIANO,
cap. 2.
56
«Vidi ego diversorium sanctorum Mediolani... Romae etiam plura cognovi... Ieiunia
etiam prorsus incredibilia multos exercere didici, non quotidie semel sub
noctem reficiendo corpus, quod est
usquequoque usitatissimum, sed continuum triduum vel amplius saepissime
sine cibo ac potu ducere.» S. AUGUSTINUS, De moribus Ecclesiae catholicae et de
moribus Manichaeorum, lib. 1, cap. 33, n. 70. ML 32-1340.
«Quosdam de populo videt sacerdos
Libandum
sibi poculum offerentes:
Ieiunamus, ait: recuso potum.
Nondum
nona diem resignat hora,
Numquam conviolabo ius dicatum,
Nec mors ipsa meum sacrum resolvet:
Sic Christus sitiens crucis sub hora
Oblatum sibi poculum recusans,
Nec
libare volens, sitim peregit.» Aurelius PRUDENTIUS,
Liber Peristephanon, hymnus VI,
versus 52-60. ML 60.416.
57
Nel nono mese del calendario arabico, il qual mese vien chiamato Ramadan o Ramazan, fanno i Musulmani il loro digiuno, espressamente comandato
dal Corano. Durante questo mese, dallo spuntar del giorno fino al tramonto del
sole, debbono astenersi dal mangiare, dal bere, dall' odorare i profumi, e da
ogni altra soddisfazione non necessaria. Per compenso però passano la notte a
gozzovigliare; i più austeri ricominciano il digiuno a mezzanotte.
58
«In modo, ut non importune requiratur, nec impetuose et indisciplinate et
inordinate sumatur: sed modeste, mature, et religiose.» B. DAVIDE D' AUSBURGO
O. M., De profectu Religiosorum, lib.
2, cap. 47. Inter Opera S. Bonaventurae, Lugduni,
1668, VII, 595.- Vedi Appendice, 10.
59
«Non volea che quelli di Congregazione domandassero vivande particolari, se non
per bisogno, ma si contentassero di quello che Dio manda loro; dispiacendogli
ancora grandemente che si mangiasse fuor di pasto; onde ad uno che avea questa
consuetudine, disse: «Tu non avrai mai spirito, se non t' emendi di questo.»
BACCI, Vita, lib. 2, cap. 14, n. 6.
60
Beata terra, cuius rex nobilis est, et
cuius principes vescuntur in tempore suo, ad reficiendum, et non ad luxuriam. Eccl. X, 17.
61 «Aqui van los memoriales que
faltaban. Bien hizo Vuestra Reverencia en decir viniesen acà primero, y sus
peticiones: que las que dicen en San Josef de Avila querrian se hiciesen, son
de manera, que no les faltaba nada para quedar como la Encarnaciòn. Espantada estoy de lo que
hace el demonio, y tiene casi toda la colpa el confesor, con ser tan bueno
(cioè Juliàn de Avila); mas siempre ha dado en que coman todas carne, y està
era una de la peticiones que pedian. ¡Mira què vida!... Para ayuda piden a el
P. Provincial Fr. Angel (Angel de Salzar) que puedan tener algunas, que tienen
poca salud, algo en sus celdas para comer; y dicenselo de suerte, que no me
espanto se la diese. ¡ Mire quién tal iba a pedir a Fray Angel! Ansì, poco a
poco, se viene a destruir todo.» S. TERESA, Carta
352, al P. Jeronimo Graciàn, 27 de febrero de 1581. Obras, IX, 31.
62
«Comedere et bibere usque ad satietatem ob solam voluptatem, non est peccatum,
modo non obsit valetudini, quia licite potest appetitus naturalis suis actibus
frui.» Propositiones damnatae ab
INNOCENTIO XI, die 4 martii 1679: propositio 8.
63
Miele.
64
«Proferebat (quidam Patrum) exemplum tale, dicens: «Erat quidam magnus senex
praevidens, et contigit ei ut gustaret cum pluribus fratribus. Et comedentibus illis videbat in spiritu idem senex sedens ad mensam
quosdam edentes mel, alios autem panem, alios vero stercus... Et deprecabatur
Deum, dicens: Domine, revela mihi mysterium hoc... Et venit ei vox desuper,
dicens: Quia illi qui manducant mei, hi sunt qui cum timore et tremore et
gratiarum actione edunt ad mensam, et incessanter orant; et oratio eorum sicut
incensum ascendit ante Deum, ideoque et mel comedunt. Qui autem panem manducant,
hi sunt qui gratias agentes percipiunt ea quae a Deo donata sunt. Illi vero qui stercus manducant, hi sunt qui murmurant et dicunt: Hoc bonum
est, illud malum est (I Cor. X.)» De vitis Patrum, lib. 6, auctore graeco
incerto, interprete Ioanne, libell. 1 de Praevidentia, n. 17. ML
73-1000.
65 «Une continuelle et moderée
sobriété est meilleure que les
abstinences violentes faites à diverses reprises et entremêlées de grands
relâchements.» S. FRANÇOIS DE SALES, Introduction
à la vie dévote, partie 3, ch. 23. (Euvres,
III, Annecy, 1893, pag. 220.
66 «Il y a une certaine simplicité de
cœur en laquelle consiste la perfection de toutes les perfections, et c' est
cette simplicité qui fait que notre âme ne regarde qu' à Dieu, et qu' elle se
tient toute ramassée et resserrée en elle-même pour s' appliquer avec toute la
fidélité qui lui est possible à l' observance de ses Règles, sans s' épancher à
désirer ni vouloir entreprendre de faire plus que cela. Elle ne veut point
faire des choses excellentes et extraordinaires qui la pourraient faire estimer
des créatures; et par ainsi ell ese tient fort basse en elle-même et n' a pas
des grandes satisfactions, car elle ne fait rien de sa propre volontè ni rien
de plus que les autres, et ainsi toute sa sainteté est cachée à ses yeux: Dieu
seul la voit, qui se délecte en sa simplicité, par laquelle elle ravit son cœur
(Cant. IV, 9) et s' unit à lui. Elle tranche court à toutes les inventions de
son amour propre, lequel prend une souveraine délectation à faire des
entreprises de choses grandes et excellentes et qui nous font surestimer
au-dessus des autres.» S. FRANÇOIS DE SALES, Les vrais Entretiens spirituels, 13e entretien. (Euvres, VI, Annecy, 1905, pag. 235.-
«Vous me direz peut-être: S' il arrive qu' une sœur ait une complexion robuste,
peut-elle pas bien faire des austérités plus que les autres, avec la permission
de la supérieure, en sorte que les autres sœurs ne s' en aperçoivent pas? Je
réponds à cela qu' il n' y a point de secret qui ne passe secrétement à une
autre; et ainsi de l' une à l' autre l' on vient à faire des Religions dans les
Religions et des petites ligues, et puis tout se dissipe.» Ibid., pag. 229, 230.
67
Questo gran maestro di spirito è uno dei soliti anonimi, che non ci è riuscito
individuare: la dottrina però è comune fra gli autori ascetici, sebbene
espressa in forme diverse.
68
«Se talvolta si davano a mensa, per straordinario, cibi delicati, li lasciava,
e diceva che non erano buoni per il suo stomaco, e che non erano cosa da lei.»
PUCCINI, Vita, Venezia, 1671, cap.
123.
69
In vece di «S. Bernardo» leggasi «S. Benedetto», giacchè nella citazione, Sant'
Alfonso si riferisce alla sola Regola di S. Benedetto. «Ergo his diebus
(Quadragesimae) augeamus nobis aliquid ad solitum pensum servitutis nostrae,
orationes particulares, ciborum et potus abstinentiam, ut unusquisque super
mensuram sibi indictam aliquid propria voluntate cum gaudio Sancti Spiritus
offerat Deo: id est subtrahat corpori suo de cibo, de potu, de somno, de
loquacitate, de scurrilitate.» Regula S.
BENEDICTI, cap. 49, De Quadragesimae
observatione. ML 66-736, 737.- Si noti che il consiglio dato dal Santo
Legislatore non si restringe alla sola Quaresima, cominciando così il capitolo:
«Licet omni tempore vita monachi Quadragesimae debeat observationem habere....»
Ibid., col. 735.
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