§ 23. — La generale
impotenza della classe abbiente contro i malfattori, non si può spiegare con la
mancanza dei mezzi per resistere. Nè con la generale complicità. La semplice
osservazione delle relazioni fra cittadini e malfattori non fornisce gli
elementi per sciogliere questo problema.
Come hanno potuto i malfattori
acquistare un sì strano predominio sugli animi? La mente si affatica lungamente
invano intorno a questo problema. Se i proprietari ricevono cortesemente i
briganti, li albergano, li rivestono, li armano, non è certo per carità
cristiana. Non è per uno spirito di rassegnazione e di umiltà poco verosimile;
lo dimostrano gli odii e i rancori implacabili coi quali i signori ingannano i
lunghi ozi della loro vita neghittosa nei paesi dell’interno. Non è perchè i
Siciliani non sappiano al bisogno unirsi per un dato fine; lo prova la stretta
unione fra i membri di ciascuno dei partiti, che in tanti Comuni si contendono
il primato di generazione in generazione, lo prova la stessa solidarietà dei
malfattori fra di loro. D’altra parte, i mezzi materiali di difesa non mancano.
I proprietarii hanno modo di assoldare gente risoluta in loro difesa. Qual’è
dunque la ragione della loro mancanza d’unione, della loro impotenza, della
loro docilità di fronte alla potente organizzazione del malandrinaggio?
Veramente, a vedere sottomettersi con tanta facilità tutta
una classe di persone, cui basterebbe agire d’accordo per tre giorni per fare
sparire il brigantaggio, la prima impressione è che questa rassegnazione non
sia altro che complicità. Ma anche appoggiandosi sopra questa ipotesi, la mente
cerca invano un criterio che la guidi nel giudizio dei fatti. La complicità
apparente è universale. Ma in Sicilia l’apparenza di complicità non ha
significato. Chi troverà il mezzo di distinguere quella che viene imposta dal
terrore, da quella spontanea e lucrosa? Taluni proprietarii per aver rifiutato
ospitalità o informazioni ai briganti, hanno avuto il bestiame distrutto, le piantagioni
e le case bruciate, sono stati ricattati, assassinati19. Ma nel tempo
stesso altri si sono arricchiti col manutengolismo, col tener mano ai ricatti,
dando informazioni ai briganti, magari prestando il luogo dove rinchiudere il
sequestrato. Taluni devono una fortuna considerevole all’industria del
ricoverare nel loro fondo il bestiame rubato per curarne poi la vendita o
l’esportazione. È incalcolabile il numero di persone d’ogni condizione che
impiega in Sicilia l’industria degli abigeati. Una vasta rete di ladri, compari
e ricettatori, cuopre tutta l’Isola. Dei capi di bestiame rubati, poniamo,
sulla costa settentrionale, trovano chi li nasconde nel suo fondo, posto nel
centro dell’Isola, e, al bisogno, chi provvede ad imbarcarli in qualche punto
della costa meridionale per l’Africa. Ma d’altra parte è pubblicamente noto che
taluni grandi proprietarii sono costretti, loro malgrado, a lasciare ricoverare
nel loro fondo, il bestiame rubato dai briganti. Dovrà considerarsi come
indizio di manutengolismo, se un proprietario sta tranquillamente in campagna
colla famiglia, gira senza scorta dappertutto, e non è mai molestato? Nemmen
questo: conviene talvolta ai briganti di non farsi nemico un signore ricco e
potente, e rispettarlo senza esiger da lui altro che il silenzio sui loro
movimenti, e lo stretto necessario per i loro bisogni. Questo non si può
considerare, e non si considera, come manutengolismo, e non v’è proprietario
che non sia in questo modo in contatto continuo coi briganti, e che non lo dica
apertamente anche alle autorità. E in taluni casi di manutengolismo vero e
proprio a fine di lucro, chi è il colpevole, il proprietario, o i suoi fattori
ed impiegati? Il proprietario è spesso il primo ad esser vittima del
manutengolismo del suo fattore. Questo ha interesse a tenere il padrone lontano
dai suoi fondi colla paura. Molto più, ciò che ha apparenza di manutengolismo
del proprietario, può essere atto di brigantaggio vero e proprio commesso dai
fattori. Le firme dei briganti nelle lettere di scrocco non sono autenticate da
notaro. Chi garantisce se sono vere od imitate? Quando i proprietarii, invitati
a rendersi presso l’autorità pubblica per affari correnti non rispondono
all’invito per timore d’esser sospettati di aver denunziato un malfattore, è
probabilmente il solo terrore che li trattiene. Ma chi può dire se il loro
silenzio riceve o no il suo compenso all’occasione? Si potrà dire almeno che
non è manutengolo il proprietario il quale da parecchi anni non osa uscir dal
paese per paura dei briganti o che vien da essi ricattato od anche ucciso?
Nemmeno. Ognuno in Sicilia conosce la storia di quei due proprietarii alleati
di bande brigantesche ostili fra di loro. Uno di essi fece ricattare l’altro
che dovette pagare una grossa taglia. L’altra banda per vendicare lo sfregio
fattole nella persona del suo protetto, sequestrò a sua volta il proprietario
amico della banda avversa, gl’impose una grossa taglia, lo uccise, e nonostante
si prese i denari. Dovrà dirsi manutengolo chi impiega a suo servizio gente
facinorosa? Ma il proprietario che non voglia avere i fondi e il bestiame in
balìa del primo ladruncolo venuto, deve aver alcuni fra i suoi campieri20
che si facciano rispettare, e il modo più efficace per farsi rispettare in
buona parte di Sicilia, è l’esser in fama di aver commesso qualche omicidio. Ma
il modo di non aver nemica una banda di briganti o qualche altra potente
associazione di malfattori dei dintorni è l’avere al proprio servizio una
persona, che sia in relazione con loro, che possa trattare con loro per riavere
contro competente compenso il bestiame che hanno rubato al padrone. Il loro
salario, a quanto dicesi, è talvolta fuor di proporzione col loro ufficio, è la
tassa che il proprietario paga alla banda o all’associazione, ed una specie di
premio d’assicurazione o di riscatto contro l’abigeato. E chi può dire se quel
campiere non è stato da esse imposto al proprietario? I proprietarii dichiarano
essi stessi apertamente di essere obbligati a tenere fra i loro impiegati dei
facinorosi. Qual’è l’autorità che potrà farne loro un delitto quando il Governo
è il primo ad impiegarli al suo servizio? Che cosa sono per la maggior parte i
militi a cavallo se non degli antichi malandrini che portano una divisa e, sul
berretto, la cifra del re? La mente si affatica invano a cercare i criterii che
in una tale condizione di società distinguono il bene dal male, l’innocenza dal
delitto. Chi è del tutto innocente, chi è del tutto colpevole? Un atto per il
quale in paesi che sono in condizioni diverse non si esiterebbe a mandare un
uomo in galera, qui è ammesso, e non si può punire. Ed intanto i briganti
diventano capitalisti e hanno relazioni di affari cogli abitanti, dànno
bestiame a soccida, diecine di mila lire a mutuo. Intanto stanno formandosi
quasi pubblicamente dei patrimoni col manutengolismo e colla complicità negli
abigeati. Intanto ciascuno dei partiti avversi nei Comuni, corteggia l’alleanza
dei briganti e dei facinorosi; i privati acquistano rispetto, considerazione e
influenza quando sia pubblico che sono amici di briganti. Chi potrà dire la
parte che hanno i malfattori nella scelta dei fittaiuoli dei feudi, in quella
dei compratori dei fondi in vendita, e nella determinazione dei loro prezzi?
Chi potrà misurare la loro influenza diretta o indiretta, nelle elezioni
municipali, nelle elezioni politiche? Venti o trenta mascalzoni sanguinari con
una retroguardia di latitanti erranti per le campagne, e di facinorosi occulti
o palesi, sono il fondamento di buona parte delle relazioni sociali più
importanti in due terzi di Sicilia.
E si sentono dei Siciliani,
specialmente delle classi medie e inferiori, che parlando del brigantaggio
dicono apertamente di non veder nulla di anormale nella sua esistenza, di non
veder nessuna buona cagione perchè debba cessare. Secondo loro, si tratta di
gente che non fa male a nessuno se non è provocata, si contenta d’imporre una
tassa ai ricchi, che del resto possono pagarla benissimo, e benefica la povera
gente. «Quelli erano briganti chic», ci diceva e ci ripeteva, parlando
della banda Capraro, un piccolo impiegato che incontrammo in viaggio. Si
racconta perfino in Sicilia che giovani di buona famiglia si sono talvolta
uniti a qualche impresa di bande brigantesche famose, senza nessuna mira
d’interesse, ma per arditezza giovanile, per acquistare onore facendo prova di
coraggio, nel medesimo modo che se si fossero arruolati nell’esercito o fra i
volontari per le guerre d’indipendenza. Ad ogni modo, nelle persone di tutte le
classi, specialmente se non hanno sofferto dai malfattori danni maggiori degli
ordinari, si sente spesso trapelare nella conversazione una certa compiacenza
per il tipo brigantesco, una tendenza a farne un tipo da leggenda, un
sentimento insomma, che sarebbe abbastanza naturale in un professore di
letteratura, ma si spiega difficilmente in proprietari fondiari che hanno
masserie e granai combustibili.
Però, questa ammirazione teorica
pei briganti non impedisce che la poca sicurezza non provochi, specialmente
nella classe ricca, generali lamenti, i quali, nella bocca di chi ebbe a
soffrire dal brigantaggio personalmente in modo crudele, diventano aspri ed
irosi e si manifestano per lo più sotto forma di duri rimproveri al Governo. Da
esso si aspetta, o piuttosto si richiede tutto. Esso in mezzo alla universale
cospirazione del silenzio deve pur trovar modo di scuoprire i malfattori e di
impadronirsene. Questo disperato cercare di un appoggio fuori di sè stessi non
ha nulla che debba sorprendere quando si consideri la inaudita disorganizzazione
di tutta la classe che ha qualcosa da conservare di fronte alla disciplina dei
malfattori.
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