§ 33. — Funzionari di
pubblica sicurezza. Difficoltà che incontrano per scuoprire i malfattori e per
radunare elementi atti a farli condannare in giudizio.
Veramente la condizione di un
delegato di pubblica sicurezza in Sicilia, soprattutto se in un capoluogo di
mandamento senza la vicinanza e l’appoggio di una più alta autorità, non è
delle più invidiabili. Sta nel suo ufficio o nella sua casa come in una
fortezza in mezzo a paese nemico. Per quanto possano esser numerose le persone
che nel segreto dell’animo loro desiderano veder distruggere i malfattori, per
quanto possa ricevere talvolta denunzie segrete, pure la forza preponderante
dei malfattori s’impone agli animi. Ne resulta che il meglio che egli possa
aspettare dalla generalità degli abitanti è una neutralità ostile. Costretto a
guardare prima di ogni altra cosa la propria vita, egli è ben fortunato se può
avere intorno a sè per proteggerlo dalle sorprese due o tre guardie fidate e
coraggiose. Trattandosi di compiere un arresto, non si parla di apparato
solenne di forme legali, non si ferma la persona ricercata per la strada
intimandole a nome della legge di costituirsi prigioniera; molto meno si va a
picchiare alla sua casa: la risposta sarebbe probabilmente una fucilata. È
assai rischioso il presentarsi all’uscio di un uomo che non abbia la coscienza
netta. Uno di essi sentendo picchiare alla porta di casa, senza guardare chi
fosse, tirò una fucilata e uccise il proprio fratello. Gli agenti incaricati di
operare un arresto, devono mettersi il mandato di cattura in tasca, avvicinarsi
alla persona ricercata, senza che se ne avveda, saltargli addosso come se si
trattasse di fare una grassazione, e prima che abbia avuto il tempo di
riconoscerli, metterla nella impossibilità di resistere. Non dappertutto la
situazione personale dell’ufficiale di pubblica sicurezza è così tesa. Nei
capoluoghi di circondario l’ispettore o il delegato si appoggia sull’autorità e
responsabilità superiore del sottoprefetto, può disporre di un personale più
numeroso. Nei Capiluoghi di provincie, il questore o l’ispettore con autorità
maggiore, con personale ancora più numeroso e col prefetto sopra di sè, si
trova in posizione ancora più vantaggiosa. Ma per tutti è eguale la difficoltà
di scuoprire i delinquenti e di arrestarli in mezzo al silenzio e alla finzione
dei più. Potrebbero cercar di sorprendere i delitti in flagrante, facendo
sorvegliare strettamente gli ammoniti, se questa sorveglianza fosse possibile;
ma con un personale insufficiente, come fare a tener dietro alle centinaia di
persone sottoposte all’ammonizione, e che per la maggior parte devono per la
loro professione uscire ogni mattina dal paese nella campagna e tornare la
sera, quando pure non vi si devono trattenere l’intera settimana? La forza
pubblica si perderà molte volte a seguire i passi di qualche ozioso o
ladruncolo inoffensivo, mentre l’ammonito pericoloso compie con tutto suo
comodo una grassazione o un ricatto. Inoltre chi sorveglierà la gente di
libertà, cioè i facinorosi non conosciuti come tali dall’autorità? Il
portare armi senza licenza non è un indizio migliore per scuoprire un
delinquente. Bisognerebbe che le sole persone innocue ottenessero licenza, e
più un facinoroso è temuto, e più si procura facilmente testimonianze
favorevoli per ottenerla. Del resto, anche se non l’abbia ottenuta, il
malfattore può avere e adoperare il suo schioppo senza che l’autorità ne sappia
nulla. Si potrà rovistare la sua abitazione in paese senza trovar traccia
d’arme: i carabinieri lo vedranno uscire la mattina dal paese, tranquillo e
disarmato. Va a una pagliaia in campagna, piglia il fucile nascosto tra lo
strame, va a prender parte alla grassazione o al ricatto, torna a nasconder
l’arme e la sera rientra in paese come ne era uscito.
L’ufficiale di pubblica
sicurezza è ridotto alle rare e timide denunzie provocate dal desiderio di
guadagno o di vendetta, alle rarissime confidenze disinteressate di
qualche proprietario ed alle ispirazioni di quella specie d’intuizione che
acquista talvolta per la lunga pratica. Ma quando esso sia stato messo con tali
mezzi sulle tracce di un colpevole, le difficoltà, gl’impedimenti che separano
l’arresto del colpevole dalla sua condanna sono tali da rendere quasi certa
l’impunità del delitto. Chiunque faccia una denunzia chiede per prima cosa di
non esser compromesso, e che la sua denuncia rimanga un segreto. Se l’ufficiale
di pubblica sicurezza che l’ha ricevuta vuol nonostante cercare di ottener la
punizione del colpevole rivelato, tutta l’abilità e la solerzia ch’egli potrà
esercitare non riesciranno a nulla senza l’opera dei magistrati. Quand’egli sia
riescito a sorprendere qualche confessione, a scuoprire degli indizi, a preparare
insomma gli elementi del processo, e a mettere insieme le prove della reità, ha
fatto poco o nulla per ottenere la condanna. Perchè le deposizioni fatte
davanti all’autorità di polizia non hanno valore di testimonianze in giudizio;
tutt’al più l’ufficiale di pubblica sicurezza potrà testimoniare di averle
udite.
Affinchè il processo possa
andare avanti, è forza che il giudice istruttore citi dinanzi a sè il
denunciatore, e i testimoni; che questi ripetano davanti a lui ciò che già
dissero all’ufficiale di pubblica sicurezza, che le loro deposizioni vengano
scritte dal cancelliere, firmate da loro, per essere poi esibite al
dibattimento pubblico dove dovranno ripeterle ancora una volta. Chiamati
davanti al giudice istruttore, testimoni e denunziatore negano naturalmente di
aver detto mai nulla, o se confessano di aver parlato, si ritrattano;
gl’indizi, le prove svaniscono per incanto, il processo va all’aria, il
magistrato istruttore deve pronunciare o provocare l’ordinanza di non luogo a
procedere. Il colpevole è rimesso in libertà con piena facoltà di deliberare
fra sè e sè, se gli convenga o no di ammazzare coloro che sospetta di averlo
denunziato.
Se l’ufficiale di pubblica
sicurezza è riuscito a cogliere gli autori e i testimoni di un reato quasi sul
luogo e nel momento del delitto, il successo sarà sempre lo stesso. Egli, è
vero, potrà più facilmente scuoprire indizi materiali, dirigere secondo questi
le sue interrogazioni, gli sarà più facile incutere timore agl’interrogati. E
così, se non sia del tutto inabile, potrà facilmente sorprendere delle
contraddizioni nelle risposte, forse anche trar fuori dai più turbati qualche
confessione. Ma poi, in questo come in qualunque altro caso, davanti al
magistrato istruttore le confessioni sono ritrattate, le contraddizioni
rimediate, nasce dalle deposizioni tutto un racconto logico, filato, dal quale
resulta che il colpevole è innocente, che i testimoni non hanno visto nè
sentito nulla e quasi quasi, che il delitto non è stato commesso. Non v’ha
prigione tanto custodita che impedisca le comunicazioni dei carcerati fra di
loro e con quelli di fuori, e il romanzo da presentarsi all’istruzione si
combina senza difficoltà a traverso le mura e le inferriate.
L’ufficiale di pubblica
sicurezza è più fortunato se giunge a tempo per sorprendere una prova di fatto,
un corpo del reato che basti a convincere il colpevole. La cosa non è facile.
Colla sterminata rete delle complicità e delle connivenze, le tracce materiali
di un delitto atte a comprometterne l’autore, spariscono con una rapidità
incredibile; però talvolta l’ufficiale di polizia riesce a vincere di prontezza
e d’acume gli stessi malfattori. Ma nella sua fretta di sorprendere indizi e
prove, egli corre gran pericolo di violare le forme richieste dalla legge, ed allora
va incontro ad altri rischi. S’egli, per esempio, richiede i carabinieri di
prestare l’opera loro per una perquisizione in una casa di nottetempo, senza le
formalità volute dalla legge, i carabinieri si rifiuteranno. S’egli l’eseguisce
per mezzo dei suoi sottoposti diretti, egli corre rischio di vedere per lo meno
nei considerando della sentenza relativi a quel reato una censura al suo
indirizzo.
Ad ogni passo in Sicilia si
presenta questa quistione fra la inefficacia della legalità e i pericoli e i
danni morali dell’arbitrio. L’impiegato di pubblica sicurezza, dallo spirito
del suo ufficio, dalle tradizioni della polizia siciliana, dalla straordinaria
difficoltà delle circostanze in cui si trova, è portato a invocare l’arbitrio,
chiede una larga applicazione di quelli ammessi dalla legge: l’ammonizione e il
domicilio coatto; chiede che si chiudano gli occhi se talvolta per salvare la
società da un facinoroso, gira attorno a qualche prescrizione della legge o la
viola addirittura. Invece, i magistrati sono in generale animati da altro
spirito, informati a tradizioni diverse. E nemmeno a loro si può dar torto.
L’uso eccessivo delle ammonizioni ha fatto fino adesso pessima prova. Raramente
si è giunti a colpire con queste le persone veramente pericolose. Il numero
soverchio delle persone ammonite ne rende la sorveglianza impossibile, ed il
provvedimento diventa illusorio. Inoltre, se l’abuso degli arbitrii legali è
nocivo, l’uso degli arbitrii illegali è pieno d’infiniti pericoli. Tolto il
limite sicuro e determinato della legge, con quale criterio si potran
distinguere gli arbitrii leciti, diretti al bene comune, da quelli illeciti,
diretti a danno della giustizia e dell’ordine pubblico? Per quanto si possa
garantire l’onestà di un ufficiale di pubblica sicurezza, chi garantirà ch’egli
è abbastanza furbo per schermirsi dalle infinite astuzie dei malfattori e dei
prepotenti, ch’egli non diventerà un istrumento in mano di coloro ch’egli vuole
ridurre all’impotenza? La triste esperienza della prefettura militare è fatta
per disgustare dalle illegalità. Tutte le soluzioni che si possono dare alla
quistione sembrano ugualmente pessime; le leggi sono inefficaci, l’arbitrio
pericoloso.
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