Il quarto dei beni
ecclesiastici.
A questo bisogno pare alla
Giunta che risponderebbe assai bene un altro provvedimento che da molto tempo
oscilla nelle regioni amministrative e che in tutta la Sicilia è con un solo
grido invocato. Trattasi dell’applicazione integrale della legge 7 luglio 1866
sulla soppressione delle corporazioni religiose.
Ognuno sa che coll’articolo 35
di quella legge, ai Comuni di Sicilia era dato il quarto della rendita di quei
beni, a datare dal 1° gennaio 1867, coll’obbligo di pagare il quarto delle
pensioni dovute ai religiosi. Sopravvenuta poi la legge 15 agosto 1867 per la
liquidazione dell’Asse ecclesiastico, s’imponeva con l’articolo 18 di quella
legge una tassa straordinaria del 30 per cento sul patrimonio ecclesiastico
rappresentato dal Fondo pel culto. L’amministrazione di quel Fondo che, non
avendo ancora fatte le liquidazioni, teneva presso di sè le rendite di tutte le
corporazioni religiose abolite coll’antecedente legge del 1866, pretese che la
tassa straordinaria del 30 per cento colpisse anche la rendita iscritta a
favore dei Comuni di Sicilia. E in qualche caso, incoatasi lite, la vinse.
È però un fatto, a cui l’equità
difficilmente si rassegna, questo, che uno Stato possa, dopo concesso un
diritto, ritornare sulla sua concessione e roderne un brano. Al 1° gennaio
1867, il diritto dei Comuni di Sicilia a possedere la rendita iscritta
corrispondente al quarto dei beni, salvo l’obbligo del quarto delle pensioni,
restava pieno ed intero. La legge posteriore del 15 agosto 1867 non poteva più
considerare quella parte di beni come un patrimonio ecclesiastico; era divenuta
un patrimonio comunale; e non si capisce come potesse colpirsi di una tassa
retroattiva, non si capisce come la tardanza dello Stato a fare le liquidazioni
e consegnare la rendita, vale a dire l’indugio del Governo nella esecuzione dei
suoi doveri, dovesse poi volgersi a suo vantaggio e a danno dei Comuni.
L’intenzione del legislatore del
1866 fu evidentemente di usare un riguardo speciale ai Comuni della Sicilia; e
questo riguardo trovava forse il suo corrispettivo nella massa maggiore di beni
che, in proporzione delle altre regioni italiane, lo Stato trovava nella
Sicilia, rimasta fino allora vergine di qualunque legge di soppressione e
quindi ricca di tutto l’originario patrimonio del clero regolare.
Questa intenzione non poteva certo
essere mutata, a così poca distanza di tempo, dal legislatore del 1867. Il
pensare diversamente equivarrebbe a supporre che si abbia voluto con una mano
togliere il beneficio recato dall’altra; molto più che l’onere delle pensioni
imposto dalla legge del 1866 restava intero, e solo si sottraeva circa un terzo
dell’utile.
Quanto nuocerebbe al credito ed
alla dignità del Governo presso le popolazioni siciliane questa interpretazione
delle due leggi non è mestieri percorrere la Sicilia per indovinarlo. Il
sentimento pubblico sarebbe laggiù gravemente offeso da questa soluzione che, a
torto o a ragione, sarebbe considerata come una mistificazione. La fiducia
nelle promesse, nella parola del legislatore ne andrebbe scossa; e al
malcontento che desta il bisogno poco soddisfatto della viabilità
s’aggiungerebbe quello di vedersi contesi, per una interpretazione di legge, se
non ingiusta, certo durissima, i mezzi di potere in parte provvedere a tale
bisogno.
Giacchè non si può dimenticare
che la stessa concessione del quarto dei beni era fatta col vincolo
d’impiegarlo in opere di pubblica utilità. Ora, se non tutti, molti di questi
Comuni hanno fatto debiti, hanno anticipato somme per costruzione di scuole o
di strade. Gli altri aspettano per costruirle che la rendita di quel quarto sia
loro consegnata. Non c’è della durezza a lagnarsi che non abbiano pensato ad
entrambi gli scopi contemporaneamente, mentre lo Stato, loro debitore,
trattiene presso di sè le somme necessarie per conseguirli entrambi?
La Giunta non può avere dubbio
sulla soluzione più equa da darsi a questa pratica. Essa fa voti, non solo
perchè il Governo solleciti le liquidazioni definitive dei beni delle soppresse
corporazioni religiose in Sicilia, ma perchè la tassa straordinaria imposta
coll’articolo 18 della legge 15 agosto 1867 non sia applicata al quarto della
rendita corrispondente ai detti beni, da iscriversi a favore dei Comuni di
Sicilia, a termini dell’alinea secondo dell’articolo 35 della legge 7 luglio
1866.
E se questa disposizione avrà
bisogno di un nuovo atto legislativo e si potrà con esso vincolare
espressamente la restituzione di questo quarto alla costruzione della rete
stradale, il beneficio non sarà che doppio e la questione della viabilità
otterrà quello sviluppo più sollecito che aveva cercato di imprimerle la legge
30 agosto 1868.
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