I
CONTADINI IN SICILIA
INTRODUZIONE
Comincia a penetrare le menti dell’universale
l’opinione che per opporsi efficacemente al Socialismo e al Comunismo non basta
il dimostrare in teoria e colla storia alla mano la ragionevolezza e la utilità
degl’istituti, che sono base della moderna civiltà, ma che bisogna pure
esaminare partitamente quali sono le mende che presenta la nostra società nei
suoi ordinamenti attuali, quali sono le sciagure che essa cagiona, quali i
dolori cui non ripara, e quanta parte delle une e degli altri potrebbe
togliersi senza toccare ai principii.
Ogni legge, ogni istituzione creata dagli uomini,
e mantenuta coll’autorità dello Stato, produce direttamente e indirettamente un
numero infinito di conseguenze nelle condizioni economiche e sociali delle
classi e degl’individui, e diviene così causa pur troppo spesso di
diseguaglianze artificiali mantenute a forza in nome dell’eguaglianza; di
oppressioni legali esercitate in nome della libertà. E tra tutte queste
istituzioni è certo la proprietà privata territoriale la più importante, ed è
quella difatti contro cui più vivi sono stati ognora gli assalti di coloro, che
partendosi da massime a priori vorrebbero tutta rovinare la società
moderna e riedificarla a loro modo, soltanto perchè l’edifizio attuale non è
perfetto; come se mai si potesse creare edifizio perfetto con materiali che non
lo sono affatto, e ordinare una società perfetta di uomini che sono tuttora
ignoranti, egoisti, superstiziosi, frivoli e avidi di ogni più basso godimento.
La giustificazione maggiore dell’istituto della
proprietà privata del suolo è economicamente la sua utilità generale,
e questa si prova generalmente in modo più negativo che positivo, appoggiandosi
piuttosto sui danni evidenti della proprietà collettiva, che sugli
effetti benefici provati della proprietà territoriale individuale. Ma se
vogliamo rinforzare l’istituzione contro gli attacchi degli oppositori,
dobbiamo aggiungere una prova positiva: dobbiamo poter dimostrare come
dappertutto, o quasi dappertutto, la proprietà privata del suolo nella sua
forma attuale conduca al maggior benessere di tutti; e non solo alla maggior
produzione agricola, chè questo non varrebbe che a giustificarla di fronte a
quella parte della società, che non ha alcuna attinenza col suolo, ma anche e
principalmente al maggior benessere di tutti coloro che contribuiscono a quella
produzione. E se questa dimostrazione è utile dovunque, lo è tanto più in
Italia dove più del 60% della popolazione è legata alla produzione agricola.
Ma vi sono nel fatto gli elementi per fornire una
tale dimostrazione? — Ecco quello che dovrebbe principalmente prefiggersi di
esaminare un’inchiesta agricola. Possiamo però affermare fin da ora, che
pur troppo quegli elementi di fatto non esistono dappertutto presso di noi, e
che in gran parte d’Italia il contadino sta male, molto male, e si trova in
condizione tale da far temere per l’avvenire serii pericoli per la civiltà
nostra.
Ma di chi la colpa? — I proprietari dicono che è
colpa delle leggi, delle imposte, degli ordinamenti amministrativi, e dei
contadini stessi. Lo crediamo anche noi che vi sia colpa di tutti, ma e dei
proprietari medesimi non meno e forse molto più che degli altri. Intendiamoci
però su questa parola colpa. Non attribuiamo alla classe dei proprietari
una malignità speciale a danno dei contadini, o una cosciente trascuranza di
quanto possa giovare alle classi inferiori, non più di quel che crediamo che
gli ordinamenti amministrativi e le leggi d’imposta siano stati dettati
coll’intendimento preciso di danneggiare una classe a benefizio di un’altra; ma
troviamo quasi dappertutto una ignoranza assoluta e incosciente dei doveri che
implica la proprietà del suolo, la quale è un privilegio (privilegio utile, ma
sempre privilegio) e diremo quasi un ufficio sociale; troviamo un’opinione
pubblica che si preoccupa dei salari degli operai industriali, della rendita
dei proprietari, e dei profitti dei capitalisti, e ciò perchè e operai, e
proprietari, e capitalisti sanno gridare e farsi valere, ma la quale ignora
affatto le condizioni materiali e morali degli umili coltivatori del suolo;
perchè il contadino lavora, paga, e brontola sommesso, ma non sa far
dimostrazioni, non sa scrivere, e per ora non si muove.
Importa dunque di attirare l’attenzione pubblica
su questi paria della nostra civiltà. Da qualche tempo vi è un notevole
risveglio, in Italia, degli studii agricoli ed anche dell’agricoltura pratica.
Da ogni parte sorgono e si agitano società scientifiche, comizi agrari,
giornali e riviste agricole, istituti e colonie agrarie, società
d’acclimazione, ecc.; in ogni provincia italiana si tentano esperimenti
pratici, si pubblicano lavori dottissimi, si studia, si discute e si opera.
Tutto questo movimento è ottimo, e promette molto per l’avvenire del paese; ma
non basta. Si parla molto di produzione, e poco o nulla di distribuzione;
eppure produzione e distribuzione sono fenomeni molto distinti. È teoria comoda
di non pochi economisti ed agricoltori, quella che il benessere del contadino
dipenda dalla floridezza dell’agricoltura, e che basti perfezionare questa per
migliorare quello: — è questo quasi un luogo comune — ma pur troppo il fatto ci
dimostra spesso il contrario. Si guardi l’Inghilterra, ove l’agricoltura è
bellissima e il lavorante agricolo poverissimo: e se l’esempio non basta a
persuadere il lettore, lo invitiamo a fare una piccola gita nella pianura
irrigua del Po, e specialmente nella Lomellina, nel basso Pavese, nel basso
Milanese e nel basso Mantovano. Egli vi troverà una produzione agricola
straordinaria, un’agricoltura oltremodo perfezionata, ed insieme la condizione
dei contadini la più miserabile, la più infelice di tutta l’Italia; più
miserabile e più infelice di quella del contadino abruzzese o del contadino
delle vallate più interne della Sicilia. Eppure il proprietario lombardo non è
certo meno buono, meno umano o meno caritatevole del proprietario toscano del
Val d’Arno. Da che dipende dunque la diversità delle condizioni? — Non dalla
produzione diversa, ma semplicemente dalla diversità dei contratti, che
regolano la distribuzione del prodotto agricolo tra i suoi tre coefficienti —
terra, capitale e lavoro. I nostri contadini non sono organizzati, come in
alcuni paesi, e in parte anche da noi, lo sono gli operai industriali; nè
potrebbero così facilmente esserlo per la diversità delle loro condizioni: essi
non possono quindi limitare artificialmente, mediante l’accordo,
l’azione della concorrenza, che tende a ridurre al minimo necessario
alla vita la retribuzione del lavorante, nella repartizione del valore del
prodotto. E d’altra parte l’emigrazione dalle campagne è ancora fenomeno
troppo parziale e ristretto a poche località per esercitare una sensibile
influenza nel limitare l’offerta delle braccia, e così ottenere pel lavoro condizioni
migliori di fronte al capitale. S’aggiunga inoltre che molti miglioramenti
agricoli tendono per primo effetto a diminuire la quantità di lavoro necessaria
alla produzione; — e si vedrà come unica difesa che resti al contadino siano
quelle speciali forme del contratto agricolo le quali, invalse e mantenute per
legge o per consuetudine, costituiscano una barriera contro la pressione a
danno del lavoro di chi tiene in mano gli altri due fattori della produzione —
il capitale e la terra. Ed è perciò che nelle seguenti pagine in cui ci siamo
prefissi di esaminare a larghi tratti la condizione dei contadini in una delle
più ricche e più nobili regioni d’Italia, ci occuperemo più specialmente dello
studio dei varii contratti agricoli.
Importa però chiarire fin da ora il nostro
concetto.
Non è che crediamo che il contratto agricolo si
possa dovunque regolare a volontà, e neppure che il contratto sia la causa
prima ed unica delle condizioni dei contadini nelle diverse regioni. Non v’ha
dubbio alcuno che la forma generale del contratto agricolo dipenda in gran
parte dalle condizioni speciali della coltura di ogni regione; ma da ciò non
risulta che non si possano variare le modalità minute del contratto, in modo da
regolare diversamente la distribuzione di quella ricchezza la cui forma di
produzione determinò la scelta del contratto. Di più, le differenze nella
condizione dei contadini dipendono certamente, oltrechè dal contratto agricolo,
anche dallo stato della produzione agricola; come pure è verissimo che le
tradizioni storiche, le leggi e i costumi, c’entrano per molto nel determinare
la forma dei contratti agricoli; ma ciò non toglie che in questa forma si
debbano cercare le ragioni della diversità di effetti che, a produzione eguale,
si vedono risultare nel fatto, in luoghi diversi, dall’azione delle stesse
leggi economiche generali.
Divideremo il nostro studio in tre parti. Nella
prima diremo brevemente dei contratti esistenti nelle varie zone e secondo le
varie colture, in Sicilia, e della presente condizione materiale e morale di
quei contadini. — Nella seconda esamineremo quegli stessi contratti nei loro
effetti economici e sociali, analizzandone i vantaggi e i difetti alla luce dei
principii della scienza; — e in terzo luogo parleremo dei rimedi, dei tentativi
fatti, delle speranze e dei timori per l’avvenire.
Il lettore ci sia indulgente. Per quanta cura
abbiamo messa nel raccogliere dati e notizie, volendo tutto verificare nella
misura del possibile coi propri occhi, sentiamo quanto ci manca per poter dare
dei giudizi assoluti. Altri ci corregga dove sbagliamo: — il nostro intento è
sovrattutto di richiamare l’attenzione pubblica su queste questioni. Ci siamo
accinti allo studio senza preconcetti, desiderosi soltanto di raccontare i
fatti, e di giovare colla discussione e colla pubblicità agl’interessi di una
classe importante di cittadini, e insieme a quelli agl’interessi di tutto il
paese.
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