II.
Questi ed altri preparativi ci
fecero ritardare la partenza, sicchè fummo preceduti di qualche mese dalla
Giunta parlamentare: ma ciò giovò a meglio dissimulare il nostro scopo più
vero.
Ricordo che alla vigilia di
lasciar Roma, mi trovavo con Leopoldo Franchetti nell’appartamento occupato da
lui in via S. Sebastianello, quando egli nel maneggiare la sua rivoltella, ne
lasciò partire un colpo involontariamente. Il proiettile spense la lampada
ch’era già accesa sul tavolo, e andò a conficcarsi nell’opposta parete, a pochi
millimetri dal petto di un suo vecchio cameriere che stava attraversando la
stanza. Costui ne fu assai spaventato e traendone un triste presagio si provò a
scongiurare il suo padrone di non partire. Naturalmente fu vana fatica.
Non solo il preteso presagio fu
bugiardo, ma se abbiamo avuto occasione di avvertire molti pericoli perchè
scoscesi i sentieri, infide le cavalcature e spesso acconcio agli agguati il
solitario nostro cammino, non ci siamo mai trovati di fronte a minaccie
concrete. È vero che viaggiavamo con molte precauzioni lasciando sapere il meno
possibile i nostri itinerari e le nostre prossime tappe, e scegliendo
mulattiere e guide solo all’ultimo momento. Eppure, ecco, secondo una relazione
presentata dal Nicotera alla Camera poco dopo la nostra visita, un quadro delle
condizioni della sicurezza pubblica in quell’epoca, quale la riconosceva il
Governo.
«Cinque bande di audacissimi
malfattori a cavallo nelle provincie occidentali commettevano assassinii,
sequestri, grassazioni e rapine. Quella di Angelo Rinaldi, cui s’era unito il
feroce Bottindari, infestava la provincia di Palermo, facendo qualche
escursione nell’altre vicine, ed aveva trovato un sicuro rifugio nel Comune di
S. Mauro Castelverde, ove protetto da numerosi manutengoli sfidava le ricerche
della forza pubblica. L’altra comandata dal non meno feroce e terribile
Domenico Sajeva scorrazzava nella provincia di Girgenti, e, protetta dall’alta mafia,
aveva potuto sottrarsi alla giustizia. I superstiti briganti della banda
Capraro avevano prescelto a loro capo il sanguinario loro compagno Merlo, per
rimeritarlo dell’audacia dimostrata nell’assassinare, quasi alla presenza della
forza, nell’abitato di Sambuca l’infelice milite Maggio, uccisore del Capraro,
e percorrevano i circondari di Sciacca, di Corleone e di Mazzara commettendo
atti di inaudita ferocia. Il bandito Nobile che per lo innanzi si era associato
ora all’una ora all’altra banda, unitosi al Marino, aveva finito per
costituirsene una propria e taglieggiava la parte occidentale della provincia
di Palermo, mentre la parte orientale era infestata dalla comitiva del feroce
Leone, la quale spesso irrompeva nel circondario di Mistretta e nella provincia
di Caltanissetta. Codeste cinque bande di terribili malfattori avevano sparso
lo spavento nelle quiete provincie occidentali dell’Isola ed avevano eseguito,
sul cadere del 1875 e nel principio del corrente 1876 diversi sequestri e molti
assassinii, tra i quali quello dell’Alberto, del Calzolari, del tenente
Soldani, del milite Maggio, di Castellazzo Filippo, dei fratelli Leone ed
avevano esterminato le due famiglie Pepe e Giacino in S. Mauro».
Certo ogni banda aveva
un’organizzazione complessa e se pure si citavano per nome soltanto quattro o
cinque dei suoi componenti, era risaputo che all’occorrenza poteva mostrarsi
anche forte di venti e più; ma non per questo non dovevamo temere che qualcuna
spingesse l’audacia fino ad aggredirci. Nè ciò contraddiceva al concetto che ce
ne siamo andati facendo poi, e che Leopoldo Franchetti ha così bene esposto.
Della loro organizzazione, sia stabile, sia periodica od eventuale, le bande
solevano giovarsi non contro i forestieri, presumibilmente affatto alieni da
ingerenze locali, ma nei loro rapporti coi signori del luogo, che dovevano o
rassegnarsi alle loro imposizioni o vedersi combattuti ad oltranza, e anche nei
loro rapporti con Ditte e gruppi industriali e commerciali cui assicuravano la
loro tutela dietro corrisposta di determinati contributi. Oltre che di ricatti
e di rapine, vivevano così di tasse sulla molenda o sulla fabbrica di mattoni o
su altre industrie, salvo poi ad affermare sempre meglio all’occasione la
pretensione di costituire un nucleo autoritario apparentemente interessato ad
integrar l’azione del Governo per la tutela dell’ordine, con episodi di atroci
violenze frammisti ad ostentazioni di generosità e di giustizia punitiva. Forse
anche per la nostra insignificanza di oscuri viandanti abbiamo potuto
affrontare impunemente le visite a Mistretta, a Bivona ed a S. Mauro alle quali
la Giunta Parlamentare d’Inchiesta, a malgrado della sua scorta, finì col
rinunciare.
Ma se i briganti forse non
pensarono nemmeno a tentare un colpo di mano ai nostri danni, noi abbiamo avuto
tuttavia ripetutamente la sensazione della loro vicinanza. Talora il nostro
piccolo drappello è stato scambiato per una banda, e i carabinieri, a Mistretta
ed altrove, e lo stesso Prefetto a Caltagirone, ci confessarono l’errore
provocando la nostra più schietta ilarità. Viceversa fin dal nostro primo
soggiorno a Palermo, ricevuti dal fratello di un antico aiutante di campo del
generale Medici pel quale io avevo una lettera di presentazione, ci sentimmo
dire che le loro terre nei pressi di Alia erano visitate frequentemente dai
briganti, che il suo fratello ben li conosceva, e che, se ci pungeva curiosità
di intervistarli ce ne avrebbe procurato il modo. Declinammo concordi l’offerta
per non esporci a quel rimprovero di riconoscerli e di coltivare rapporti con
essi che noi stessi facevamo a lui e ad altri siciliani, e, per la stessa
ragione, rifiutammo l’offerta che ci venne fatta a Castelbuono di farci entrare
furtivamente a S. Mauro nonostante il cordone che un battaglione di bersaglieri
vi teneva intorno, nel disegno di sorprendere il brigante Rinaldi che si
credeva dovesse far ritorno a quel suo nido naturale, dove già aveva
impunemente svernato.
A S. Mauro ci siamo entrati lo
stesso, e apertamente, per la scoscesa e pittoresca strada che da Castelbuono
vi conduce, e in verità allora le difficoltà, più che per accedervi, erano per
uscirne, giacchè i tre punti concessi al passaggio attraverso il cordone
militare erano ancor più sorvegliati nel secondo caso. Forse proprio perciò era
accaduto che cinque giorni prima, la banda Rinaldi avesse potuto penetrarvi con
tutti i suoi cinque uomini confusa fra 50 contadini reduci dal lavoro, e,
commesso l’eccidio di tutta la famiglia Pepe, vi avesse affisso uno scritto che
diceva «che quella era la giusta punizione di una grande infamia». La
spiegazione pare fosse che avendo il padre Pepe, un muratore, attentato
all’onestà di una sua nuora, e avendo lo sposo preso seco una ganza, essa
nuora, per vendicarsi, propalò che la banda era stata a lungo ricoverata in
quella casa, e diede indicazioni per sorprenderla.
Del resto, in un viaggio come il
nostro, che nell’interno si svolse insolitamente traverso comunicazioni spesso
alpestri e sempre in pessimo stato, emozioni e pericoli non mancarono. Ho
sempre vivo il ricordo di una caduta in mare, che mi incolse il 16 aprile,
quando ritornati a Palermo, venni pregato dai miei compagni di visitare anche
per loro il roccioso isolotto di Ustica e i suoi 212 coatti, mentre essi si
fermavano a chiedere chiarimenti a persone già interpellate insieme in
precedenza. Il mare si fece assai grosso, l’imbarcazione era primitiva e
fragile, e nella difficoltà di accostare, essa si rovesciò e me la cavai con un
brutto bagno, che avrebbe potuto essere l’ultimo se non ero discreto nuotatore.
Ciò tuttavia non m’impedì di avere poco dopo tre interessanti colloqui: il
primo con quel Sindaco, il secondo con un Delegato di P. S., il terzo con un
bravo maestro elementare, parente del Sindaco, dal quale generosamente era
aiutato a vivere non potendogli bastare le 38 lire mensili nette da ritenuta
che riceveva dal Ministero.
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