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Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino
La Sicilia nel 1876

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  • LIBRO PRIMO   CONDIZIONI POLITICHE E AMMINISTRATIVE DELLA SICILIA
    • PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE
      • II
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II.

 

Questi ed altri preparativi ci fecero ritardare la partenza, sicchè fummo preceduti di qualche mese dalla Giunta parlamentare: ma ciò giovò a meglio dissimulare il nostro scopo più vero.

Ricordo che alla vigilia di lasciar Roma, mi trovavo con Leopoldo Franchetti nell’appartamento occupato da lui in via S. Sebastianello, quando egli nel maneggiare la sua rivoltella, ne lasciò partire un colpo involontariamente. Il proiettile spense la lampada ch’era già accesa sul tavolo, e andò a conficcarsi nell’opposta parete, a pochi millimetri dal petto di un suo vecchio cameriere che stava attraversando la stanza. Costui ne fu assai spaventato e traendone un triste presagio si provò a scongiurare il suo padrone di non partire. Naturalmente fu vana fatica.

Non solo il preteso presagio fu bugiardo, ma se abbiamo avuto occasione di avvertire molti pericoli perchè scoscesi i sentieri, infide le cavalcature e spesso acconcio agli agguati il solitario nostro cammino, non ci siamo mai trovati di fronte a minaccie concrete. È vero che viaggiavamo con molte precauzioni lasciando sapere il meno possibile i nostri itinerari e le nostre prossime tappe, e scegliendo mulattiere e guide solo all’ultimo momento. Eppure, ecco, secondo una relazione presentata dal Nicotera alla Camera poco dopo la nostra visita, un quadro delle condizioni della sicurezza pubblica in quell’epoca, quale la riconosceva il Governo.

«Cinque bande di audacissimi malfattori a cavallo nelle provincie occidentali commettevano assassinii, sequestri, grassazioni e rapine. Quella di Angelo Rinaldi, cui s’era unito il feroce Bottindari, infestava la provincia di Palermo, facendo qualche escursione nell’altre vicine, ed aveva trovato un sicuro rifugio nel Comune di S. Mauro Castelverde, ove protetto da numerosi manutengoli sfidava le ricerche della forza pubblica. L’altra comandata dal non meno feroce e terribile Domenico Sajeva scorrazzava nella provincia di Girgenti, e, protetta dall’alta mafia, aveva potuto sottrarsi alla giustizia. I superstiti briganti della banda Capraro avevano prescelto a loro capo il sanguinario loro compagno Merlo, per rimeritarlo dell’audacia dimostrata nell’assassinare, quasi alla presenza della forza, nell’abitato di Sambuca l’infelice milite Maggio, uccisore del Capraro, e percorrevano i circondari di Sciacca, di Corleone e di Mazzara commettendo atti di inaudita ferocia. Il bandito Nobile che per lo innanzi si era associato ora all’una ora all’altra banda, unitosi al Marino, aveva finito per costituirsene una propria e taglieggiava la parte occidentale della provincia di Palermo, mentre la parte orientale era infestata dalla comitiva del feroce Leone, la quale spesso irrompeva nel circondario di Mistretta e nella provincia di Caltanissetta. Codeste cinque bande di terribili malfattori avevano sparso lo spavento nelle quiete provincie occidentali dell’Isola ed avevano eseguito, sul cadere del 1875 e nel principio del corrente 1876 diversi sequestri e molti assassinii, tra i quali quello dell’Alberto, del Calzolari, del tenente Soldani, del milite Maggio, di Castellazzo Filippo, dei fratelli Leone ed avevano esterminato le due famiglie Pepe e Giacino in S. Mauro».

Certo ogni banda aveva un’organizzazione complessa e se pure si citavano per nome soltanto quattro o cinque dei suoi componenti, era risaputo che all’occorrenza poteva mostrarsi anche forte di venti e più; ma non per questo non dovevamo temere che qualcuna spingesse l’audacia fino ad aggredirci. ciò contraddiceva al concetto che ce ne siamo andati facendo poi, e che Leopoldo Franchetti ha così bene esposto. Della loro organizzazione, sia stabile, sia periodica od eventuale, le bande solevano giovarsi non contro i forestieri, presumibilmente affatto alieni da ingerenze locali, ma nei loro rapporti coi signori del luogo, che dovevano o rassegnarsi alle loro imposizioni o vedersi combattuti ad oltranza, e anche nei loro rapporti con Ditte e gruppi industriali e commerciali cui assicuravano la loro tutela dietro corrisposta di determinati contributi. Oltre che di ricatti e di rapine, vivevano così di tasse sulla molenda o sulla fabbrica di mattoni o su altre industrie, salvo poi ad affermare sempre meglio all’occasione la pretensione di costituire un nucleo autoritario apparentemente interessato ad integrar l’azione del Governo per la tutela dell’ordine, con episodi di atroci violenze frammisti ad ostentazioni di generosità e di giustizia punitiva. Forse anche per la nostra insignificanza di oscuri viandanti abbiamo potuto affrontare impunemente le visite a Mistretta, a Bivona ed a S. Mauro alle quali la Giunta Parlamentare d’Inchiesta, a malgrado della sua scorta, finì col rinunciare.

Ma se i briganti forse non pensarono nemmeno a tentare un colpo di mano ai nostri danni, noi abbiamo avuto tuttavia ripetutamente la sensazione della loro vicinanza. Talora il nostro piccolo drappello è stato scambiato per una banda, e i carabinieri, a Mistretta ed altrove, e lo stesso Prefetto a Caltagirone, ci confessarono l’errore provocando la nostra più schietta ilarità. Viceversa fin dal nostro primo soggiorno a Palermo, ricevuti dal fratello di un antico aiutante di campo del generale Medici pel quale io avevo una lettera di presentazione, ci sentimmo dire che le loro terre nei pressi di Alia erano visitate frequentemente dai briganti, che il suo fratello ben li conosceva, e che, se ci pungeva curiosità di intervistarli ce ne avrebbe procurato il modo. Declinammo concordi l’offerta per non esporci a quel rimprovero di riconoscerli e di coltivare rapporti con essi che noi stessi facevamo a lui e ad altri siciliani, e, per la stessa ragione, rifiutammo l’offerta che ci venne fatta a Castelbuono di farci entrare furtivamente a S. Mauro nonostante il cordone che un battaglione di bersaglieri vi teneva intorno, nel disegno di sorprendere il brigante Rinaldi che si credeva dovesse far ritorno a quel suo nido naturale, dove già aveva impunemente svernato.

A S. Mauro ci siamo entrati lo stesso, e apertamente, per la scoscesa e pittoresca strada che da Castelbuono vi conduce, e in verità allora le difficoltà, più che per accedervi, erano per uscirne, giacchè i tre punti concessi al passaggio attraverso il cordone militare erano ancor più sorvegliati nel secondo caso. Forse proprio perciò era accaduto che cinque giorni prima, la banda Rinaldi avesse potuto penetrarvi con tutti i suoi cinque uomini confusa fra 50 contadini reduci dal lavoro, e, commesso l’eccidio di tutta la famiglia Pepe, vi avesse affisso uno scritto che diceva «che quella era la giusta punizione di una grande infamia». La spiegazione pare fosse che avendo il padre Pepe, un muratore, attentato all’onestà di una sua nuora, e avendo lo sposo preso seco una ganza, essa nuora, per vendicarsi, propalò che la banda era stata a lungo ricoverata in quella casa, e diede indicazioni per sorprenderla.

Del resto, in un viaggio come il nostro, che nell’interno si svolse insolitamente traverso comunicazioni spesso alpestri e sempre in pessimo stato, emozioni e pericoli non mancarono. Ho sempre vivo il ricordo di una caduta in mare, che mi incolse il 16 aprile, quando ritornati a Palermo, venni pregato dai miei compagni di visitare anche per loro il roccioso isolotto di Ustica e i suoi 212 coatti, mentre essi si fermavano a chiedere chiarimenti a persone già interpellate insieme in precedenza. Il mare si fece assai grosso, l’imbarcazione era primitiva e fragile, e nella difficoltà di accostare, essa si rovesciò e me la cavai con un brutto bagno, che avrebbe potuto essere l’ultimo se non ero discreto nuotatore. Ciò tuttavia non m’impedì di avere poco dopo tre interessanti colloqui: il primo con quel Sindaco, il secondo con un Delegato di P. S., il terzo con un bravo maestro elementare, parente del Sindaco, dal quale generosamente era aiutato a vivere non potendogli bastare le 38 lire mensili nette da ritenuta che riceveva dal Ministero.

 




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