§ 47. — Da Acireale a
Catania e Adernò.
Passiamo ora all’ultima tappa che ci resta da percorrere,
per finire la seconda zona: essa comprende le falde superiori dell’Etna e le
colline sottoposte, e tutta la regione racchiusa fra le quattro città di
Acireale, Catania, Paternò e Adernò.
Il Bosco.
Nella regione più alta detta il Bosco la proprietà
è assai suddivisa, e ogni contadino ha per lo più, sia a censo, sia in
proprietà libera, un piccolo appezzamento in proprio, che coltiva colle proprie
braccia. Qui è comune la mezzadrìa per le terre seminative, e anche talvolta
per le vigne. La popolazione vive sparsa sui poderi o nei numerosi casali.
Regione mezzana.
Nella regione alquanto più bassa e che costeggia
colla Piana, i poderi sono più grandi; si affittano i terreni irrigui e talvolta
anche quelli asciutti seminativi; e le vigne si coltivano a economia o
più spesso a inquilinaggio, forma di contratto di cui diremo or ora.
Però vi si ritrova assai di sovente anche la mezzadrìa per i prodotti del
suolo, esclusi quelli delle colture legnose. Sono qui pure meno numerosi i
caseggiati rurali nei poderi, e la malaria domina nell’estate. I giornalieri,
che vanno specialmente a lavorare nella Piana, abitano quasi tutti nella zona
del Bosco. La coltura principale di tutta la zona mezzana di cui
parliamo è quella della vigna: subito dopo per importanza viene quella degli
agrumi che va ogni giorno estendendosi; indi gli oliveti; e in linea secondaria
i mandorli e gli alberi da frutta.
Nel territorio di Catania si usa gabellare
i giardini di agrumi per sei o otto anni; gli affittuari li coltivano poi col
mezzo di giornalieri. Come regola però, nella regione di cui ora ci occupiamo,
i proprietari coltivano gli agrumeti a economia. Per la custodia del
frutto pendente negli agrumeti e nelle vigne si prendono guardiani a giornata.
In tutti poi i poderi alberati condotti a
economia, il proprietario tiene un massaro o castaldo, il quale
custodisce il fondo, lo lavora pure da sè, se piccolo, e in ogni caso sorveglia
i lavoranti presi a giornata, e la recollezione dei frutti. A un massaro
si darà, a mo’ d’esempio, casa e legna, e al mese 3 onze (L. 38.25), 1 tumolo
(17 litri) di grano, e 2 quartari (1 quartaro = 17 litri) di vino. Questi
stipendi del resto variano molto secondo l’estensione e l’importanza dei fondi.
Nelle vigne spesso il massaro non ha stipendio, ma si assume tutta la coltura
della vigna a estaglio, ossia a tante lire per ogni mille viti.
Per gli olivi e i mandorli, che gli uni e gli
altri si coltivano sempre per conto padronale, si suole vendere al solito il
raccolto pendente a stima di perito, contro tanti gafisi d’olio chiaro
da darsi per ogni macina di olive stimata. Questi contratti si fanno con
speculatori, oppure con associazioni di villani, a cui gli speculatori
prestano, con varie ingegnose combinazioni, a un frutto sempre superiore del
10% e che va sino al 30%, il denaro occorrente. Si calcola comunemente che il
raccoglitore abbia per sua parte un quinto del valore totale dell’olio. Il
frantoio deve essere fornito dal proprietario degli olivi.
Nella regione del Bosco e qualche volta,
ma meno spesso, in quella mezzana, i proprietari affidano ai contadini
l’allevamento di vitelli ed altri animali, e cogli stessi patti che abbiamo
veduto nel circondario di Messina. In questi casi l’allevamento di un animale è
sempre messo tra i patti colonici, e contato come una parte del salario.
I patti di mezzadrìa per i campi nudi seminativi
variano molto secondo i terreni e specialmente in quanto alla contribuzione del
proprietario al seme; si usa pure la mezzadrìa per la coltivazione della terra
sotto gli olivi.
Le contadine allevano i bachi da seta affidati
loro dal padrone in conto sociale, o talvolta ne fanno anche una industria
propria, comprando le foglie di gelso a stima sull’albero, oppure a sacchi.
Dopo l’infierire però della malattia nei bachi, l’industria dell’allevamento si
è molto ristretta.
Il salario dei giornalieri varia ordinariamente
da L. 1.25 a L. 1.70, e in tempo di mèsse in media L. 2.50 a L. 3, arrivando
talvolta a superare le 5 lire.
Presso Catania, come presso tutte le maggiori
città di Sicilia, dove il latte che si consuma è quasi sempre latte di capra, i
caprai possessori di piccole greggi, sono una vera piaga per le vigne e i
poderi alberati; essi nutrono le loro greggi con quanto rubano devastando sulle
terre altrui.
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