§ 64. — Necessità della consuetudine
come barriera alla concorrenza.
Ma
tutto ciò non basta. Il Mill ci ha già insegnato come il pregio maggiore del
sistema della partecipazione del lavorante al prodotto in agricoltura, sia
quello di rendere possibile l’impero della consuetudine, la quale osti
come barriera insormontabile alla progressiva diminuzione della parte spettante
al lavoro, col togliere l’azione della reciproca concorrenza dei
lavoranti256. E difatti senza un tale ostacolo alla mutazione dei
patti, senza una legge di opinione pubblica che impedisca al proprietario o
all’affittuario di diminuire, ad ogni favorevole opportunità, la quota del
lavorante nella repartizione del prodotto, la partecipazione, per quanto
riunisca del resto tutte le condizioni già enunciate, non è al più che un
ingegnoso strumento nelle mani del capitale, per poter ridurre facilmente il
compenso del lavoro al di sotto di quanto, a concorrenza eguale di lavoranti,
potrebbe ridursi col sistema dei salari.
E invero col salario, all’infuori del caso di una
organizzazione dei lavoranti in apposite associazioni di guerra, domina
assoluta la concorrenza, la quale porta in generale alla riduzione della
retribuzione della gran massa del lavoro manuale, fino al puro necessario alla
vita. E data la necessità della conservazione del lavoro come fattore della
produzione, e data, in un determinato tempo e luogo, la misura della regola
minore di vita — di quel minimo cioè di comodi della vita sotto il quale il
lavorante non accetta di lavorare, anche a rischio di morire di fame, — quel
salario minimo possibile sarà in ogni mercato la retribuzione che riceverà una
giornata media di lavoro ordinario, senza presupporvi alcun zelo o intelligenza
eccezionale.
All’incontro, la partecipazione, al pari del
lavoro a fattura, fa sì che il lavorante nella speranza di un maggior guadagno
si sforza fisicamente e intellettualmente a produrre quanto più gli è
possibile. Ciò può realmente giovare al lavorante medesimo, non meno che alla
produzione generale, quando — ed è condizione sine quâ non — sia esclusa
la pressione della concorrenza: ma se invece la concorrenza seguita ad
esercitare senza freno la sua azione, il guadagno medio del lavorante si
ridurrà di nuovo al minimo necessario alla vita; quel minimo però non sarà più
il compenso ad un lavoro ordinario, ma bensì ad un lavoro straordinario
e soverchio per le forze dell’individuo. In altre parole, nessuno può far sì
che il salariato lavori strenuamente mentre lavora, ed egli stesso non ha alcun
motivo per sforzarsi, mentre ne ha molti per fare l’opposto; — colui invece che
è retribuito colla partecipazione al prodotto, si sforzerà spontaneamente
quanto più gli è possibile, e più di quanto possa sopportare la sua salute
fisica o morale, e ciò farà nella speranza di guadagnare di più; ma ridotto
progressivamente il suo guadagno per opera della mutua concorrenza, egli in
fine non riceverà più di chi è salariato, mentre lavorerà di più; il che
equivale a dire che in tal caso, a lavoro eguale, il salariato verrà ad essere
pagato molto di più del mezzadro. E questa non è teoria, ma è in molti luoghi
il puro fatto.
Di più, dato il dominio libero della concorrenza,
il salariato potrà più facilmente migliorare la sua condizione, mediante il
mutuo accordo tendente a restringere la mutua concorrenza, e questo è lo scopo
delle Trades’ Unions inglesi, e di tutte in genere le Associazioni di
mestiere; mentre invece ai mezzadri un’azione comune per ottenere un aumento
nelle quote di divisione riesce nel fatto quasi impossibile; e ciò per la grande
difficoltà di stabilire la vera media dei guadagni dei lavoranti mezzadri, data
la grande varietà nella fertilità naturale o nell’effettiva produzione dei
diversi terreni.
Da tutto questo appare come sia condizione
assoluta per la buona riuscita della partecipazione a pro del lavorante, che la
tradizione, la consuetudine o l’opinione pubblica oppongano una salda barriera
ad ogni mutamento dei patti di divisione del prodotto tra il mezzadro e il
proprietario.
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