§ 84. — Alienazione delle
proprietà demaniali ed ecclesiastiche.
E ad un preconcetto simile si deve attribuire se
in Italia vi fu una tale furia, anche in chi non mirava a scopi finanziari, ad
alienare tutte le proprietà dello Stato e tutte quelle che lo Stato aveva tolte
alla manomorta ecclesiastica, per sottoporre tutto quanto il territorio del
Regno all’istituto della proprietà privata. È un preconcetto simile che fece
ritenere per massima di un’evidenza indiscutibile, che nelle mani dei privati
quei beni dovessero necessariamente venir coltivati meglio che quando erano di
proprietà demaniale. E questa massima doveva esser vera anche là dove si sapeva
che non è il proprietario che coltiva la sua terra e che v’impiega capitali, ma
invece un semplice industriale che non ha che un interesse temporaneo nel
suolo; doveva esser vera anche là dove basta un semplice sguardo per vedere che
i privati nulla fanno per migliorare lo stato delle loro terre, e aspettano
soltanto maggiori rendite dall’opera degli altri, ossia dell’incremento della
pubblica ricchezza e dall’aumento della popolazione; oppur là dove le maggiori
rendite del proprietario si tolgono non da una maggiore produzione, ma da una
sempre più iniqua distribuzione dei prodotti del suolo, e dalla oppressione
della classe più laboriosa, e, moralmente almeno, più sana della nazione.
Ma almeno si fosse badato, nell’alienazione di
quella enorme massa di beni, di farla in quelle condizioni e con quei modi per
cui potesse migliorarsi lo stato economico e morale di una buona parte della
popolazione rurale; onde con ciò arrivare, con la forza dell’esempio, col
risveglio di attività e di forze dormienti, e coll’impulso dato all’opinione
pubblica, ad una lenta, pacifica e benefica rivoluzione sociale in tutta
Italia, e più specialmente nelle provincie meridionali!
Nulla di tutto ciò. Si venda o si dia a censo, ma
si faccia presto; il tesoro ha bisogno di milioni; la libertà e l’iniziativa
privata faranno il resto. Che cosa importa agli economisti officiali che i beni
vadano ad accrescere la grande proprietà! che cosa importa che si distrugga più
di mezzo miliardo di capitale che poteva dedicarsi all’agricoltura! che non si
migliori la condizione che dei camorristi delle aste! Che cosa importa se si
rinunzia all’unico mezzo efficace di produrre una rivoluzione sociale ed
economica in una metà d’Italia, e di far ciò senza mutamenti politici, senza
disordini, nè odii, nè ingiustizie, ma con vantaggio di tutti e attirandosi le
benedizioni di migliaia e migliaia di famiglie, che ora sono una minaccia
continua per la stessa civiltà, e invece potevano diventare un appoggio sicuro
per il nuovo ordine di cose, ed una forza per il paese! Tutte queste sono
naturalmente ubbìe, sogni ideali di filantropi; — la pratica e la realtà sono
che i capitalisti hanno fatto un buon affare; che i grandi proprietari hanno
aumentato il numero dei loro latifondi; che molti terreni già beneficati e in
buona condizione sono andati in rovina, poichè il pagamento delle rate si
toglieva e si toglie dallo sfruttamento e dallo sperpero del podere; che un
mezzo miliardo e più di capitale è sparito nella voragine del deficit finanziario;
che i contadini stanno come prima e staranno peggio in avvenire; e che i
piccoli proprietari vanno diminuendo.
Per nessun’altra regione d’Italia è tanto da
deplorarsi lo sperpero fatto di quella immensa ricchezza che lo Stato aveva
nelle sue mani, come per la Sicilia; e in nessun altro luogo poteva meglio
adoperarsi quella ricchezza come strumento alla rigenerazione del paese, senza
che per questo lo Stato ci rimettesse nulla, nè urtasse le suscettibilità del
più permaloso tra gli economisti Smithiani.
Intendiamoci. Non sosteniamo la manomorta, nè la
proprietà ecclesiastica territoriale. Lo Stato ha fatto indubbiamente bene ad
avocare a sè tutti quei 230,000 ettari di terre ecclesiastiche in Sicilia che
non erano state ancora censite dai titolari. E se ci avesse aggiunto i beni di
molte confraternite laiche, dei collegi di Maria, ecc., avrebbe fatto anche
meglio.
Ma
in primo luogo crediamo che l’alienazione di tutte quelle terre diventate di
proprietà pubblica sia stato un errore economico, poichè ha spogliato lo Stato,
per farne dono ai privati, di tutto quell’aumento progressivo di ricchezza che
sarebbe pervenuto a lui come proprietario di quella smisurata estensione di
terreni, per il solo fatto del graduale incremento del capitale nazionale e della
popolazione. Ed errore più grave, e quasi colpa, è stato l’aver fatto
quell’alienazione in modi e in condizioni tali da portare piuttosto a un
aggravamento delle attuali sproporzioni nella divisione delle terre. Se non si
sapeva far meglio, se tanto col sistema delle aste come con quello delle
quotizzazioni, non si sapeva come conseguire lo scopo di fare dell’operazione
finanziaria il mezzo per iniziare una riforma agraria, si doveva soprassedere,
e non compromettere l’avvenire. Ma inutile è oramai il ragionare su quello che
si sarebbe potuto fare. L’argomento è doloroso quanto poco profittevole.
Guardiamo piuttosto che cosa si fece265.
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