§ 89. — Perequazione
dell’imposta fondiaria.
In fatto d’imposte la prima questione che si
presenta, e una delle più gravi riguardo tanto all’agricoltura come alla
condizione dei coltivatori del suolo, è quella che si riferisce alla imposta prediale
e alla progettata sua perequazione periodica. L’argomento è stato già trattato
da molti, e poco potremmo dire di nuovo intorno alle varie ragioni addotte a
sostegno delle diverse tèsi, ma è tale la importanza della questione di fronte
alle condizioni della classe agricola, che non possiamo tralasciare di dar
qualche brevissimo cenno della nostra opinione in proposito.
I
nostri catasti colpiscono l’industria agricola anzichè la rendita fondiaria;
colpiscono cioè il profitto dei capitali impiegati nel suolo, anzichè la
fertilità naturale del suolo stesso e tutti quei vantaggi che esso ritragga da
condizioni indipendenti dall’opera di chi lo possiede, ossia tutta quella
ricchezza che venga al proprietario all’infuori di qualunque opera sua dal solo
incremento del capitale nazionale e dall’aumento della popolazione. I nostri
catasti difatti prendono per base della imposta prediale la «rendita per ettaro
calcolata sui prodotti d’ordinaria coltivazione, il che significa, le stime dei
prodotti presuntivi ricavabili dagli alberi e dalle erbe esistenti all’epoca
della catastazione»267.
Ogni perequazione dunque fatta su questa stessa
base colpisce i miglioramenti eseguiti nei fondi, ossia il capitale impiegato
nel suolo dal tempo dell’ultima catastazione, con la quota dell’imposta
prediale, cioè in media con una tassa effettiva (calcolata l’imposta
principale e le sovrimposte) di circa il 20% sull’entrata vera, mentre ogni
altra industria è gravata del 9.90% (calcolata la detrazione di 2/8 sulla
rendita imponibile gravata del 13.20); e d’altra parte tale perequazione lascia
esente affatto da ogni aumento d’imposizione, e anzi giunge talvolta a sgravare
la rendita fondiaria che si sia accresciuta nelle mani del proprietario senza
alcun merito di lui. Con questo sistema dunque si darebbe un vero premio a chi
trascura i propri fondi, e colla minaccia di una forte ammenda periodica a chi
impieghi capitali nel suolo, si collocherebbero ogni 10 o ogni 30 anni — a ogni
termine insomma in cui si farebbero le perequazioni — i proprietari in una
posizione simile a quella di un affittuario cui scade il fitto, il quale per
ottenere buoni patti per il nuovo fitto ha un interesse a deteriorare quanto
più può il fondo, e a non fare miglioramenti stabili; colla sola differenza,
che mentre sull’affittuario vigila il proprietario il quale può pure, affin di
ottenere lo stabile miglioramento del fondo, offrire condizioni speciali al
conduttore, sul proprietario invece non vigila nessuno, ed egli dallo Stato non
può sperare abbuoni, nè può con esso patteggiare.
Se
in Italia si credesse davvero alla minacciata perequazione, non vi sarebbe più
un proprietario così pazzo da spendere in miglioramenti agricoli, per vedersene
poi portar via dall’esattore tutto il frutto. Se qualcosa si continua a fare, è
perchè i più non credono alla possibilità pratica di un provvedimento che,
nella forma in cui è stato proposto al Parlamento268, sarebbe un colpo
gravissimo arrecato alla prosperità nazionale; oppure perchè ognuno spera, nella
complicanza delle formalità prescritte per la sua esecuzione, di trovare il
modo di essere esentato a danno del prossimo.
Gli argomenti che ci sembrano più forti tra
quelli che adducono i sostenitori della perequazione, sono i seguenti: —
Principio fondamentale di ogni sistema tributario che non sappia di oppressione
e di confisca anzichè di equità e di eguaglianza, è quello, che ogni cittadino
debba pagare in ragione dei suoi averi. Perchè si dovrebbe dunque vedere un
proprietario di un ricco fondo pagare 10 di tassa, per ciò solo che il catasto
fu fatto in un momento in cui quel fondo era male coltivato e di poco valore,
mentre un altro proprietario di un terreno vicino che non vale la metà del
primo, continuerà a pagare 20 di tassa, perchè all’epoca del catasto quel
terreno era dotato di ricche piantagioni che non esistono più? È questa forse
la giustizia che invocate? Sia pure — essi dicono — che questo difetto dipenda,
come voi sostenete, dall’essere stati fatti male i catasti, poichè si volle in
essi tener conto della produzione effettiva del suolo, e non della fertilità
insita della terra, e delle condizioni estranee all’opera del proprietario le
quali aumentano il valore del fondo; ma oramai la cosa è fatta; si applicò
l’imposta tenendo conto del capitale fisso impiegato nell’industria agricola;
non vorreste voi ora dunque tener conto anche dei mutamenti avvenuti
nell’impianto di quella industria, e aggiungere nell’imponibile i nuovi
capitali impiegati, e detrarre quelli che sono scomparsi in tutto o in parte? E
per quanto vogliate esser teneri dell’industria agricola, non sarebbe voler
andare fino all’ingiustizia, l’esentare da ogni imposta i capitali che si dànno
a quella industria, impiegandosi nella terra, mentre ogni altro capitale e ogni
altra industria aggravate del 13.20 o almeno del 9.90%?
Non è però difficile di rispondere a queste
ragioni. Bisogna risalire un po’ indietro.
L’imposta prediale è per sua natura un’imposta
sul capitale; ma ha questo di speciale a differenza di molte altre imposte sul
capitale: mentre quelle sono una vera e propria confisca a beneficio dello
Stato, di una ricchezza prodotta dal possessore del capitale o da coloro da cui
l’ebbe in dono o in via di successione, l’imposta fondiaria invece colpisce una
ricchezza che non è frutto del lavoro particolare di nessuno, ma è un effetto
della progressiva variazione nella proporzione tra il capitale e la popolazione
da un lato, e dall’altro la quantità limitata di quella parte di terra che sia
posta in certe condizioni più favorevoli, o contenga in sè delle speciali
qualità di fertilità naturale. Questa ricchezza speciale della terra va
generalmente aumentando in ogni paese che progredisce; e non vi è quindi in
teoria nulla che sia contrario all’equità o all’istituzione della proprietà
privata territoriale, nell’aumento progressivo dell’imposta che la colpisce. Le
difficoltà qui vertono piuttosto sul modo pratico di ottenere questo aumento
dell’imposta sulla rendita fondiaria, senza che essa degeneri in tassa
sull’industria agricola, oppure colpisca come aumentata una rendita fondiaria
che nel caso particolare può essere scemata. Quando si potesse in pratica
ottenere che l’imposta prediale non graviti che sulla rendita fondiaria, non vi
sarebbe nulla da obiettare ad una periodica revisione, o perequazione che si
voglia chiamare, dell’imposta stessa, onde seguire quei mutamenti che si
verificano nel valore dei vari terreni, a industria eguale, e indipendentemente
dall’opera dei rispettivi proprietari. E il prof. Basile, il quale ci propone
un mezzo ingegnoso di applicazione dell’imposta prediale sulla sola rendita
fondiaria, ammette difatti anch’egli la revisione ventennale delle mappe
catastali, onde mantenere per tutti la medesima proporzione tra l’imposta e la
rendita.
Ma tutto ciò non implica affatto la conseguenza
che si debba gravare, come si propone di fare col progetto Minghetti, il
capitale che si applica stabilmente all’industria agricola in modo diverso da
qualunque altro capitale che s’impieghi in qualunque altra industria. Qui
sarebbe il caso di applicare un’imposta sulla rendita, ossia l’imposta sulla
ricchezza mobile, e non un’imposta sul capitale, la quale tenderebbe ad
impoverire il paese.
Il nostro sistema tributario ci dà i seguenti
controsensi: — A, B, e C hanno un capitale di un milione per uno. A lo impiega
nell’industria; B compra rendita dello Stato al saggio corrente d’interesse sui
valori, e C compra un fondo pure al saggio corrente d’interessi, il quale
saggio in questo caso sarà alquanto meno che nell’impiego di B, per la maggiore
sicurezza del capitale e per la previsione delle maggiori rendite che la terra
dà ogni anno in un paese di civiltà progrediente. A paga sulle entrate della
sua industria il 9,90%: — B non paga alcuna imposta, poichè egli ha
comprato in Borsa tanti titoli, su cui c’era stampata una cifra di 100 lire
come capitale nominale e una promessa di pagamento annuo di 5 lire, ma che egli
ha pagato 75 lire, sapendo che il frutto annuo era di L. 4.34 e facendo così un
impiego al saggio di 5.78%; nè ha mai più sentito parlare di esattore: — C
nemmeno non paga imposta se si calcola una media di più anni, poichè egli ha
comprato al 5%, detratta l’imposta fondiaria, calcolando le rendite del
fondo sulla media del decennio. Egli paga, è vero, una somma annua a titolo
d’imposta fondiaria, così come pagherebbe i frutti di una parte del prezzo che
non avesse sborsata al venditore, ma questo pagamento non tocca in alcun modo
le sue entrate che sono state calcolate all’infuori di esso. È vero che se
viene un’annata cattiva e in cui manchino tutte o buona parte delle raccolte,
egli dovrà pagare egualmente l’imposta fondiaria, ma anche questo caso era
preveduto, giacchè egli fece i calcoli sulle raccolte medie di un decennio.
Sicchè con questo bellissimo ordinamento delle nostre imposte il capitale non
paga che quando si dà alle industrie, cioè quando più si rende utile al paese.
Ma ora supponiamo che C, che è uomo
intraprendente, impieghi altre 100,000 lire sul suo fondo in parecchie
piantagioni che secondo i suoi calcoli dovranno aumentare in media le sue
entrate di 4000 lire all’anno, oltre una quota di ammortamento delle 100,000
lire computato sulla probabile durata delle piantagioni fatte. È questo un
nuovo impiego industriale che non paga alcuna imposta; «ed ecco — grideranno
gli avversari, — la riprova della necessità della perequazione». Adagio,
signori. Quella nuova esenzione da ogni imposta delle 100,000 lire impiegate
nell’industria agricola, è, non v’ha dubbio, una nuova ingiustizia di fronte ad
A, da aggiungersi alle altre già menzionate. Ma supponiamo ora che si faccia la
perequazione secondo il sistema proposto dal Minghetti. C non pagherà col nuovo
catasto, non più che col vecchio, alcuna imposta sul milione impiegato nella
compera del fondo; ma gli verrà invece applicato un aumento d’imposta fondiaria
per quelle vigne e quegli oliveti ch’egli avrà creato coll’impiego delle
100,000 lire, e queste verranno quindi tassate in media per lo meno al 20%
della rendita effettiva, ossia pagherà circa 800 lire annue di più per punirlo
dell’aver pensato ad impiegare un capitale nel suo fondo e della sua
presunzione di voler migliorare il suolo del suo paese. E si sarà commesso, in
nome di non sappiamo bene che cosa, una nuova ingiustizia, gravando quel
capitale di C del 20%, invece che del 9,90 come ad A; e ciò soltanto perchè si
tratta d’industria agricola invece che manifatturiera. Il che appare tanto più
strano e inconcepibile quando si pensi come la ragione fondamentale
dell’istituzione della proprietà privata territoriale sia appunto quella
di promuovere maggiormente l’industria agricola. — O non sarebbe più
giusto il gravare A, B, e C, ognuno sulle sue rendite complessive, coi criteri
della ricchezza mobile, o piuttosto della nostra tassa di famiglia comunale, qualunque
sia la fonte da cui quelle rendite provengano, e lasciando soltanto per di più
sul fondo di C l’imposta prediale depurata da ogni elemento di tassa
industriale? —
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