§ 90. — L’imposta fondiaria
e la piccola proprietà.
Molto
avremmo ancora da dire sulle incongruità del nostro sistema d’imposte, ma non
vogliamo dilungarci dall’argomento principale. Quanto al modo di ordinare
l’imposta prediale in guisa da colpire solamente e progressivamente la rendita
fondiaria, il sistema proposto dal Basile, alla cui opera rimandiamo il
lettore269, ci sembra ingegnoso, e tale da soddisfare con sufficiente
approssimazione le esigenze della teoria. Egli dimostra pure con logica
stringente come il nostro metodo attuale di catastazione sia contrario alla
piccola proprietà, e tenda ad accrescere il numero dei latifondi.
Il piccolo proprietario, più intraprendente ed
industrioso, coltiva diligentemente il suo fondo, e quindi risente tutta la
gravezza di un’imposta che colpisce la sua industria cogli stessi criteri con
cui colpisce il fondo stesso. Dicemmo già che il proprietario non risente il
peso dell’imposta prediale che aggrava il suo fondo, sia ch’egli abbia
acquistato quel fondo per compera, sia che lo abbia ricevuto da altri in dono o
in eredità, e ciò perchè quell’imposta avendo la stessa natura di un livello
colpisce piuttosto il capitale che la rendita, onde il proprietario non paga, computata
la media dei raccolti che è quella che dà il valor capitale al fondo,
nessuna imposta. Ma se ciò è verissimo in teoria e in pratica per il grande
proprietario, il quale può calcolare le sue entrate sulla media dei raccolti, e
può anche assicurarsi questa media per mezzo del fitto del latifondo per epoca
non breve, non è nella pratica egualmente esatto riguardo al piccolo
proprietario, e specialmente al contadino proprietario, il quale altra risorsa
non ha che quella dei prodotti del suo fondo; imperocchè per questi l’imposta
prediale diventa negli anni cattivi una terribile realtà, e tale da costringerli
al debito, e talvolta da ridurli a doversi lasciar espropriare il fondo. Essi
non possono assicurarsi dalle cattive annate coi proventi delle buone; per essi
spesso non monta che la media dei raccolti sia superiore al pagamento fisso che
debbono sborsare ogni anno, giacchè per rovinarli irrimediabilmente basta che
per uno o due anni di cattive raccolte non vi sia un margine sufficiente nei
prodotti del fondo al di là dell’imposta fondiaria. Anche il piccolo
proprietario che non coltivi il proprio, può difficilmente ricorrere al fitto
per assicurarsi dai rischi, poichè quelle stesse colture ch’egli avrà
introdotte nel fondo con piantagioni di olivi, vigne, ecc., rendono troppo
pericolosa ogni forma di fitto tanto per la conservazione del capitale come per
le rendite avvenire.
I grandi proprietari.
È
poi tendenza naturale del grande proprietario d’impiegare i suoi capitali
nell’acquisto di nuove terre, anzichè nel migliorare quelle che già
possiede270. Egli ottiene così parecchi vantaggi: 1° quello di
aumentare la sua importanza sociale e la sua potenza politica; 2° quello di
potersi meglio assicurare da ogni variazione di rendita, coll’affitto dei nuovi
fondi come dei vecchi, il che gli sarebbe più difficile ove tendesse soltanto a
migliorare questi ultimi; 3° egli si assicura da ogni eventuale aumento di
gravezze per il fatto di qualsiasi nuova perequazione dell’imposta fondiaria,
mentre nell’altro caso il suo capitale impiegato in miglioramenti avrebbe
dovuto sopportare, oltre i maggiori rischi dell’impiego, un forte difalco ad
ogni nuova catastazione. E inoltre, col lasciare le sue terre quasi incolte e
prive di capitali, egli si assicura pure da un altro pericolo, vagamente
intraveduto, ma che da un momento all’altro potrebbe diventare molto più
immediato e sensibile; egli cioè evita di offrire presa a tutte quelle
pressioni che i lavoranti potessero mediante l’accordo, l’emigrazione o altro,
voler esercitare sui proprietari, per partecipare anch’essi al godimento della
rendita fondiaria. Il proprietario che abbia forti capitali impiegati nella
industria agricola si trova in ogni lotta simile contro il lavoro, in una
posizione inferiore a quella di chi nulla ha speso per il suo fondo; il primo,
di fronte alla pressione dei lavoranti, fosse pure esercitata col solo
sciopero, rischia non soltanto una parte delle sue entrate, ma spesso anche
l’esistenza dei suoi capitali, mentre il secondo rischia colla resistenza
soltanto una parziale e temporanea diminuzione di entrate, rischio ch’egli
incontra volentieri, poichè lo salva da una minacciata diminuzione duratura.
Tutto questo però è dannoso alla società, e
contrario allo stesso fine della istituzione della proprietà privata
territoriale, onde apparisce quanto gravi sono i danni di una catastazione che
non riposi sopra principii scientifici e quanto peggio diventerebbero ad ogni
perequazione che s’informasse ai concetti del progetto di legge stato
presentato al nuovo Parlamento. Non lasciamoci illudere dalle parole; quella di
«perequazione» suona lusinghiera e riparatrice di torti e di ingiustizie, ma
essa può invece, come nel caso attuale, diventare il mezzo di premiare i
maggiori nemici della società, l’ozio e il vizio, e di punire l’operosità utile
e l’onesto lavoro.
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