§ 94. — La mezzadrìa
secondo il Codice Civile.
Abbiamo finito colle imposte. Ora volgendoci alla
legislazione civile, diremo prima succintamente di alcune piccole mende che ci
sembra presentare il nostro Codice civile nelle sue disposizioni intorno alla
colonìa o mezzadrìa, ed all’enfiteusi; e quindi studieremo tutte quelle più
radicali proposte che sono state fatte riguardo a innovazioni nei contratti
agricoli, da imporsi per legge ai proprietari.
Fu
grave torto del nostro Legislatore di aver preso per tipo del contratto di colonìa
quella forma che è praticata in Piemonte e in Lombardia, e che più s’informa al
concetto di vero e proprio fitto che a quello di mezzadrìa, ossia di
società274. Negli articoli del Codice difatti si parla sempre di
locatore e di conduttore; — si applicano in generale alla colonìa le regole
della locazione, e in particolare quelle della locazione di fondi rustici (art.
1647), sicchè il colono resta libero di dirigere a modo suo l’economia agricola
del suo podere; — si suppone in mancanza di consuetudini locali o di
convenzioni espresse, che tutto il bestiame e gli strumenti agricoli debbano
appartenere al colono (art. 1655). Nel capitolo successivo sulla società si
prescrive che «se il bestiame è perito, o il suo valore primitivo diminuito senza
colpa del conduttore, la perdita è a carico del locatore», (art. 1675).
Orbene,
tutte queste disposizioni non solo non rispondono alle consuetudini locali
della più gran parte d’Italia, ma nemmeno a quelle principali dell’Italia
centrale, dove la mezzadrìa è meglio riuscita sotto ogni riguardo. Benchè il
Codice non presuma regolare il contratto di colonìa nei suoi particolari,
laddove vi siano consuetudini locali, pure le regole generali sulla locazione
sono dettate in modo imperativo, e vi è inoltre l’inconveniente anche per le
altre, di istituire una tendenza ad avvicinare la pratica generale alle
disposizioni legislative, il che per molte provincie sarebbe un danno, con
buona pace dell’avv. Ercolano Ercolani275, il quale, innamorato della
sapienza del legislatore, non sa rendersi ragione della passiva resistenza
degli agricoltori a conformarsi a tutti quanti i dettami anche facoltativi del
Codice.
Perchè non prendere per tipo del contratto
colonico, anzichè quello adottato dal Codice Albertino, l’altro del Valdarno,
regolato dalle leggi leopoldine e dalla successiva giurisprudenza toscana?
Avremmo anzichè un contratto di locazione, uno di società, e il bestiame
verrebbe dato dal proprietario, e per conto metà profitti e perdite. Col
diritto nel proprietario di aver voce nella coltivazione del fondo, si rendono
possibili i progressi nell’agricoltura; e col bestiame prestato dal
proprietario e in conto metà, si assicura al fondo una sufficiente
concimazione, si salva il contadino da tutti quei cambiamenti nel contratto che
sarebbero resi facili dal mescolarvi un elemento di fitto, e si distribuisce
egualmente tra i due soci, il proprietario e il contadino, ogni spesa e ogni
profitto del podere. Si noti che anche nel Bergamasco, dove esiste una mezzadrìa
sul tipo di quella considerata dal nostro Codice, i proprietari più
intelligenti cercano, e per ora invano, di mutare gli usi locali, e
d’introdurre il sistema del bestiame per conto metà.
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