§ 100. — Del diritto ai
miglioramenti introdotti nel fondo.
Quanto alla questione se la legge debba con
disposizione tassativa ordinare che il coltivatore, alla scadenza del suo
contratto, abbia sempre diritto a ricevere un compenso per i miglioramenti da
lui introdotti nel fondo, crediamo che il bisogno di una qualche riforma in
questo senso si manifesti assai generalmente in Italia. Più volte in Lombardia
ci furono raccontati dagli stessi proprietari, casi di affittuari che si erano
quasi rovinati per migliorare i loro fondi, e che poi alla scadenza del loro
contratto si sono visti aumentare fortemente il canone d’affitto, per il fatto
stesso di altri affittuari concorrenti; e ciò al punto, che hanno dovuto
abbandonare il fondo per mancanza di mezzi sufficienti, e lasciare che altri
godesse dell’opera loro, insieme col proprietario che nulla fece per meritarsi
quell’aumento di ricchezza. Non vi è qui vera spogliazione, sanzionata dalla
legge? Gli stessi fatti, in proporzioni più o meno serie, accadono dappertutto,
e non sarebbe quindi che di pura giustizia che la legge provvedesse in qualche
modo.
Proposta Jacini.
Il
Jacini281, esaminando questa questione dei miglioramenti, a proposito
degli affitti all’asta dei beni delle Opere pie, propone l’adozione del sistema
seguente che egli trovò in vigore in Francia nelle vicinanze di Chartres, e che
là aveva prodotto ottimi risultati: —
«Le locazioni hanno una breve durata, cioè di
sei, di sette, di nove anni al più. Alla scadenza, se il conduttore propone di
rinnovare il contratto alle stesse condizioni di prima, rimane libero al
locatore di accettare o no, come dovunque suol avvenire. Ma se il conduttore
propone di rinnovare il contratto con aumento di prezzo, allora si fa
luogo ad un patto il quale si usa di prevedere in ogni strumento, e che
entrambe le parti sogliono accettare volentieri. Questo patto è come segue: Nel
caso che il conduttore offra di rinnovare l’affitto con aumento di prezzo, il
locatore può ancora accettare o rifiutare, ma se rifiuta è obbligato a pagare
al conduttore una somma corrispondente al triplo dell’aumento propostogli da
questo, e ciò per una volta tanto. Per esempio, se un conduttore pagava 80
franchi per ettaro, e al giungere della scadenza offre di rinnovare l’affitto
aumentando il prezzo con 5 franchi per ettaro, il locatore, se si rifiuta di
accettare deve assoggettarsi a sborsare per una volta tanto, una somma di 15
franchi per ogni ettaro, ed a permettere che l’altro trattenga tal somma
sull’ultima annata di affitto, per cui in quell’annata non gli pagherà che 65
franchi». — E l’autore seguita a dimostrare l’utilità e la giustizia di questo
patto, e a confutare alcune obiezioni che vi si fanno.
Nulla impedirebbe che un tal patto, libero là
dove l’osservò il Jacini, potesse anche imporsi per legge in Italia o in quelle
regioni di essa dove più se ne manifestasse il bisogno. Il sistema si fonda sulla
presunzione che l’aumento che offre il fittabile dipenda dai miglioramenti che
ha intrapresi; ed è inteso a garantirgliene in parte il godimento.
Si possono però muovere contro una tale proposta
altre obiezioni oltre quelle di cui parla il Jacini.
Supponiamo che in un fondo affittato per 1000
lire l’anno per un termine non lungo, l’affittuario abbia speso 2000 lire in
miglioramenti stabili. Se questi denari sono stati bene spesi — con un impiego,
diciamo, del 5% — quel fondo potrà procurare al proprietario, in un nuovo
contratto, un canone annuo di 1100 lire. Facciamo ora diverse ipotesi:
1° Il primo affittuario, alla scadenza del primo
contratto, non offre aumenti, giacchè a lui par cosa ingiusta di non dover
godere egli solo di tutti quanti i frutti del capitale speso nei miglioramenti,
e di doverli dividere col proprietario. Egli non avrebbe quindi, secondo il
sistema Jacini, alcun diritto a compenso, e verrebbe scacciato dal
proprietario, che così si locupleterebbe a danno di lui di 2000 lire nette.
Dove è qui la giustizia?
2° L’affittuario rinunzia a voler godere nel
secondo affitto di tutto quanto il frutto delle 2000 lire da lui spese, e
contentandosi di una metà, offre al proprietario un aumento di fitto di 50 lire
l’anno. Se il proprietario, supponendolo uomo di buona pasta, accettasse, egli
si sarebbe a ogni modo locupletato ingiustamente di un valor capitale di 1000
lire. Ma invece, puta caso, si presenta un altro candidato, il quale calcolando
sul saggio corrente di profitto industriale, offre 100 lire d’aumento di fitto.
Il proprietario paga al primo affittuario una somma di 150 lire, ossia tre
volte l’aumento da lui offerto, e accetta il nuovo concorrente. Dov’è anche qui
la giustizia? Da una parte il proprietario ha guadagnato 1850 lire nette, e
dall’altra l’affittuario ne ha ricevute 150 in compenso di 2000 spese con
vantaggio effettivo del fondo. — Ma, si dirà, il primo affittuario sapendo che
l’aumento che offriranno gli altri concorrenti sarà di 100 lire, dovrebbe
offrirle egli stesso. — E allora, domandiamo noi, dove e come godrebbe egli dei
miglioramenti da lui fatti, quando dovesse pagarne annualmente l’intiero frutto
al proprietario?
Tutto il più che potrà fare l’affittuario, col
sistema proposto dal Jacini, per fruire il massimo possibile dei suoi
miglioramenti, sia che il proprietario lo licenzi o rinnuovi con lui l’affitto,
è di offrire precisamente quella somma, al di sotto della quale al proprietario
converrebbe di pagargli tre volte l’aumento per accettare la nuova offerta
delle 100 lire che gli farebbe qualunque altro affittuario, e al disopra della
quale al proprietario ciò non converrebbe più, ma l’affittuario d’altro canto
rinunzierebbe senza ragione, nella rinnovazione dell’affitto, ad una parte del
frutto dei miglioramenti da lui fatti.
Supponendo che nelle condizioni del mercato in un
dato momento, a rappresentasse quell’aumento di fitto annuo di fronte al
fitto precedente, che qualunque affittuario offrirebbe per avere il fondo
migliorato, n il numero di volte per cui si moltiplica l’aumento offerto
dal primo affittuario onde ottenere la somma che deve restituirgli il
proprietario nel caso di non accettazione della sua offerta, e c la
cifra del saggio corrente d’interesse per cento nella piazza; — per trovare la
cifra che si ricerca, ossia l’x che rappresenti la massima offerta che
possa fare l’affittuario a proprio vantaggio, bisognerebbe fare la seguente
operazione di calcolo:
x n c/100 = a – x;
e s’avrebbe che x = 100 a/(100 + n c)
E nel caso citato a essendo 100, n essendo
eguale a 3, e supponendo che c fosse 5 (al saggio corrente del 5%), x = 86,95;
il che significa, a mo’ d’esempio, che se il primo affittuario offre 85 lire
d’aumento, al proprietario converrà di accettare piuttosto le 100 lire
d’aumento offerte da un terzo, e di pagare al primo affittuario 255 lire; e che
invece se questi ne offrirà 88, egli perderà più del necessario sul profitto
dei miglioramenti da lui fatti. Il compenso quindi che il sistema in discorso
procurerebbe al primo affittuario sarebbe di L. 13.05 di frutto annuo, oppure
del valor capitale corrispondente (al 100 per 5: L. 261), di fronte a 2000 lire
di spesa.
Insomma a – x
rappresentando precisamente il frutto effettivo annuo, di cui il metodo
proposto dal Jacini lascia il godimento all’affittuario, 100(a – x)/c
rappresenterebbe esattamente quella parte del capitale da lui speso nel fondo,
della quale egli continuerebbe a godere i frutti in un nuovo affitto, mentre
100 a/c rappresenta l’effettivo valore dei miglioramenti
arrecati nel fondo. — Orbene, perchè questi due termini fossero eguali, il che
significherebbe che il compenso ricevuto dall’affittuario equivarrebbe ai
miglioramenti effettivi da lui fatti nel fondo, x dovrebbe essere eguale
a zero; e conseguentemente quanto più diminuirà x, tanto più prossimo
sarà il compenso al valore aumentato del fondo. Ma avendo noi già stabilito la
formola x n c/100 = a – x;
ed essendo a e c termini fissi, e non dipendenti dalla volontà
del legislatore, altro modo non vi è per ridurre l’importare di x, che
quello di aumentare il valore di n, ossia, in altre parole, di aumentare
il numero delle volte per cui il proprietario, nel caso che rifiuti gli aumenti
offerti dal primo affittuario, dovrà moltiplicare la cifra di questi aumenti,
per ottenere la somma che gli deve a titolo di compenso. Così, supponendo che n,
invece di rappresentare la cifra 3 come nella proposta Jacini, figurasse invece
quella di 20, avremmo, tenute ferme le altre cifre dell’esempio già adottato, x = 50;
e 100(a – x)/c = 1000; mentre
100 a/c sarebbe sempre 2000: onde il compenso effettivo che
otterrebbe l’affittuario sarebbe della metà del valore dei miglioramenti,
l’altra metà andando a profitto del proprietario; in altre parole,
l’affittuario avendo impiegato capitali nel fondo in miglioramenti che rendono
effettivamente il 5%, riscuoterà invece durante il termine del secondo fitto il
2 1/2% sullo speso. Ma ciò non basta.
Alla scadenza del secondo affitto, supposto per
comodo di ragionamento che nessun nuovo miglioramento sia stato fatto nel
fondo, il medesimo affittuario dovrebbe, o con nuove offerte di aumento di
canone rinunziare ad una nuova parte del suo capitale impiegato durante il
primo fitto, e di più ai frutti di quel capitale, oppure perdere tutto quanto,
capitale e frutti, sia ritirandosi dinanzi ad altri concorrenti, sia offrendo
un canone equivalente all’intiero aumento di valore del fondo. Di questo caso
il Jacini non parla, ma esso non ci pare dissimile dal primo, e non vediamo
ragione per cui all’affittuario non si debba accordare in un secondo
rinnovamento del fitto quel compenso che gli si sarebbe accordato al primo, e
ciò per il solo fatto che il suo primo affitto gli sia stato già una volta
riconfermato. Bisognerebbe dunque — per non cadere negli stessi danni e nelle
stesse ingiustizie che si vorrebbero evitare — conservare nel medesimo
affittuario il diritto, finchè resta sullo stesso fondo, di ottenere dal
proprietario, a qualunque rinnovamento del suo fitto in cui non venissero
accettate le sue offerte di aumento, o a qualunque scadenza del fitto in cui,
senza sua colpa e per volontà del proprietario, dovesse lasciare il fondo, di
ottenere, diciamo, un compenso in una somma equivalente a n volte
qualunque aumento di canone da lui offerto per l’avvenire, contando come
aumento ogni differenza in più che corra tra il nuovo canone offerto, e il
primo canone del suo primo affitto di quello stesso podere. Inoltre n
dovrebbe rappresentare una cifra molto superiore a quella di tre volte, come
proposta da Jacini; giacchè anche portata a 20, non importerebbe, al saggio
corrente d’interesse del 5%, che un compenso della metà del valore aumentato
del fondo. D’altra parte, considerando che l’aumento di valore della terra è
spesso indipendente da qualunque opera o fatto dell’affittuario, e che non vi è
alcuna ragione perchè un aumento di tal natura debba andare all’affittuario,
anche per il tempo al di là del termine del suo fitto, anzichè al proprietario
sul quale gravano le imposte fondiarie, che quell’aumento prendono di mira,
crediamo che sarebbe provvedimento abbastanza equo il fissare che n
dovesse rappresentare da 10 a 15 volte l’aumento offerto dall’affittuario.
Con
queste modificazioni ci sembra che il sistema proposto da Jacini282
raggiunga abbastanza lo scopo, e che esso meriterebbe la sanzione legislativa.
In tal caso il legislatore dovrebbe naturalmente anche prescrivere che
qualunque rinunzia preventiva che l’affittuario facesse del proprio diritto, e
qualunque stipulazione contraria al disposto della legge, dovessero
considerarsi come nulle e non avvenute. Il diritto speciale poi concesso dalla
legge all’affittuario potrebbe in certe determinate condizioni esser reso anche
trasmissibile ai terzi, per vendita, donazione o successione. Beninteso che
dovrebbe esser sempre lasciata libera al proprietario la scelta di pagare
all’affittuario, invece che una somma eguale a 10 o 15 volte l’offerta maggiore
da lui fatta, semplicemente il valore integrale dei miglioramenti lasciati nel
fondo, da stimarsi con perizia; a questo modo si evitano possibili tranelli ed
ingiustizie.
Però non basterebbero forse nemmeno tali
disposizioni a compensare sufficientemente l’affittuario per quelle spese più
forti che talvolta si richiedono per la regolare coltivazione di un fondo, come
quelle per la costruzione di caseggiati, per lo scasso di terre incolte, per la
condotta delle acque, onde prosciugare il terreno o renderne possibile la
regolare irrigazione, ecc. Per questi casi speciali, e segnatamente per quello
delle costruzioni, la legge dovrebbe prescrivere tassativamente le norme che
regolassero i compensi dovuti dal proprietario; le quali norme dovrebbero pure
assicurare i proprietari dalle spese soverchie o di lusso che volessero fare
gli affittuari, e stabilire un maximum oltre il quale non fosse mai
dovuto compenso di sorta per miglioramenti eseguiti senza espressa convenzione;
giacchè lo scopo del legislatore deve esser più che altro quello di garantire
dall’ingiustizia il piccolo affittuario povero e debole, e non il ricco capitalista
che sa quello che fa, e il quale non è costretto da alcuna necessità ad
impiegare i suoi denari e la sua fatica in un modo piuttostochè in un altro.
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