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Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino
La Sicilia nel 1876

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  • LIBRO PRIMO   CONDIZIONI POLITICHE E AMMINISTRATIVE DELLA SICILIA
    • PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE
      • IV
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IV.

 

Nel leggere la Relazione della Giunta si avverte con sorpresa che essa ha palesemente evitato di parlare dei briganti. Essa riconosce bensì che in Sicilia ricorrono con grande frequenza i reati di sangue, il malandrinaggio nelle campagne e le associazioni di malfattori, ma se pure nel tener parola di quest’ultime, usa anche l’espressione bande (pag. 140), e prima, a proposito del malandrinaggio, attribuisce alle associazioni dei malfattori i ricatti delle persone quantunque eseguiti in rasa campagna, «giacchè è raro che non sieno preparati da lunga mano in conciliaboli di associati e di manutengoli nelle città» (pag. 131), ecco tutti i suoi principali commenti: «È una vera lotta d’intelligenza e di raziocinio che la barbarie sostiene contro la società». «È su questo punto che scattano più calde e più implacabili le accuse e i lamenti contro i poteri pubblici». «....Secondo le deposizioni Pellegrino, Messina e Cesarò le bande dei malfattori ricevono visite e tengono relazioni con la pubblica forza». Così scarsi e scoloriti accenni vanno connessi col proposito della Giunta di spiegare la massima parte dei fenomeni dolorosi della vita siciliana come conseguenza «di una minor preparazione dell’altre provincie italiane all’austero e difficile regime della libertà». Così sfuggono molte colpe e molte responsabilità. E anche altrove la Giunta accenna solo di sfuggita ai reati che pur sono più caratteristiciricatti audaci come quelli eseguiti l’anno addietro sulle persone del barone Porcari, del barone Sgadari, del Camaroni sequestrato in piena città, agguati in cui cadde la forza pubblica nei poderi del barone Varisano e dei fratelli Cataldi») tutta lieta di constatare che con la sua visita ebbe a coincidere un periodo di tregua iniziatosi mesi addietro, ma costretta a confessare che i più esperti lo ritenevano una delle solite oscillazioni di intensità (pag. 116 e 117). Ma come non considerare il brigantaggio siciliano un gravissimo fenomeno morboso e peculiare dell’isola, quando se ne rintracciano le origini nella reazione contro il feudalismo ferocemente vissuto, quando abbiamo appreso di briganti cresciuti nel mestiere per atavismo, di altri che tali si fecero per isfuggire a quella leva militare la quale prima del 1860 era sconosciuta e nel 1860 venne imposta con rigore eccezionale5, quando sapevamo che le bande si formano e si rinnovano così di frequente e in tante plaghe diverse? Sia pure che altri ancora diventarono briganti perchè resi sempre più tristi nella loro intolleranza delle discutibili leggi sull’ammonizione e sul domicilio coatto; che parecchi ruppero con baleni di generosità la fosca sequela dei propri reati; che taluni non negarono preziosi servizi nell’urgenza di qualche movimento politico agli uomini d’ordine ed al Governo, i quali ebbero gran torto nel richiederneli senza sentire in pari tempo la responsabilità di convertirli in buoni cittadini durevolmente. Certo è che ai nostri occhi concretavano il pervertimento morale dell’ambiente, pervertimento che si faceva poi sempre peggiore per la loro triste influenza.

A Ribera abbiamo saputo di un caso che ci la misura di questa reciproca azione. Si erano sequestrati due dei sette fratelli che componevano la famiglia Bonifacio. Uno di loro venne rimandato presso di essa per ottenerne il danaro del riscatto; invece egli stesso, i fratelli e gli amici si unirono per dar la caccia ai briganti riuscendo ad ucciderne due e a liberare l’altro fratello. A tutti fu data la medaglia al valore civile, che avevano davvero ben meritata. Senonchè non tardarono ad accorgersi che si tramava la vendetta, e dovendo pur recarsi di frequente nelle campagne pei loro affari si decisero a pagare anch’essi un tributo alla banda per non essere molestati, e presero parte perfino ad un pranzo di riconciliazione.

Può anche darsi che la Giunta si sia lasciata vincere dall’ottimismo per un certo riguardo politico. Gli è infatti che il brigantaggio non potrebbe vivere senza il manutengolismo, e il porre questo nella sua piena luce offende l’amor proprio dei moltissimi che lo praticano e si affannano a giustificarne la vergogna con la mancata tutela del Governo. Noi invece abbiamo preferito ritrarre fedelmente la situazione nella sua crudità, convinti che se pure era raro che il manutengolismo nascesse cosciente, e fosse deliberatamente volontario, rimaneva altrettanto pernicioso allorchè, caso assai più frequente, era conseguenza ultima di una serie di rapporti, superficiali prima e via via più stretti fra briganti e cittadini.

Il Franchetti ce ne ha dato tre esempi abbastanza eloquenti qua e nei suoi §§ 20 e 21. Io voglio aggiungerne qui un altro non già raccolto da noi nei colloqui di allora, ma che balza fuori vibrante di verità dall’interessante lettura di due volumi di memorie pubblicati a Parigi in francese nel 1830 coi tipi Delafont dal proscritto siciliano Michele Palmieri di Miccichè. L’essere l’episodio seguito tanto prima della nostra visita è una prova di più che il brigantaggio ha vecchie radici naturali nell’Isola e proprio nella sua medesima fisonomia.

«Era un pomeriggio dei primi di luglio. Mio fratello che era intento a scrivere nella sua camera mentre i domestici stavano finendo il loro pasto, si vide dinanzi all’improvviso tre uomini armati di tutto punto che gli fecero molti inchini per attenuare a loro modo l’impressione sgradevole delle loro faccie e della loro apparizione. Signor marchese, gli dissero, non abbiate paura, siamo brava gente e non vogliamo far male a nessuno, ma abbiamo bisogno di denari. Mio fratello, che intuì di non poter fare diversamente, fu loro cortese e lamentò solo di non essere stato prevenuto della visita. I domestici erano stati rinchiusi a chiave, ed altri nove briganti vigilavano fuori a cavallo. Alcuni abitanti di Villalba fecero sapere di volere accorrere a riscossa: ma mio fratello li fece pregare di rimaner tranquilli, ben sapendo che in caso di resistenza, se pure i briganti fossero stati messi in fuga, o presi, od uccisi, c’era da aspettarsi una feroce vendetta, e per lo meno il fuoco ai quattro angoli della proprietà con la distruzione delle messi e dei boschi: egli fece quindi imbandire una gran tavolata e pregò che non fossero troppo esigenti perchè egli non era l’esclusivo padrone. Mangiarono bene e bevvero meglio, poi intascate duecento oncie (circa 2550 lire italiane prebelliche) e fatte molte riverenze, presero la via del ritorno, sfilando per quattro sotto il comando del loro capo Luigi Lana, davanti a mio fratello che se ne stava ad un balcone sovrastante la porta d’ingresso per dar loro il buon viaggio, augurandosi di non più rivederli. Quand’ecco uno tra essi che doveva aver bevuto più degli altri, gli rivolge una sequela di atroci ingiurie rimproverandolo di averli canzonati con un così meschino riscatto. Luigi Lana gli puntò subito contro il fucile, e mentre tutti si tacevano terrorizzati lo freddò, e cadutone il cadavere dal cavallo, si precipitò di sella, estrasse la sciabola, gli tagliò netto il capo e gettatolo in un sacco che tolse dalla sella, lo presentò sanguinante a mio fratello, dicendogli: — Signor Marchese, egli vi aveva mancato di rispetto dopo che voi ci avete così bene accolti da dovervene essere riconoscenti. Tal sia di ognuno che vorrà offendervi come lui. — Mio fratello, in preda alla più viva emozione, pur rifiutando l’orribile presente, dovè ringraziare». Lo scrittore aggiunge che la banda da allora in poi continuò ad essere piena di riguardi pel marchese suo fratello e per gli abitanti di Villalba, ma chissà quali e quanti favori ne ottenne alla sua volta! Certo s’intuisce che lo scrittore non poteva confessarlo pubblicamente se pur ne era informato — ma siffatte subdole ed accortissime arti, meglio ancora della paura, dovevano riescire, in quel tempo come al momento della nostra visita, ad assicurare intorno alle bande brigantesche, quella rassegnazione passiva iniziale che esse sanno far presto degenerare in più o meno aperta complicità.

La Relazione della Giunta d’Inchiesta non vuole che sieno considerati manutengoli coloro che terrorizzati dalle minaccie aderiscono a ricoverare una banda nella propria masseria o s’impegnano al silenzio sui suoi atti ed andamenti o perfino, in caso di ricatto, preferiscono trattare direttamente con essa all’aiutare le ricerche dell’autorità (pag. 46). A ragione il Franchetti osserva che talvolta la paura spinge altresì a dare armi ed informazioni utili ai briganti e che le condizioni di fatto della Sicilia non consentono di trovare un criterio per distinguere il manutengolo che vi obbedisce dal volenteroso e per determinare il momento in cui al timore delle ostilità si frammischia o subentra la speranza di un vantaggio o di un lucro (§ 65). È accaduto così che poco dopo la nostra visita il feroce capobanda Sajeva fosse sorpreso dalla forza mentre in un casino poco discosto da Girgenti prendeva parte unitamente ai suoi compagni ad un lauto pranzo che gli era stato offerto da un barone e da un cavaliere.

Indipendentemente dal manutengolismo, noi abbiamo potuto accertarci, mentre la Relazione della Giunta lo ha escluso, che in Sicilia s’è formato un ambiente favorevole ai briganti, anche perchè in generale perfino i più feroci di essi, si avvantaggiano di una vaga aureola che ha suscitato qualche tratto di generosità, qualche lampo di eroismo, qualche riparazione di ingiustizie da parte di altri. Io debbo confermare, a malgrado di ogni smentita, che più d’una volta abbiamo sentito parlare di loro con simpatia ed ammirazione anche da funzionari dello Stato. Non c’è che da congratularsi dell’indignazione che questa rivelazione ha sollevato, e da augurarsi che prorompa sempre più calda, ma mi sembra eccessivo il volerla smentire; del resto anche nelle Riviste più reputate se n’è scritto con deferente interessamento, e per darne un esempio, ecco un periodo che esalta il loro valore, tolto da un articolo che fu inserito nella Nuova Antologia del febbraio 1877 da Enrico Onofrio, un siciliano molto verosimilmente anche pel nome: «Briganti si aggirano attualmente per le campagne dell’isola, lasciando fama delle loro prodezze. Il più famigerato è Antonino Leone. Furono uccisi per vendetta privata, o per invidia di mestiere, Valvo, Rinaldi, Di Pasquale, Lo Cicero, Capraro di Sciacca. Questi fu ucciso dalla pubblica forza dopo che, abbandonato dai suoi compagni, sostenne da solo due ore di combattimento contro un gran numero di soldati. Valvo fu assalito in una casa dove trovavasi con la sua amante e morì combattendo. Di Pasquale fu ucciso da Leone per odio personale. Botindari trovasi ora in prigione. Egli resistette per parecchie ore contro gli assalitori; abbandonato dai compagni continuò a combattere; ferito gravemente si diede alla fuga, corse per più di due miglia, dopo le quali cadde a terra sfinito. Uomini di tale audacia s’impongono facilmente a popolazioni di intere campagne.... Il brigante siciliano veste cacciatora e calzoni di velluto, è armato di fucili moderni e di rivoltelle delle migliori fabbriche, porta seco una grandissima quantità di munizioni ed un perfetto canocchiale per poter distinguere l’appressarsi del nemico. Il suo compito si riduce ormai al sequestro di ricchi proprietari. Il sequestrato è generalmente trattato nel modo più cortese ed è fornito a tavola di laute vivande».

Se fosse stato vero che la maggioranza dei proprietari siciliani si sottometteva riluttante ai rapporti con le bande, avrebbe dovuto accadere che anche senza dare spettacolo di eroismi individuali, come fecero sulle prime i fratelli Bonifacio a Ribera, essi ricorressero, con risvegli di dignità e di coscienza, alle difese collettive. Il Franchetti è scettico al riguardo anche quando al suo pensiero si affaccia il recente esempio della Romagna (§ 56). È scettica anche la Giunta Parlamentare d’Inchiesta, ma il Franchetti lo è perchè ritiene troppo diffusa e troppo bene organizzata la violenza delittuosa, per rimaner possibile ad un’associazione di privati il formarsi e romperla e sgominarla; invece la Giunta lo è perchè da parte dei cittadini vi è un diritto ad essere difesi dalla forza pubblica, non il dovere di dirigerla e di esporsi per essa. «Se in una data provincia, essa dice, lo Stato sociale è cosiffatto che non assicura la vita le sostanze la famiglia, non si possono imporre ai cittadini quelle attitudini e quelle virtù che sono il risultato di uno stato sociale affatto diverso» (pag. 144).

Ecco davvero un modo insufficiente di intendere le necessità e le responsabilità della vita civile.

 




5 La si voleva di 300,000 uomini, ma per gli sforzi intelligenti dell’Orsino, comandante siciliano di una delle compagnie dei Mille, la si ridusse a 40,000.






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