IV.
Nel leggere la Relazione della Giunta si avverte con sorpresa
che essa ha palesemente evitato di parlare dei briganti. Essa riconosce bensì
che in Sicilia ricorrono con grande frequenza i reati di sangue, il
malandrinaggio nelle campagne e le associazioni di malfattori, ma se pure nel
tener parola di quest’ultime, usa anche l’espressione bande (pag. 140), e
prima, a proposito del malandrinaggio, attribuisce alle associazioni dei
malfattori i ricatti delle persone quantunque eseguiti in rasa campagna,
«giacchè è raro che non sieno preparati da lunga mano in conciliaboli di
associati e di manutengoli nelle città» (pag. 131), ecco tutti i suoi
principali commenti: «È una vera lotta d’intelligenza e di raziocinio che la
barbarie sostiene contro la società». «È su questo punto che scattano più calde
e più implacabili le accuse e i lamenti contro i poteri pubblici». «....Secondo
le deposizioni Pellegrino, Messina e Cesarò le bande dei malfattori ricevono
visite e tengono relazioni con la pubblica forza». Così scarsi e scoloriti accenni
vanno connessi col proposito della Giunta di spiegare la massima parte dei
fenomeni dolorosi della vita siciliana come conseguenza «di una minor
preparazione dell’altre provincie italiane all’austero e difficile regime della
libertà». Così sfuggono molte colpe e molte responsabilità. E anche altrove la
Giunta accenna solo di sfuggita ai reati che pur sono più caratteristici
(«ricatti audaci come quelli eseguiti l’anno addietro sulle persone del barone
Porcari, del barone Sgadari, del Camaroni sequestrato in piena città, agguati
in cui cadde la forza pubblica nei poderi del barone Varisano e dei fratelli
Cataldi») tutta lieta di constatare che con la sua visita ebbe a coincidere un
periodo di tregua iniziatosi mesi addietro, ma costretta a confessare che i più
esperti lo ritenevano una delle solite oscillazioni di intensità (pag. 116 e
117). Ma come non considerare il brigantaggio siciliano un gravissimo fenomeno
morboso e peculiare dell’isola, quando se ne rintracciano le origini nella
reazione contro il feudalismo ferocemente vissuto, quando abbiamo appreso di
briganti cresciuti nel mestiere per atavismo, di altri che tali si fecero per
isfuggire a quella leva militare la quale prima del 1860 era sconosciuta e nel
1860 venne imposta con rigore eccezionale5, quando sapevamo che le
bande si formano e si rinnovano così di frequente e in tante plaghe diverse?
Sia pure che altri ancora diventarono briganti perchè resi sempre più tristi
nella loro intolleranza delle discutibili leggi sull’ammonizione e sul
domicilio coatto; che parecchi ruppero con baleni di generosità la fosca
sequela dei propri reati; che taluni non negarono preziosi servizi nell’urgenza
di qualche movimento politico agli uomini d’ordine ed al Governo, i quali
ebbero gran torto nel richiederneli senza sentire in pari tempo la
responsabilità di convertirli in buoni cittadini durevolmente. Certo è che ai
nostri occhi concretavano il pervertimento morale dell’ambiente, pervertimento
che si faceva poi sempre peggiore per la loro triste influenza.
A Ribera abbiamo saputo di un
caso che ci dà la misura di questa reciproca azione. Si erano sequestrati due
dei sette fratelli che componevano la famiglia Bonifacio. Uno di loro venne
rimandato presso di essa per ottenerne il danaro del riscatto; invece egli
stesso, i fratelli e gli amici si unirono per dar la caccia ai briganti
riuscendo ad ucciderne due e a liberare l’altro fratello. A tutti fu data la
medaglia al valore civile, che avevano davvero ben meritata. Senonchè non
tardarono ad accorgersi che si tramava la vendetta, e dovendo pur recarsi di
frequente nelle campagne pei loro affari si decisero a pagare anch’essi un
tributo alla banda per non essere molestati, e presero parte perfino ad un
pranzo di riconciliazione.
Può anche darsi che la Giunta si
sia lasciata vincere dall’ottimismo per un certo riguardo politico. Gli è
infatti che il brigantaggio non potrebbe vivere senza il manutengolismo, e il
porre questo nella sua piena luce offende l’amor proprio dei moltissimi che lo
praticano e si affannano a giustificarne la vergogna con la mancata tutela del
Governo. Noi invece abbiamo preferito ritrarre fedelmente la situazione nella
sua crudità, convinti che se pure era raro che il manutengolismo nascesse
cosciente, e fosse deliberatamente volontario, rimaneva altrettanto pernicioso
allorchè, caso assai più frequente, era conseguenza ultima di una serie di
rapporti, superficiali prima e via via più stretti fra briganti e cittadini.
Il Franchetti ce ne ha dato tre
esempi abbastanza eloquenti qua e là nei suoi §§ 20 e 21. Io voglio aggiungerne
qui un altro non già raccolto da noi nei colloqui di allora, ma che balza fuori
vibrante di verità dall’interessante lettura di due volumi di memorie
pubblicati a Parigi in francese nel 1830 coi tipi Delafont dal proscritto
siciliano Michele Palmieri di Miccichè. L’essere l’episodio seguito tanto prima
della nostra visita è una prova di più che il brigantaggio ha vecchie radici
naturali nell’Isola e proprio nella sua medesima fisonomia.
«Era un pomeriggio dei primi di
luglio. Mio fratello che era intento a scrivere nella sua camera mentre i
domestici stavano finendo il loro pasto, si vide dinanzi all’improvviso tre
uomini armati di tutto punto che gli fecero molti inchini per attenuare a loro
modo l’impressione sgradevole delle loro faccie e della loro apparizione. Signor
marchese, gli dissero, non abbiate paura, siamo brava gente e non
vogliamo far male a nessuno, ma abbiamo bisogno di denari. Mio fratello,
che intuì di non poter fare diversamente, fu loro cortese e lamentò solo di non
essere stato prevenuto della visita. I domestici erano stati rinchiusi a
chiave, ed altri nove briganti vigilavano fuori a cavallo. Alcuni abitanti di
Villalba fecero sapere di volere accorrere a riscossa: ma mio fratello li fece
pregare di rimaner tranquilli, ben sapendo che in caso di resistenza, se pure i
briganti fossero stati messi in fuga, o presi, od uccisi, c’era da aspettarsi
una feroce vendetta, e per lo meno il fuoco ai quattro angoli della proprietà
con la distruzione delle messi e dei boschi: egli fece quindi imbandire una
gran tavolata e pregò che non fossero troppo esigenti perchè egli non era
l’esclusivo padrone. Mangiarono bene e bevvero meglio, poi intascate duecento
oncie (circa 2550 lire italiane prebelliche) e fatte molte riverenze, presero
la via del ritorno, sfilando per quattro sotto il comando del loro capo Luigi
Lana, davanti a mio fratello che se ne stava ad un balcone sovrastante la porta
d’ingresso per dar loro il buon viaggio, augurandosi di non più rivederli.
Quand’ecco uno tra essi che doveva aver bevuto più degli altri, gli rivolge una
sequela di atroci ingiurie rimproverandolo di averli canzonati con un così
meschino riscatto. Luigi Lana gli puntò subito contro il fucile, e mentre tutti
si tacevano terrorizzati lo freddò, e cadutone il cadavere dal cavallo, si
precipitò di sella, estrasse la sciabola, gli tagliò netto il capo e gettatolo
in un sacco che tolse dalla sella, lo presentò sanguinante a mio fratello,
dicendogli: — Signor Marchese, egli vi aveva mancato di rispetto dopo che
voi ci avete così bene accolti da dovervene essere riconoscenti. Tal sia di
ognuno che vorrà offendervi come lui. — Mio fratello, in preda alla più
viva emozione, pur rifiutando l’orribile presente, dovè ringraziare». Lo scrittore
aggiunge che la banda da allora in poi continuò ad essere piena di riguardi pel
marchese suo fratello e per gli abitanti di Villalba, ma chissà quali e quanti
favori ne ottenne alla sua volta! Certo s’intuisce che lo scrittore non poteva
confessarlo pubblicamente se pur ne era informato — ma siffatte subdole ed
accortissime arti, meglio ancora della paura, dovevano riescire, in quel tempo
come al momento della nostra visita, ad assicurare intorno alle bande
brigantesche, quella rassegnazione passiva iniziale che esse sanno far presto
degenerare in più o meno aperta complicità.
La Relazione della Giunta
d’Inchiesta non vuole che sieno considerati manutengoli coloro che terrorizzati
dalle minaccie aderiscono a ricoverare una banda nella propria masseria o s’impegnano
al silenzio sui suoi atti ed andamenti o perfino, in caso di ricatto,
preferiscono trattare direttamente con essa all’aiutare le ricerche
dell’autorità (pag. 46). A ragione il Franchetti osserva che talvolta la paura
spinge altresì a dare armi ed informazioni utili ai briganti e che le
condizioni di fatto della Sicilia non consentono di trovare un criterio per
distinguere il manutengolo che vi obbedisce dal volenteroso e per determinare
il momento in cui al timore delle ostilità si frammischia o subentra la
speranza di un vantaggio o di un lucro (§ 65). È accaduto così che poco dopo la
nostra visita il feroce capobanda Sajeva fosse sorpreso dalla forza mentre in
un casino poco discosto da Girgenti prendeva parte unitamente ai suoi compagni
ad un lauto pranzo che gli era stato offerto da un barone e da un cavaliere.
Indipendentemente dal
manutengolismo, noi abbiamo potuto accertarci, mentre la Relazione della Giunta
lo ha escluso, che in Sicilia s’è formato un ambiente favorevole ai briganti,
anche perchè in generale perfino i più feroci di essi, si avvantaggiano di una
vaga aureola che ha suscitato qualche tratto di generosità, qualche lampo di
eroismo, qualche riparazione di ingiustizie da parte di altri. Io debbo
confermare, a malgrado di ogni smentita, che più d’una volta abbiamo sentito
parlare di loro con simpatia ed ammirazione anche da funzionari dello Stato.
Non c’è che da congratularsi dell’indignazione che questa rivelazione ha
sollevato, e da augurarsi che prorompa sempre più calda, ma mi sembra eccessivo
il volerla smentire; del resto anche nelle Riviste più reputate se n’è scritto
con deferente interessamento, e per darne un esempio, ecco un periodo che
esalta il loro valore, tolto da un articolo che fu inserito nella Nuova
Antologia del febbraio 1877 da Enrico Onofrio, un siciliano molto
verosimilmente anche pel nome: «Briganti si aggirano attualmente per le
campagne dell’isola, lasciando fama delle loro prodezze. Il più famigerato è
Antonino Leone. Furono uccisi per vendetta privata, o per invidia di mestiere,
Valvo, Rinaldi, Di Pasquale, Lo Cicero, Capraro di Sciacca. Questi fu ucciso
dalla pubblica forza dopo che, abbandonato dai suoi compagni, sostenne da solo
due ore di combattimento contro un gran numero di soldati. Valvo fu assalito in
una casa dove trovavasi con la sua amante e morì combattendo. Di Pasquale fu
ucciso da Leone per odio personale. Botindari trovasi ora in prigione. Egli
resistette per parecchie ore contro gli assalitori; abbandonato dai compagni
continuò a combattere; ferito gravemente si diede alla fuga, corse per più di
due miglia, dopo le quali cadde a terra sfinito. Uomini di tale audacia
s’impongono facilmente a popolazioni di intere campagne.... Il brigante
siciliano veste cacciatora e calzoni di velluto, è armato di fucili moderni e
di rivoltelle delle migliori fabbriche, porta seco una grandissima quantità di
munizioni ed un perfetto canocchiale per poter distinguere l’appressarsi del
nemico. Il suo compito si riduce ormai al sequestro di ricchi proprietari. Il
sequestrato è generalmente trattato nel modo più cortese ed è fornito a tavola
di laute vivande».
Se fosse stato vero che la
maggioranza dei proprietari siciliani si sottometteva riluttante ai rapporti
con le bande, avrebbe dovuto accadere che anche senza dare spettacolo di
eroismi individuali, come fecero sulle prime i fratelli Bonifacio a Ribera,
essi ricorressero, con risvegli di dignità e di coscienza, alle difese
collettive. Il Franchetti è scettico al riguardo anche quando al suo pensiero
si affaccia il recente esempio della Romagna (§ 56). È scettica anche la Giunta
Parlamentare d’Inchiesta, ma il Franchetti lo è perchè ritiene troppo diffusa e
troppo bene organizzata la violenza delittuosa, per rimaner possibile ad
un’associazione di privati il formarsi e romperla e sgominarla; invece la
Giunta lo è perchè da parte dei cittadini vi è un diritto ad essere difesi
dalla forza pubblica, non il dovere di dirigerla e di esporsi per essa. «Se in
una data provincia, essa dice, lo Stato sociale è cosiffatto che non assicura
nè la vita nè le sostanze nè la famiglia, non si possono imporre ai cittadini
quelle attitudini e quelle virtù che sono il risultato di uno stato sociale
affatto diverso» (pag. 144).
Ecco davvero un modo
insufficiente di intendere le necessità e le responsabilità della vita civile.
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