§
4 e 5). Non ripeteremo qui quanto già dicemmo allora, ma ricordiamo al lettore
come le società pastorali dette alla mistrettese o per le spese,
prendano talvolta in affitto per conto sociale intiere proprietà, riconcedendo
poi quella parte che va coltivata a grano ai villani, coi soliti patti di
metaterìa o di terratico. Qui dunque la cooperazione vi è soltanto nella
costituzione della società per l’affitto del feudo, e nella industria
pastorale, ma per quanto riguarda la coltivazione dei campi i contratti sono i
soliti. Lo stesso si dica della forma ora disusata di associazione pastorale
detta mandra della perfetta società, la quale differiva dalla mandra
alla mistrettese in ciò che ogni azione sociale, invece di essere
costituita da ogni capo di animale, era calcolata sul valore degli
animali che ogni socio contribuiva al fondo comune309.
In tutte però le dette forme di associazioni
cooperative, compresa quella citata del signor Gurdon, il principio cooperativo
non è stato che imperfettamente applicato, giacchè tutti i profitti
dell’impresa vanno intieramente al capitale, e il lavoro non vi partecipa
affatto, ma vien retribuito esclusivamente coi salari convenuti. Perchè la
cooperazione possa dare tutti i suoi frutti, bisogna che contenga sempre
l’elemento della compartecipazione del lavoro agli utili, in modo che i
profitti dell’impresa industriale vadano, dopo prelevazione dell’interesse corrente
sul capitale, divisi proporzionalmente tra il capitale e il lavoro come
rappresentato dalla somma dei salari.
Quello che diversifica poi l’associazione
cooperativa di produzione come introdotta dal signor Gurdon, da quelle di cui
abbiamo trovato qualche esempio in Sicilia, è che in queste ultime la effettiva
coltivazione delle terre prese in affitto non si fa secondo il principio
cooperativo, riunendo tutte le forze individuali in un’impresa comune e
condotta su vasta scala, ma invece quei terreni si dividono volta per volta tra
i singoli interessati; dimodochè la cooperazione non è attiva che nella
costituzione della società con tanti piccoli capitali riuniti, e nell’industria
pastorale, oppure talvolta anche nel regolamento in comune dell’avvicendamento
agricolo su tutta la estensione del latifondo.
Nei
contadini siciliani è assai vivo lo spirito di associazione; essi mancano però
dell’istruzione e dell’educazione morale necessarie per poter ritrarre
dall’associazione tutti i frutti che essa è capace di dare. Anche in occasione
della censuazione dei beni ecclesiastici, vi furono esempi di associazioni
formate dai contadini per presentarsi all’asta e fare acquisto in comune di
grossi lotti di terreno, onde poi repartirli tra i soci in lotti minori310.
È dunque lecito lo sperare che in avvenire la
cooperazione possa pure esser uno dei mezzi utili per sollevare la condizione
del contadino in Sicilia, e ciò specialmente ove si sappia includervi il
principio della compartecipazione: quando ciò potesse avvenire, si sarebbe
attuata quella forma di soluzione della questione sociale, che i più chiari
ingegni ci additano come la sola veramente efficace e che non presenti gravi
pericoli per la civiltà. Ma per giungere a tanto ideale, bisognerebbe che
prima, coll’introduzione di tutte le forme minori di associazioni di
previdenza, si potessero gradatamente educare i contadini a poter tentare
utilmente le forme più alte di associazione, sviluppando a poco a poco in loro
le necessarie qualità di prudenza, di risparmio e di abnegazione per una causa
comune, ed elevandoli ad un certo grado d’istruzione. È evidente poi la
necessità del benevolo concorso dei proprietari perchè le associazioni
cooperative di produzione di contadini, di qualunque forma esse siano, possano
per ora, non che prosperare, nemmeno cominciare.
Qualche esperimento si sarebbe potuto tentare
sulle proprietà demaniali, quando alcuna parte di queste si fosse riservata
allo Stato per promuovervi qualche istituzione a benefizio delle classi povere;
il che, trattandosi di beni già ecclesiastici, non sarebbe stato che di pura
equità. Oramai di beni demaniali o ecclesiastici non è più il caso di
discorrere; però restano sempre i beni delle Opere pie. La minacciata
alienazione di questi, lo ripetiamo, sarebbe a nostro parere una nuova follìa,
e che rasenterebbe l’ingiustizia; ed è nel timore che essa abbia luogo, che
reputiamo attualmente pericolosa e dannosa ogni avocazione della proprietà di
quei beni allo Stato, in cambio di altrettanta rendita da destinarsi agli
Istituti pii. Ma avvenga o non una tale avocazione, le proprietà territoriali
delle Opere pie non debbono sprecarsi per colmare i deficit del bilancio
italiano: esse sono un capitale prezioso con cui, senza perdita per nessuno, si
potrebbe iniziare un movimento di completa trasformazione delle condizioni
economiche e sociali delle classi agricole, cioè di più di metà della
popolazione d’Italia.
L’indole di questo lavoro non ci consente di qui
analizzare la natura e i vantaggi della cooperazione, non dovendo noi fare un
trattato di Economia sociale, e non potendo d’altra parte supporre il lettore
affatto digiuno di tali studi.
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