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Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino
La Sicilia nel 1876

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  • LIBRO PRIMO   CONDIZIONI POLITICHE E AMMINISTRATIVE DELLA SICILIA
    • PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE
      • V
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V.

 

Nell’articolo della Nuova Antologia che ho già citato, Enrico Onofrio dice che in Sicilia comunemente per mafioso s’intende chi ha del coraggio e sa darne le prove. A ragione il Franchetti ha accettato la definizione del mafioso dataci dal Prefetto di Caltanissetta. «È mafioso colui che per un sentimento medioevale crede di poter provvedere alla sicurezza ed incolumità di stesso e dei propri averi, mercè il suo valore e la sua influenza personale, indipendentemente dall’azione dell’autorità e della legge». Nella Relazione della Giunta si va anche più oltre, e leggiamo: «La mafia è lo sviluppo e il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male, è una solidarietà intuitiva, brutale, interessata che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli organismi regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che amano trarre l’esistenza e gli agi non già dal lavoro, ma dalla violenza, dall’inganno e dalla intimidazione» (§ 42). Un volume interessante col titolo «La Mafia» venne scritto e pubblicato nel 1904, coi tipi Sandron, dall’Alongi, siciliano che fu a lungo Commissario di Pubblica Sicurezza qua o per l’isola. Egli dice che la mafia non è una vera setta ma un modo di sentire atavico. Il reagire prontamente alle offese è di tutti in Sicilia, forma anzi la nota dominante del carattere regionale. L’onesto ricorre alla magistratura o anche al duello; il mafioso non si fa scrupolo di spingersi all’insidia o all’agguato. Questo sentimento atavico genera, per affinità morali, delle Associazioni, come suole avvenire tra coloro che hanno una medesima fede politica o tra coloro che esercitano una stessa professione: ma in dati luoghi l’elemento mafioso si organizza pure in sodalizi criminosi (pag. 127). E il prof. Mosca, citato dall’Alongi, osserva alla sua volta che quei doviziosi e quegli altolocati che coltivano questi rapporti non lo fanno già per indispensabile necessità come affermano in ogni occasione alle autorità ed ai loro conoscenti dei centri meno impregnati di mafiosità, ma piuttosto per vanità, per voglia di primeggiare. L’Alongi si pone poi il quesito come fanno i mafiosi, quando non sono legati da statuti ed in organismi, a riconoscersi, e dice che bastano i contatti dei mercati e delle fiere; del resto ben pochi non lo sono.

Base della mafia, secondo ammette la Giunta (pag. 143), «è il manutengolismo perchè essa non potrebbe altrimenti organizzare i suoi ricatti, essere informata del movimento delle forze pubbliche, depositare i prodotti che preleva sui proprietari di terre e di giardini»; viceversa essa Giunta protesta «contro la leggenda di una fitta rete di manutengolismo a disposizione delle bande, avvolgente una larga complicità dalle alte alle basse classi». Eppure si può sostenere facilmente che se molti mafiosi erano ben lungi dal doversi confondere coi briganti, o dall’esserne i manutengoli, tutti i briganti, moltissimi campieri, molti militi a cavallo, senza dire dei privati, erano pure mafiosi e così il manutengolismo agli occhi nostri allargava molto la sua cerchia e con tanta maggiore insidia.

A prima impressione l’accordo fra le due inchieste pare perfetto; senonchè dopo aver definito la mafia con così foschi colori, e in altri momenti con peggiori ancora, la Relazione della Giunta osserva che non si tratta di piaga specialissima alla Sicilia, perchè la mafia «sotto varie forme, con vari nomi, con varia o intermittente intensità si manifesta anche nelle altre parti del Regno, e vi scopre a quando a quando terribili misteri del sottosuolo sociale: le camorre di Napoli, le squadracce di Ravenna e di Bologna, i pugnalatori di Parma, la cocca di Torino, i sicari di Roma (pag. 114)». Meno male che si concede che la mafia in Sicilia abbia base più larga e più profonde radici, ma, a parte l’evidenza di una preoccupazione ottimistica l’assimilazione è tutt’altro che esatta, e corre gran differenza anche fra la camorra, che suol pattuire e ha per iscopo il lucro, e la mafia che è un sentimento congenito o una disposizione datasi che porta all’esercizio di qualsiasi prepotenza con o senza lucro, cumulando specialmente nella vendetta.

Ho detto con o senza lucro. A Palermo un consigliere di Prefettura che poi fu per vario tempo deputato, dopo aver definito più semplicemente la mafia siccome un esercizio di arbitrio individuale che non implica necessariamente l’idea ed il fatto dell’associazione, ha aggiunto che vi è mafia nel senso buono come nel senso cattivo. «Io» disse egli, «sono un mafioso». — Così si comprende subito come alcuni funzionari sieno caduti facilmente in Sicilia nell’imperdonabile peccato di voler combattere e guarire il male col male. Lo stesso Consigliere di Prefettura, mentre riconosceva per vere le imputazioni fatte dal Tajani, anche in piena Camera, al Questore di Palermo Enrico Albanese, e confermateci da lui quando l’abbiamo visitato a Napoli, sosteneva in buona fede che Albanese era un fior di galantuomo e un questore zelantissimo, e soltanto debole di fibra. Proseguendo, ci narrò di aver saputo dal generale Medici che una volta egli chiese all’Albanese se era vero che a Termini Imerese, come gliene era già pervenuta notizia confidenziale, nella notte scorsa fosse stato assassinato un perverso malfattore e bruciato il suo cadavere col petrolio. L’Albanese non negò, ma mentre lasciava supporre, speriamo scherzosamente, ch’egli al volerne bruciato il cadavere non fosse estraneo, e altrettanto faceva il Sottoprefetto di Termini Imerese intanto sopraggiunto, capitò di un sùbito una completa smentita ufficiale, sicchè il Medici, sdegnato, esclamò: «Come potete vantarvi perfino di brutte azioni non commesse?».

Del disordine di moltissime amministrazioni locali la maggior responsabilità è della mafia che si annida in tutti i partiti e vi prospera a spese dell’interesse pubblico. Così avvenne che mentre in Romagna i funzionari dello Stato, nel tempo in cui si volevano applicare provvedimenti eccezionali, si sentivano isolati, in Sicilia non si cessava mai dal circondarli riuscendo a guadagnarne l’animo. Entrambe le inchieste fanno a questo proposito rimprovero al Governo l’averli mutati troppo spesso in armonia non sempre inconsapevole alle influenze della mafia locale. La Relazione della Giunta ammette per lo meno che vi fosse un po’ di vero nell’affermazione che molti Prefetti si sieno esclusivamente occupati di interessi politici con trascuranza degli interessi amministrativi.

Un così doloroso stato di cose esige una più chiara spiegazione. Si è tanto più facilmente indotti ad abusare della autorità di cui si è investiti, quanto più coloro sui quali essa si esercita abusano della libertà a loro concessa; ed è per mantenere le giuste proporzioni fra l’una e l’altra che la Legge, come impera imparziale sui cittadini tutti, contiene anche in i freni per chi deve applicarla. Ciò deve intendersi anche rispetto ai rapporti privati perchè nella compagine sociale essi sono sempre un intreccio di esplicazioni dell’autorità e della libertà, ma ha maggiore significato nei rapporti dei funzionari ed agenti dello Stato e delle Amministrazioni locali coi cittadini. Guai a rompere l’equilibrio normale perchè allora la giustizia si vela ed esula, e a poco a poco l’arbitrio e la violenza dappertutto subentrano con una triste vicenda di eccessi passionali e di illegali reazioni che del pari si risolvono in danno di tutti, e ci avviano ad un regime di barbarie. Eppure troppo spesso accade che quando l’ordine è turbato e si vuole ristabilirlo, si è sedotti dal bisogno di procedere con energia e di riescire radicalmente, e quindi si esagera inconsciamente la propria azione e si oltrepassano i limiti della Legge che sono quelli della morale e della giustizia. Non senza ragione fu detto e ripetuto che è questione di combattere abusi ed eccessi, e che la salvezza dello Stato, e anche soltanto la conservazione dell’ordine pubblico, costituiscono una necessità suprema la quale giustifica tutto; ma quelle dovrebbero risultare contingenze proprio inesorabili e sempre transitorie: quindi la sospensione delle libertà e l’offesa ad esse dovrebbero concretarsi in un provvedimento particolare e passeggero nell’indole più intima: anzi, contemporaneamente all’adozione, dovrebbe essere dato pegno di un prossimo ritorno alla legalità.

La teoria è presto enunciata, e nel caso del governo della Sicilia, il marchese Di Rudinì, che pure fu tanto accusato di arbitri e di violenze quando si trovò a reprimere i moti del 1866, trovò una formola felicissima che gli udii ripetere più d’una volta: «Meglio un ricatto di più che una libertà di meno»; ma difficile ed arduo quanto mai è l’applicare la teoria, e vediamo spesso smarrirvisi nonchè le classi dirigenti, proprio il Governo, sopratutto perchè fuorviato da fini politici ed anche per la instabilità sua e dei funzionari dai quali si fa rappresentare. Così, dopo le due Inchieste, mentre nella Camera era stata la Sinistra a muovere le più severe accuse di illegalità ai Ministeri di destra, il Nicotera, Ministro dell’interno con l’avvenimento della Sinistra, persuaso che un allontanamento dall’Isola dei peggiori elementi, comunque ottenuto, dovesse portare un durevole ritorno della pubblica sicurezza, applicò largamente il domicilio coatto senza che nemmeno vi fosse una preventiva contravvenzione all’ammonizione, condizione voluta anche dalla legge per i provvedimenti eccezionali. Ancora una volta fu il Governo a dare l’esempio della violazione della Legge, si può dubitare che allora e poi la situazione non ne fu già risanata, ma aggravataperchè l’esempio non poteva non avere una triste ripercussione nei rapporti fra i cittadini oltre che nell’azione dell’Autorità e della Magistratura. Certo non tutto il patriziato, non tutta la borghesia è da sospettarsi o da rimproverarsi, ma non si può altrimenti spiegare la nostra dolorosa constatazione che le classi dirigenti siciliane, in gran maggioranza, invece di proporsi esse stesse un còmpito di rigenerazione, aumentavano i guai dell’Isola con l’egoistica, subdola e falsa insinuazione presso le Autorità che i propri interessi, sia privati, sia di partito, s’identificavano coi pubblici, specialmente nel campo delle Amministrazioni locali. Qui è da compiacersi che ben altrimenti energica che quella del Relatore della Giunta, sia tuonata la voce ammonitrice del Franchetti, anche se proprio di ciò più amaramente si dolsero e coloro che erano in colpa e coloro che trovarono opportuno di dimostrarsi solidali con essi.

Un esempio scandaloso è intervenuto in quei giorni. La Società di navigazione «La Trinacria» era notoriamente in condizioni di fallimento, eppure il Governo le prodigò allora altri cinque milioni, e gli organi ministeriali giustificarono l’enormità adducendo che proprio in quei momenti la pubblica opinione esigeva dei riguardi per la Sicilia. Quella non poteva essere invece che una sua falsa apparenza, e molto opportunamente il paragrafo 301 del volume deplora che poche persone, assumendo un falso carattere ufficiale, riescissero spesso a farsi credere suoi autorevoli elementi costitutivi. La Giunta pur ammettendo l’imprudenza delle esposizioni del Banco di Sicilia con la Trinacria nota che «l’opinione pubblica di Palermo era unanime nel sostenere quella Società, che aveva assunto quasi carattere nazionale ed aveva saputo quasi identificarsi con l’amor proprio isolano» (pag. 38).

Il Franchetti ha spinto la deferenza verso la Giunta d’Inchiesta, quando ne ha conosciuta la Relazione, fino a riportare integralmente, dopo aver deplorato anche egli le deficienze dell’azione del Governo per le opere pubbliche delle quali era assetata la Sicilia, la parte dove con grande competenza erano esaminati i bisogni della viabilità terrestre e marittima. Si può per altro osservare che entrambe le Inchieste dovevano meglio studiare quali provvedimenti più efficaci, specialmente in fatto di bonifica malarica ed agraria, potevano adottarsi per assicurare una maggior salubrità e prosperità economica all’Isola. Lo stesso dicasi circa la convenienza di promuovere con mezzi essenzialmente educativi l’orientazione delle menti dell’Isola verso la necessità di una vera rigenerazione morale. Contro gli arbitrî, le violenze e le illegalità, scuole, associazioni per la coltura, conferenze, congressi, riviste tecniche e letterarie si dovevano promuovere, in bel coordinamento fra loro, e sotto la guida di un personale di sana ed elevata ispirazione, non inferiore a quello invocato per le amministrazioni locali e per i servizi dello Stato. La Relazione della Giunta lamenta opportunamente una grande negligenza nei riguardi degli Asili Infantili «che troverebbero assai maggiore sviluppo educativo se cadesse sovr’essi l’occhio intelligente e l’amorosa cura delle signore del luogo, certamente colte e gentili» (pag. 89).

Pur troppo il brigantaggio e la mafia non sono le sole rivelazioni di un profondo traviamento della mentalità di molti siciliani. Come prova del mio asserto voglio citare una confidenza che ci venne fatta dal Principe di S.... Egli, pur essendosi affrettato a riconoscere il torto che il brigantaggio faceva alla Sicilia e a deplorare sia la mancanza di coraggio civile da parte dei cittadini nel non combatterlo spontaneamente, sia l’inettitudine di aver lasciato disperdere la banda Capraro dopo l’uccisione del suo capo, si vantò tuttavia con noi di tenere nascosta nell’abitazione di un Barone del quale allora godeva l’ospitalità, una giovinetta da lui fatta scomparire dal paese senza che nessuno del luogo e nemmeno il Barone e i suoi famigliari ne sospettassero nulla.

Mentre qui si rilevano queste gravi sconcordanze, non devesi trascurare di prendere nota che vi è consenso tra la Relazione della Giunta e il volume del Franchetti non solo nell’esposizione dei precedenti storici, ma anche negli apprezzamenti su certi fenomeni ed organismi speciali della vita siciliana coi quali hanno una stretta connessione i briganti e la mafia, per esempio l’abigeato e il contrabbando, il milite a cavallo ed il campiere.

 




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