V.
Nell’articolo della Nuova
Antologia che ho già citato, Enrico Onofrio dice che in Sicilia comunemente
per mafioso s’intende chi ha del coraggio e sa darne le prove. A ragione
il Franchetti ha accettato la definizione del mafioso dataci dal Prefetto di
Caltanissetta. «È mafioso colui che per un sentimento medioevale crede di poter
provvedere alla sicurezza ed incolumità di sè stesso e dei propri averi, mercè
il suo valore e la sua influenza personale, indipendentemente dall’azione
dell’autorità e della legge». Nella Relazione della Giunta si va anche più
oltre, e leggiamo: «La mafia è lo sviluppo e il perfezionamento della
prepotenza diretta ad ogni scopo di male, è una solidarietà intuitiva, brutale,
interessata che unisce a danno dello Stato, delle leggi e degli organismi
regolari, tutti quegli individui e quegli strati sociali che amano trarre
l’esistenza e gli agi non già dal lavoro, ma dalla violenza, dall’inganno e
dalla intimidazione» (§ 42). Un volume interessante col titolo «La Mafia» venne
scritto e pubblicato nel 1904, coi tipi Sandron, dall’Alongi, siciliano che fu
a lungo Commissario di Pubblica Sicurezza qua o là per l’isola. Egli dice che
la mafia non è una vera setta ma un modo di sentire atavico. Il reagire
prontamente alle offese è di tutti in Sicilia, forma anzi la nota dominante del
carattere regionale. L’onesto ricorre alla magistratura o anche al duello; il
mafioso non si fa scrupolo di spingersi all’insidia o all’agguato. Questo
sentimento atavico genera, per affinità morali, delle Associazioni, come suole
avvenire tra coloro che hanno una medesima fede politica o tra coloro che
esercitano una stessa professione: ma in dati luoghi l’elemento mafioso si
organizza pure in sodalizi criminosi (pag. 127). E il prof. Mosca, citato
dall’Alongi, osserva alla sua volta che quei doviziosi e quegli altolocati che
coltivano questi rapporti non lo fanno già per indispensabile necessità come
affermano in ogni occasione alle autorità ed ai loro conoscenti dei centri meno
impregnati di mafiosità, ma piuttosto per vanità, per voglia di primeggiare.
L’Alongi si pone poi il quesito come fanno i mafiosi, quando non sono legati da
statuti ed in organismi, a riconoscersi, e dice che bastano i contatti dei
mercati e delle fiere; del resto ben pochi non lo sono.
Base della mafia, secondo
ammette la Giunta (pag. 143), «è il manutengolismo perchè essa non potrebbe
altrimenti organizzare i suoi ricatti, essere informata del movimento delle forze
pubbliche, depositare i prodotti che preleva sui proprietari di terre e di
giardini»; viceversa essa Giunta protesta «contro la leggenda di una fitta rete
di manutengolismo a disposizione delle bande, avvolgente una larga complicità
dalle alte alle basse classi». Eppure si può sostenere facilmente che se molti
mafiosi erano ben lungi dal doversi confondere coi briganti, o dall’esserne i
manutengoli, tutti i briganti, moltissimi campieri, molti militi a cavallo,
senza dire dei privati, erano pure mafiosi e così il manutengolismo agli occhi
nostri allargava molto la sua cerchia e con tanta maggiore insidia.
A prima impressione l’accordo
fra le due inchieste pare perfetto; senonchè dopo aver definito la mafia con
così foschi colori, e in altri momenti con peggiori ancora, la Relazione della
Giunta osserva che non si tratta di piaga specialissima alla Sicilia, perchè la
mafia «sotto varie forme, con vari nomi, con varia o intermittente intensità si
manifesta anche nelle altre parti del Regno, e vi scopre a quando a quando
terribili misteri del sottosuolo sociale: le camorre di Napoli, le squadracce
di Ravenna e di Bologna, i pugnalatori di Parma, la cocca di Torino, i sicari
di Roma (pag. 114)». Meno male che si concede che la mafia in Sicilia abbia
base più larga e più profonde radici, ma, a parte l’evidenza di una
preoccupazione ottimistica l’assimilazione è tutt’altro che esatta, e corre
gran differenza anche fra la camorra, che suol pattuire e ha per iscopo il
lucro, e la mafia che è un sentimento congenito o una disposizione datasi che
porta all’esercizio di qualsiasi prepotenza con o senza lucro, cumulando
specialmente nella vendetta.
Ho detto con o senza lucro.
A Palermo un consigliere di Prefettura che poi fu per vario tempo deputato, dopo
aver definito più semplicemente la mafia siccome un esercizio di arbitrio
individuale che non implica necessariamente l’idea ed il fatto
dell’associazione, ha aggiunto che vi è mafia nel senso buono come nel senso
cattivo. «Io» disse egli, «sono un mafioso». — Così si comprende subito come
alcuni funzionari sieno caduti facilmente in Sicilia nell’imperdonabile peccato
di voler combattere e guarire il male col male. Lo stesso Consigliere di
Prefettura, mentre riconosceva per vere le imputazioni fatte dal Tajani, anche
in piena Camera, al Questore di Palermo Enrico Albanese, e confermateci da lui
quando l’abbiamo visitato a Napoli, sosteneva in buona fede che Albanese era un
fior di galantuomo e un questore zelantissimo, e soltanto debole di fibra. Proseguendo,
ci narrò di aver saputo dal generale Medici che una volta egli chiese
all’Albanese se era vero che a Termini Imerese, come gliene era già pervenuta
notizia confidenziale, nella notte scorsa fosse stato assassinato un perverso
malfattore e bruciato il suo cadavere col petrolio. L’Albanese non negò, ma
mentre lasciava supporre, speriamo scherzosamente, ch’egli al volerne bruciato
il cadavere non fosse estraneo, e altrettanto faceva il Sottoprefetto di
Termini Imerese intanto sopraggiunto, capitò di un sùbito una completa smentita
ufficiale, sicchè il Medici, sdegnato, esclamò: «Come potete vantarvi perfino
di brutte azioni non commesse?».
Del disordine di moltissime
amministrazioni locali la maggior responsabilità è della mafia che si annida in
tutti i partiti e vi prospera a spese dell’interesse pubblico. Così avvenne che
mentre in Romagna i funzionari dello Stato, nel tempo in cui si volevano
applicare provvedimenti eccezionali, si sentivano isolati, in Sicilia non si
cessava mai dal circondarli riuscendo a guadagnarne l’animo. Entrambe le
inchieste fanno a questo proposito rimprovero al Governo l’averli mutati troppo
spesso in armonia non sempre inconsapevole alle influenze della mafia locale.
La Relazione della Giunta ammette per lo meno che vi fosse un po’ di vero
nell’affermazione che molti Prefetti si sieno esclusivamente occupati di
interessi politici con trascuranza degli interessi amministrativi.
Un così doloroso stato di cose
esige una più chiara spiegazione. Si è tanto più facilmente indotti ad abusare
della autorità di cui si è investiti, quanto più coloro sui quali essa si
esercita abusano della libertà a loro concessa; ed è per mantenere le giuste
proporzioni fra l’una e l’altra che la Legge, come impera imparziale sui
cittadini tutti, contiene anche in sè i freni per chi deve applicarla. Ciò deve
intendersi anche rispetto ai rapporti privati perchè nella compagine sociale
essi sono sempre un intreccio di esplicazioni dell’autorità e della libertà, ma
ha maggiore significato nei rapporti dei funzionari ed agenti dello Stato e
delle Amministrazioni locali coi cittadini. Guai a rompere l’equilibrio normale
perchè allora la giustizia si vela ed esula, e a poco a poco l’arbitrio e la
violenza dappertutto subentrano con una triste vicenda di eccessi passionali e
di illegali reazioni che del pari si risolvono in danno di tutti, e ci avviano
ad un regime di barbarie. Eppure troppo spesso accade che quando l’ordine è
turbato e si vuole ristabilirlo, si è sedotti dal bisogno di procedere con
energia e di riescire radicalmente, e quindi si esagera inconsciamente la
propria azione e si oltrepassano i limiti della Legge che sono quelli della
morale e della giustizia. Non senza ragione fu detto e ripetuto che è questione
di combattere abusi ed eccessi, e che la salvezza dello Stato, e anche soltanto
la conservazione dell’ordine pubblico, costituiscono una necessità suprema la
quale giustifica tutto; ma quelle dovrebbero risultare contingenze proprio
inesorabili e sempre transitorie: quindi la sospensione delle libertà e
l’offesa ad esse dovrebbero concretarsi in un provvedimento particolare e
passeggero nell’indole più intima: anzi, contemporaneamente all’adozione,
dovrebbe essere dato pegno di un prossimo ritorno alla legalità.
La teoria è presto enunciata, e nel
caso del governo della Sicilia, il marchese Di Rudinì, che pure fu tanto
accusato di arbitri e di violenze quando si trovò a reprimere i moti del 1866,
trovò una formola felicissima che gli udii ripetere più d’una volta: «Meglio un
ricatto di più che una libertà di meno»; ma difficile ed arduo quanto mai è
l’applicare la teoria, e vediamo spesso smarrirvisi nonchè le classi dirigenti,
proprio il Governo, sopratutto perchè fuorviato da fini politici ed anche per
la instabilità sua e dei funzionari dai quali si fa rappresentare. Così, dopo
le due Inchieste, mentre nella Camera era stata la Sinistra a muovere le più
severe accuse di illegalità ai Ministeri di destra, il Nicotera, Ministro
dell’interno con l’avvenimento della Sinistra, persuaso che un allontanamento
dall’Isola dei peggiori elementi, comunque ottenuto, dovesse portare un
durevole ritorno della pubblica sicurezza, applicò largamente il domicilio
coatto senza che nemmeno vi fosse una preventiva contravvenzione
all’ammonizione, condizione voluta anche dalla legge per i provvedimenti
eccezionali. Ancora una volta fu il Governo a dare l’esempio della violazione
della Legge, nè si può dubitare che allora e poi la situazione non ne fu già
risanata, ma aggravata — perchè l’esempio non poteva non avere una triste
ripercussione nei rapporti fra i cittadini oltre che nell’azione dell’Autorità
e della Magistratura. Certo non tutto il patriziato, non tutta la borghesia è
da sospettarsi o da rimproverarsi, ma non si può altrimenti spiegare la nostra
dolorosa constatazione che le classi dirigenti siciliane, in gran maggioranza,
invece di proporsi esse stesse un còmpito di rigenerazione, aumentavano i guai
dell’Isola con l’egoistica, subdola e falsa insinuazione presso le Autorità che
i propri interessi, sia privati, sia di partito, s’identificavano coi pubblici,
specialmente nel campo delle Amministrazioni locali. Qui è da compiacersi che
ben altrimenti energica che quella del Relatore della Giunta, sia tuonata la
voce ammonitrice del Franchetti, anche se proprio di ciò più amaramente si
dolsero e coloro che erano in colpa e coloro che trovarono opportuno di
dimostrarsi solidali con essi.
Un esempio scandaloso è
intervenuto in quei giorni. La Società di navigazione «La Trinacria» era
notoriamente in condizioni di fallimento, eppure il Governo le prodigò allora
altri cinque milioni, e gli organi ministeriali giustificarono l’enormità
adducendo che proprio in quei momenti la pubblica opinione esigeva dei
riguardi per la Sicilia. Quella non poteva essere invece che una sua falsa
apparenza, e molto opportunamente il paragrafo 301 del volume deplora che poche
persone, assumendo un falso carattere ufficiale, riescissero spesso a farsi
credere suoi autorevoli elementi costitutivi. La Giunta pur ammettendo
l’imprudenza delle esposizioni del Banco di Sicilia con la Trinacria nota che
«l’opinione pubblica di Palermo era unanime nel sostenere quella Società, che
aveva assunto quasi carattere nazionale ed aveva saputo quasi identificarsi con
l’amor proprio isolano» (pag. 38).
Il Franchetti ha spinto la
deferenza verso la Giunta d’Inchiesta, quando ne ha conosciuta la Relazione,
fino a riportare integralmente, dopo aver deplorato anche egli le deficienze
dell’azione del Governo per le opere pubbliche delle quali era assetata la Sicilia,
la parte dove con grande competenza erano esaminati i bisogni della viabilità
terrestre e marittima. Si può per altro osservare che entrambe le Inchieste
dovevano meglio studiare quali provvedimenti più efficaci, specialmente in
fatto di bonifica malarica ed agraria, potevano adottarsi per assicurare una
maggior salubrità e prosperità economica all’Isola. Lo stesso dicasi circa la
convenienza di promuovere con mezzi essenzialmente educativi l’orientazione
delle menti dell’Isola verso la necessità di una vera rigenerazione morale.
Contro gli arbitrî, le violenze e le illegalità, scuole, associazioni per la
coltura, conferenze, congressi, riviste tecniche e letterarie si dovevano
promuovere, in bel coordinamento fra loro, e sotto la guida di un personale di
sana ed elevata ispirazione, non inferiore a quello invocato per le
amministrazioni locali e per i servizi dello Stato. La Relazione della Giunta
lamenta opportunamente una grande negligenza nei riguardi degli Asili Infantili
«che troverebbero assai maggiore sviluppo educativo se cadesse sovr’essi
l’occhio intelligente e l’amorosa cura delle signore del luogo, certamente
colte e gentili» (pag. 89).
Pur troppo il brigantaggio e la
mafia non sono le sole rivelazioni di un profondo traviamento della mentalità
di molti siciliani. Come prova del mio asserto voglio citare una confidenza che
ci venne fatta dal Principe di S.... Egli, pur essendosi affrettato a
riconoscere il torto che il brigantaggio faceva alla Sicilia e a deplorare sia
la mancanza di coraggio civile da parte dei cittadini nel non combatterlo
spontaneamente, sia l’inettitudine di aver lasciato disperdere la banda Capraro
dopo l’uccisione del suo capo, si vantò tuttavia con noi di tenere nascosta
nell’abitazione di un Barone del quale allora godeva l’ospitalità, una
giovinetta da lui fatta scomparire dal paese senza che nessuno del luogo e
nemmeno il Barone e i suoi famigliari ne sospettassero nulla.
Mentre qui si rilevano queste
gravi sconcordanze, non devesi trascurare di prendere nota che vi è consenso
tra la Relazione della Giunta e il volume del Franchetti non solo
nell’esposizione dei precedenti storici, ma anche negli apprezzamenti su certi
fenomeni ed organismi speciali della vita siciliana coi quali hanno una stretta
connessione i briganti e la mafia, per esempio l’abigeato e il contrabbando, il
milite a cavallo ed il campiere.
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