§ 11. — Impotenza dell’Autorità
pubblica a reprimere gli abusi.
L’autorità pubblica vede i
disordini, spesso conosce i colpevoli, ed è impotente a reprimere gli uni e a
punire gli altri. Simile a un esercito in mezzo a paese nemico, è costretta a
diffidar sempre. Se qualcuno del paese le si avvicina e sembra che voglia
aiutarla, spesso ha più che mai ragione di temere di essere tratta in un modo o
in un altro, a tradire l’interesse pubblico. Non mancano i sottili ritrovati
per farle credere vantaggio generale quello di un individuo o di una camarilla,
e farle in tal modo volgere a vantaggio di questi la forza e i mezzi che trae
dal suo istituto. Un funzionario che, prendendo la sua missione sul serio,
cercando in buona fede, senza guardare ad altro, di far prevalere l’interesse
generale, pigli un provvedimento savio, realmente utile, se, volendo o no, ha
leso qualche interesse potente, si vede ad un tratto sorger contro una tempesta
di pubblica opinione, nata non si sa come, venuta non si sa da dove. Da ogni
parte si brandiscono sul suo capo tutti i ferri vecchi e rugginosi della
fraseologia liberale, i sacri diritti del cittadino, gl’immortali principii,
ecc. ecc.; al suo provvedimento sono date le interpretazioni le più assurde,
attribuiti i motivi più odiosi; si sente rovesciare addosso una valanga di
accuse le più ridicole, le più inverosimili; sente condannare e criticare al
medesimo modo dalle medesime persone i suoi errori e i suoi provvedimenti più
giusti e lodevoli.
Spersa in mezzo ad una congiura
universale di silenzio e d’inganni, trovando oppositori e avversari in coloro
stessi nei quali la legge gli impone di trovare alleati e cooperatori, sentendo
le armi datele dalla legge spezzarglisi fra le mani e mancarle dappertutto il
terreno sotto i piedi, l’autorità cerca intorno a sè qualche sostegno, e si
aggrappa al primo che trova; si raccomanda agli arbitrii che le concede la
legge, chiede a loro soli la sua salvezza. Così le vien fatto di estenderne
l’applicazione il più possibile, di voltare e rivoltare in tutti i versi il
testo della legge per scoprire qualche modo nuovo di usarla, e quando non lo
trovi sufficiente, di appigliarsi talvolta agli arbitrii all’infuori di essa.
Ma questo rimedio disperato non riesce ad altro che a crescere ed inasprire i
mali, ed ha per ultimo effetto di attaccare al medico stesso il morbo, che
cerca di guarire. Ne fu fatta la triste esperienza soprattutto dal 1860 al
1874, e più che in ogni altro momento, sotto la prefettura militare.
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