II.
LE
PROVINCE INFESTATE DAI MALFATTORI
§ 18. — Aspetto generale
delle campagne nell’interno dell’Isola.
L’unica linea ferroviaria, che
adesso faccia capo a Palermo, è quel tronco che va a perdersi nel centro della
Sicilia. Si spera che sarà fra breve congiunto con quello che parte da
Girgenti, e, in un tempo più lungo coll’altro che, staccandosi a Catania dalla
linea littorale Messina-Siracusa, giunge adesso fino a Caltanissetta. Partendo
da Palermo, la linea fino a Termini corre parallelamente al mare, attraverso
una campagna incantevole e popolata, stretta per lo più tra le colline e il
mare, e piena di giardini di agrumi, di orti piantati d’alberi fruttiferi, di
vigne ammirabilmente ben tenute, di uliveti.
Dopo Termini, la linea si
interna dentro terra, e a poco a poco vanno diradandosi gli orti, i frutteti, i
vigneti, gli uliveti, lasciando posto fra di loro, a spazi sempre più vasti,
coperti di grano o d’erba. Vanno diradandosi le abitazioni di campagna.
S’incontra ancora di quando in quando qualche raro gruppo di ulivi nel fondo
della valle, si scorge qualche casa solitaria sul pendìo di un’altura, poi il
vasto deserto della campagna siciliana. A destra della via, il monte San
Calogero, erto e nero; a sinistra alte colline verdi di grano e d’erba; in
fondo alla valle, sotto la strada erba, grano e pantani. Non un albero, non una
casa per rompere la desolata monotonìa di quella solitudine. Alle fermate del
treno, si cerca la città, il borgo di cui si sente gridare il nome. Vi si
mostra un mucchio di case grigie arrampicate sulla cima di un monte lontano,
oppure un sentiero, raramente una strada ruotabile, che sale lungo la falda
della vicina collina, sparisce dietro, poi risale serpeggiando un’altra altura,
poi sparisce ancora. Quella via porta al paese in due o tre ore di marcia. Le
vicinanze della stazione sono sempre deserte, non un villano lungo la barriera,
non un vetturino che aspetti gli avventori. Solo la carrozzella o la
cavalcatura della posta, qualche mulo o cavallo bardato venuto a cercare il
padrone. Il treno riparte, ed il viaggiatore è insensibilmente invaso da quel
sentimento che prova chi si trovi in mezzo a cose misteriose e sconosciute; le
valli che si aprono sulla strada, poi voltano, e si nascondono dietro
un’altura, pare che debbano nascondere cose strane e non mai viste. Egli prova
una specie di miraggio morale. Ed intanto, se ha per compagno di viaggio
qualche proprietario o qualche grosso fittaiuolo, egli può sentire spiegare
come i vasti fondi che il treno va attraversando siano, o dai proprietari, o
dai grossi fittuari che li tengono a gabella, dati a coltivare a
colonìa, a fitto o altrimenti ad una turba di contadini, fra cui i più ricchi
possiedono un asino, un mulo, e talvolta una casupola, e che, dopo aver
lavorato il loro campo, giungono all’autunno, senza aver potuto serbare dal
raccolto il vitto per l’inverno, devono cercare dal padrone o dall’usuraio un
poco di grano per vivere fino alle mèsse ventura, e consumano in tal modo la
vita in un’eterna vicenda di debiti e di fatiche. A sentir parlare di quei
proprietari e di quei grossi fittaiuoli signori della terra, del bestiame, e
talvolta anche degli aratri, padroni nel fatto delle vite dei contadini, poichè
sta in loro il farli morir di fame o no, la mente si riporta involontariamente
al tempo in cui le campagne siciliane erano coltivate da turbe di schiavi, e
agli orrori delle guerre servili in Sicilia sotto la dominazione romana.
Il treno giunge al punto
destinato, si scende, sempre in mezzo al deserto: il fabbricato della stazione,
uno o due baracconi, poi nulla. A quella stazione fa capo una strada ruotabile
importante percorsa da un servizio di vetture pubbliche. Mentre le diligenze
attaccano e caricano, tre cavalleggeri e un carabiniere stanno visitando le
bardature ai loro cavalli; sopraggiunge una pattuglia di bersaglieri a passo
accelerato e si mette in linea. Il nuovo sbarcato si guarda dintorno, e cerca
se non stia sbucando altra truppa da qualche altro lato. Egli principia a
provare come un’impressione vaga di essere in mezzo a un paese in stato di
guerra. Le diligenze sono pronte, i viaggiatori imbarcati, si vedono partire al
trotto; dietro, la scorta a cavallo; sui fianchi della strada, i bersaglieri
che prendono le scorciatoie. Coloro che, saliti a cavallo vadano seguendo il
sentiero per qualche paese vicino, li vedono allontanarsi per la via maestra;
sentono diminuire il rumore dei sonagli dei cavalli e degli schiocchi di
frusta. Si scorgono le carrozze già fatte piccole per la distanza, salire,
giungere faticosamente al culmine di una collina, poi sparire finalmente per l’opposto
pendìo, e si riman soli a camminare in mezzo al silenzio della deserta
campagna. Allora il nuovo viaggiatore si sente preso da un profondo senso
d’isolamento, gli pare che su tutta la contrada nuda e monotona pesi come
l’incubo di una potenza misteriosa e malvagia, contro la quale non ha aiuto o
difesa fuori di sè stesso e dei compagni venuti secolui d’oltre mare, e si
sente subitaneamente preso da una profonda tenerezza per la carabina che porta
in traverso della sella.
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