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S. Alfonso Maria de Liguori
Apologia della Teologia Morale

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§ II. - Si risponde alle opposizioni de' contrarj; dalle risposte alle quali maggiormente si fa chiara la nostra sentenza.

 

20. Io non voglio lasciar di rispondere a molte opposizioni che mi fanno gli avversarj; anzi mi giova di rispondere, perché dalle risposte che vi sono, come ho accennato, si renderà più palese la certezza della nostra sentenza. Cominciamo a rispondere a quella opposizione che richiede una risposta più lunga.

 

21. Oppongono per non esser dubbio che anche le leggi divine e naturali han bisogno di promulgazione per obbligare; ma dicono che le leggi naturali ab æterno sono state promulgate, e sino ab æterno hanno avuta la virtù perfetta di obbligare l'uomo prima che l'uomo esistesse nel mondo, essendoché la legge naturale è una partecipazione della legge eterna: e ciò lo ricava un certo


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autore da alcune parole di S. Tomaso, alle quali lo stesso Santo per noi la risposta, come appresso vedremo. L'Angelico, I, 2 q. 90, a. I, ad I, dice che la legge eterna æternam habet promulgationem ex parte Dei promulgantis. Ma io domando: qual promulgazione della legge divina è quella che obbliga gli uomini? la promulgazione ex parte Dei o la promulgazione ex parte creaturæ? S. Tomaso, come di sopra abbiamo detto al § I, n. 9, insegna che la legge non ha virtù di obbligare se non è applicata agli uomini colla di lei promulgazione: Ad hoc quod lex virtutem obligandi obtineat, oportet quod applicetur hominibus, qui secundum eam regulari debent; talis autem applicatio fit per hoc quod in notitiam eorum deducitur ex ipsa promulgatione. I, 2, q. 90, a. 4. Ed all'obiezione (ad primum) dice che anche la legge di natura ha bisogno di promulgazione; e questa si fa colla cognizione della legge che inserisce Iddio nelle menti degli uomini col lume naturale: Dicendum quod promulgatio legis naturæ est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter cognoscendam. E lo stesso insegna il santo Dottore nel luogo prima addotto dall'autore contrario; onde, dopo aver detto che la legge eterna æternam habet promulgationem ex parte Dei promulgantis,


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soggiunge immediatamente: Sed ex parte creaturæ audientis et inspicientis non potest esse promulgatio æterna. Cit. a. 2, ad I. Sicché la promulgazione che obbliga si fa quando la creatura conosce il precetto col lume della ragione o pure l'ascolta per mezzo della Chiesa o de' savi che gliel'insegnano.

 

22. Ciò maggiormente lo spiega S. Tomaso in altro luogo, I, 2, qu. 91, a. 2, dove dice: Lex cum sit regula et mensura, dupliciter potest esse in aliquo, uno modo sicut in regulante et mensurante; alio modo sicut in regulato et mensurato: quia in quantum participat aliquid de regula, sic regulatur... Et talis participatio legis æternæ in rationali creatura lex naturalis dicitur. Dunque dice il Maestro angelico che, essendo la legge una regola con cui dee regolarsi l'uomo, di altro modo ella si considera nel legislatore regolante e di altro modo nell'uomo regolato. Sicché dice S. Tomaso che secondo l'uomo partecipa alcuna cosa della legge naturale, ch'è l'unica sua regola, così egli dee regolare le sue azioni. Dunque, prima di ricever questo lume per mezzo della legge naturale, non può essere obbligato a niente, perché non ancora ha ricevuta la regola per potersi regolare. Pertanto la legge eterna è regola per Dio regolante, ma per


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l'uomo che si ha da regolare la sua regola è la legge naturale, cioè quel lume che per la ragion naturale gli vien manifestato.

 

23. Quindi i teologi comunemente e giustamente dicono che la legge eterna non è propriamente legge, ma è a somiglianza di legge e, per così dire, è una legge e regola per Dio stesso; e se vuol chiamarsi promulgata, è una legge promulgata da Dio a sé medesimo. Così parla il Du-Vallio, il quale scrive che la legge eterna allora di fatto ha ragione di legge quando è manifestata agli uomini; e poi soggiunge: Si tamen ab æterno spectetur, dicendum est eam non esse vere et proprie legem, sed tantum aliquid quod se habeat instar legis: tum quia de ratione legis est ut promulgetur subditis; nulli autem fuerunt subditi ab æterno: tum quia lex essentialiter est regula quædam practica; hæc autem regula non potuit imponi Verbo et Spiritui Sancto, quia ipsimet sunt regula et rectitudo ipsa. In I, 2, S. Th. de leg., q. 2, pag. 293. E così dicono ancora il m. Montesino e Jodoco Lorichio dottore di Lovanio. Il Montesino dice che la legge eterna non è leggeregola per noi, ma solo per Dio stesso a sé promulgata: Respondeo hujusmodi legem æternam promulgatam esse ab æterno ipsimet Deo; Deus sibimet est lex et regula: et ita intelligimus


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Deum sibi promulgare legem. Disp. 20 de leg., q. 4, n. 83. Lorichio, parlando della stessa legge eterna, scrive: Hac lege Deus omnia ordinat ad seipsum, et est promulgata apud ipsum ab æterno; hominibus autem promulgatur quando eis innotescit. Thesaur. novus utr. theol., verb. Lex, n. 6.

 

24. Quando dunque, si dimanda, obbliga gli uomini questa legge? Risponde Du-Vallio che allora obbliga quando l'uomo giunge agli anni della discrezione; perché allora col lume di natura gli vien quella promulgata: Tunc autem sufficienter (legem) promulgari quando quisque annos discretionis incipit. I, 2 de leg. qu. 3, a. 3. E nella pag. 296 soggiunge che la legge eterna si manifesta a noi per la legge naturale, ch'è partecipazione di quella: Dico eam per alias leges nobis innotescere, cum leges illæ sint illius participationes. Lo stesso dice il mentovato m. Montesino: Lex naturalis promulgatur in unoquoque dum primo venit ad usum rationis; et quamvis pro tunc solum promulgetur ista lex quantum ad principia communissima juris naturæ, tamen postea paulatim per discursum promulgatur eadem lex quantum ad alia. Disp. 20 de leg., q. 4, n. 85. Lo stesso scrive Pietro de Lorca cisterciese; e soggiunge che la cognizione della legge è essenziale ed intrinseca così alle leggi umane


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come alle naturali. In I, 2 S. Thom. d. 6 de leg. Lo stesso scrisse Giovanni Maggiore: Cum primum aliquis habet rationem, legem naturalem habet. In 3, dist. 27, q. 2. Lo stesso scrisse Corrado Koellin domenicano: Cum venerit (homo) ad usum rationis, tenetur ad ea quæ sunt legis naturæ. In I, 2, qu. 90, art. 4. Lo scrive il p. Manstrio: Hoc autem jus (naturæ) hominibus intimatur et obligare incipit ab eo tempore quo rationis usum accipiunt, et per talem legem sibi intimatam inter bonum et malum discernere incipiunt; hic enim rationis usus est veluti ipsius legis naturalis notificatio et manifestatio. Et hoc intendit Paulus, Rom. 7, 9, illis verbis: Ego autem vivebam sine lege aliquando; sed, cum venisset mandatum, peccatum revixit. Theol. mor., d. 2, de leg., q. 2, a. 2, n. 34. Lo stesso scrive Giacomo Granado (perdoni il mio lettore se riferisco tanti passi di teologi che dicono lo stesso, perché mi è necessario a persuadere i miei avversarj e gli altri che tutti i teologi han parlato uniformemente in questa materia, contro di ciò che han voluto i miei avversarj oppormi): Dicendum est legem naturæ consistere in illo dictamine rationis…Nec deest promulgatio; eo enim ipso quod homo perveniat ad usum rationis, potens est discernere honestum et malum.


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Contr. 6 de leg., tract. 2, d. 4, n. 7. Lo stesso scrisse Biagio de Benjumea: Cum lex naturæ debeat voluntati proponi, ad hoc ut habeat vim obligandi et rationis dictamine possit præcognizative promulgari, ipsa præcognizatio intellectus notificat obligationem faciendi, sive omittendi aliquam actionem etc. De leg., q. 2, art. 2, n. 220.

 

25. Quindi concludono tutti gli altri teologi che la legge eterna benché in atto primo aveva la virtù di legare, nondimeno non obbligò alcuno prima di essere applicata e promulgata. Così il card. Gotti: Sequitur quod lex æterna ab æterno in actu secundo neminem obligaret; e poi dice che benché ella ha la forza di obbligare, nondimeno nondum ligat, qui nondum applicata et promulgata. Theol., tract. 5, q. 2, dub. I, n. 13. Adducendo quella troppo chiara ragione che mensura in actu secundo non mensurat, nisi mensurabili applicetur. Lo stesso scrive Francesco de Aravio: Cum lex æterna non obliget creaturas, nisi mediante lege naturali vel positiva divina, ad istarum promulgationem illa quoque sufficienter promulgatur. In I, 2, q. 90, d. I, sect. 5, pag. 525. Lo stesso scrive Onorato Tournely: Quia tamen lex ante creaturarum existentiam vere obligans non fuit, cum nihil esset ad extra quod ea obligaretur,


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palam est rationem completam legis tunc tantum ei competere potuisse cum exstiterunt creaturæ, quibus hujus lex promulgata. Prælect. theol. to. 2, c. 4, quæst. 2. Lo stesso scrisse il p. Collet: Quia tamen lex æterna ante creaturarum existentiam obligans non fuit, palam est rationem plenam legis tunc tantum ei competere potuisse cum exstiterunt creaturæ quibus intimata fuit. Tom. 2 de leg., cap. 2, pag. 17. Quindi scrisse Giuseppe Rocafull preposito di Valenza, che la legge eterna non può dirsi legge costituita, ma più presto un proposito di costituirla: Quamdiu (lex æterna) non promulgatur per modum legis, semper se habet per modum propositi ferendi legem, non autem per modum legis latæ. Praxis etc. lib. 2, cap. 2. Lo stesso scrisse il p. Berti, dicendo che la legge eterna non fu legge obbligante, ma apparecchiata ad obbligare nel tempo, quando sarebbe stata promulgata agli uomini: Nos promulgationem nihil aliud intelligimus, nisi paratæ jam legis publicationem; æternam legem institutam dicimus ante tempora sæcularia, promulgatam vero in temporum conditione. Il che lo spiegò con quelle altre parole, dicendo che la legge eterna fu ab æterno solamente vim habitura in rerum creatarum conditione; sì che allora doveva aver la forza di obbligare quando sarebbe stata promulgata alle creature.


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26. In somma tutti i teologi sentono che la legge eterna non fu legge obbligante, se non dopo che fu promulgata. Scrive Francesco Silvio: Lex æterna fuit ab æterno lex materialiter, non formaliter seu sub ratione legis actualiter obligantis; quia tunc non fuit actualis et perfecta promulgatio. In I, 2, qu. 91, a. 1 ad 2. Così anche scrive il p. Gonet: Legem æternam defectu promulgationis non potuisse obligare creaturas ab æterno. In clyp., tom. 3, tract. 6 de leg. d. 2, art. 2. Lo stesso scrisse Lorichio: Hominibus autem (lex æterna) promulgatur quando eis innotescit. Thesaur., verb. Lex, n. 6. E qui giova ripetere quel che scrisse Domenico Soto, dicendo: Nulla lex ullum habet vigorem legis ante promulgationem. Nullam exceptionem conclusio hæc permittit. Mentre dice che la legge, essendo la regola delle nostre azioni, non può esserci di regola, se non ci viene applicata e palesata: Applicari autem nequit (lex) nisi per ejus notitiam; nam qui regula utitur, eam intueri necesse habet. De justit., l. I, q. I, a. 4, q. 3, a. 2. Sicché concludiamo: è sentimento di tutti i teologi, colla scorta di S. Tomaso, che la legge eterna quantunque abbia avuta in atto primo in sé la virtù di obbligare gli uomini, non ha potuto però attualmente in atto secondo obbligarli se non dopo ch'ella è stata


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loro manifestata col lume della ragion naturale. E quindi bisogna ripetere la dottrina di Giovan Gersone, che Iddio non può obbligare l'uomo ad alcun precetto, se prima non gli manifesta la sua volontà: Necesse est dari manifestationem ordinationis ac voluntatis Dei; nam per solam suam ordinationem aut per solam suam voluntatem nondum potest Deus absolute creaturæ imponere obligationem. De vita spir., lect. 2. E Francesco Henno scrive che la legge naturale non si distingue dalla legge eterna. Ma poi si fa l'opposizione: la promulgazione è di essenza alla legge; ma la legge naturale fu solamente promulgata nel tempo; dunque solamente nel tempo cominciò ad esser propriamente legge, e per conseguenza si distingue dalla legge eterna. E poi risponde così: Fuit ab æterno lex naturæ potens obligare, licet non obligaverit antequam promulgaretur in tempore per dictamina rationis. Et idem est de lege æterna; unde sicut non fuit lex æterna obligans ab æterno, sed in tempore (cioè quando è stata manifestata), ita et lex naturæ. De legib. Passiamo avanti.

 

27. Si oppone per . Dunque l'uomo nasce libero, non già suddito e dipendente da Dio? No, si risponde: l'uomo nasce suddito e dipendente e nasce obbligato ad


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ubbidire a tutti i precetti che Dio gl'impone; ma affinché tali precetti lo leghino, debbon essergli applicati colla promulgazione attuale del precetto, la quale si fa quando il precetto gli è manifestato per mezzo del lume della ragione: ma sintanto che il precetto non gli è manifestato, l'uomo possiede la libertà donatagli da Dio, ch'essendo certa, non resta legata se non da un precetto certo.

 

28. Se mai l'uomo nascesse obbligato alla legge eterna (come suppone un certo mio oppositore) prima che quella gli fosse palesata, sì che non potesse far altre azioni se non quelle che dalla legge eterna gli fossero permesse, non sarebbe stato necessario che Dio avesse intimati all'uomo i suoi precetti coll'impressione del lume naturale ed anche colla legge scritta; ma avrebbe dovuto dichiarargli solamente quelle cose che gli permetteva di fare. Potea, non nego, il Signore ordinare che l'uomo non potesse far altro se non quello che da lui gli fosse stato espressamente permesso; ma non ha fatto così: Deus ab initio constituit hominem, et reliquit illum in manu consilii sui. Adjecit mandata et præcepta sua; si volueris mandata servare, conservabunt te. Eccl. 15, 14, 15 et 16. Prima dunque Iddio ha creato l'uomo libero, donandogli per suo beneplacito la libertà, giusta quel che scrisse l'Apostolo:


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Potestatem... habens suæ voluntatis. 1 Cor. 7, 37. E poi gli ha imposti i precetti che dee osservare; e nell'osservanza di questi precetti ha costituita il Signore la salute dell'uomo. Ma per esser legato ciascuno da tali precetti, dice S. Tomaso, come già abbiam rapportato di sopra, dee averne la scienza, cioè la cognizione certa: Nullus ligatur per præceptum, nisi mediante scientia illius præcepti. De verit., q. 17, art. 3. Poiché, essendo la legge una misura con cui l'uomo dee regolarsi, dice il santo Dottore che quella dee esser certissima: Mensura debet esse certissima, 1, 2 q. 19, a. 4 ad 3. Altrimenti, se la misura fosse dubbia, niuno potrebbe ben regolarsi. Ed in altri luoghi S. Tomaso ciò l'ha confermato, dicendo che colui a cui non è palese la divina volontà non ha egli obbligo di eseguirla: Sed in particulari nescimus quid Deus velit; et quantum ad hoc non tenemur conformare voluntatem divinæ voluntati. 1, 2, q. 19, art. 10. E parlando precisamente il Santo dell'ubbidienza che dobbiamo a' divini precetti, dice che noi non siam tenuti ad osservarli, se non dopo che quelli ci sono manifestati, come si è notato nel n. 17.

 

29. Si oppone per che l'uomo non può lecitamente mettersi a pericolo di trasgredire la legge. Quando vi sono due opinioni


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egualmente probabili, allora già si dubita che vi sia la legge. Onde se l'uomo allora seguita l'opinione meno sicura, già si pone al pericolo di offender la legge. Si risponde che bisogna distinguere il caso in cui la legge è certa dal caso in cui la legge è dubbia: non si nega esser peccato il mettersi a pericolo di offender la legge; ma ciò s'intende quando la legge è certa, ed allora ha luogo quel testo: Qui amat periculum, in illo peribit. Eccl. 3, 27. Poiché in tal caso la legge non solo ci obbliga ad osservarla, ma ancora obbliga a non metterci in pericolo probabile di trasgredirla. Altrimenti è poi quando il pericolo è di trasgredire una legge dubbia; perché allora, ancorché davanti a Dio esistesse la legge, si trasgredisce una legge che non obbliga; ed una legge che non obbliga non può chiamarsi legge, mentre dice S. Tomaso, 1, 2, q. 90, a. 4, come riferimmo al § 1, n. 9, che la legge, per esser misura delle azioni dell'uomo, dee essergli applicata colla promulgazione, e poi soggiunge: Unde ad hoc quod lex virtutem obligandi obtineat, quod est proprium legis, oportet quod (promulgatione) applicetur. Si noti: quod est proprium legis. Dunque la legge che non ha virtù di obbligare non è né può dirsi propriamente legge; e per tanto chi offende una legge non ancor manifestata,


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come accade nel caso di due probabili eguali, non può mai dirsi che pecchi, perché quantunque vi fosse la legge, oprerebbe contro una legge che non obbliga, e per tanto non può ciò imputarsegli a peccato.

 

30. Si oppone per una dottrina di S. Tomaso, il quale dice che l'ignoranza di colui che può e dee sapere la legge, essendo volontaria, non è scusata da colpa: Dicitur ignorantia voluntaria ejus quod quis potest scire et debet. 1, 2, q. 6, a. 8. Da ciò ne deducono i contrarj che sempreché l'uomo potest et debet scire præceptum, ancorché non mai abbia avvertito al precetto, neppure in confuso, l'ignoranza di quello è vincibile e colpevole; così parla l'anonimo moderno del libro intitolato: La regola de' buoni costumi. Ma come, io domando, potest scire il precetto colui al quale non mai è sorto in mente alcun dubbio o sospetto di quello? Non importa, diranno i contrarj: perché l'uomo, sempreché sta colla mente sana, se non ha la potenza morale, almeno ha la potenza fisica di poter avvertire il precetto, e perciò sempre è in colpa. Ma non dice così S. Tomaso, il quale con S. Agostino e con tutti i teologi, probabilisti ed antiprobabilisti, insegna che quando l'ignoranza è involontaria, affatto scusa dal peccato. Il santo Dottore ciò lo dice in mille luoghi. In un luogo dice


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che in due modi l'ignoranza può esser volontaria e colpevole: vel directe, sicut cum aliquis studiose vult nescire; vel indirecte, cum aliquis negligit addiscere id per quod a peccato retraheretur; talis enim negligentia facit ignorantiam esse voluntariam et peccatum. E poi soggiunge immediatamente: Si vero ignorantia sit involuntaria, sive quia est invincibilis sive quia est ejus quod quis scire non tenetur, talis ignorantia omnino excusat a peccato. 1, 2, q. 76, a. 3. Dicendo dunque il Santo (mi bisogna replicare le sue parole): Si vero ignorantia sit involuntaria, sive quia est invincibilis, sive quia est ejus quod quis scire non tenetur, talis ignorantia omnino excusat a peccato: ben dichiara che l'ignoranza, benché sia di cose che siam tenuti a sapere, quando ella è invincibile, sì che non ci sorga alcun dubbio in mente, scusa affatto dal peccato. Lo stesso insegna l'Angelico con termini più espressi in altro luogo, quodlib. 8, art. 15: Error autem conscientiæ quandoque habet vim excusandi, quando scilicet procedit ex ignorantia ejus, quod quis scire non potest vel scire non tenetur; ed in tal caso dice che quamvis factum sit de se mortale, tamen intendens peccare venialiter, peccaret venialiter; e per conseguenza se intendesse di non commetter alcun peccato, niuno ne commetterebbe. Si


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noti: scire non potest vel scire non tenetur; dunque anche nel caso che taluno è tenuto a sapere il precetto, se non può saperlo, l'ignoranza sua è invincibile e lo scusa da ogni colpa. E qui saggiamente il p. Giovanni di S. Tomaso domenicano, molto celebre fra' teologi antichi, avverte che quel potest scire s'intende non già rimotamente, ma prossimamente e speditamente, sicché l'omissione della diligenza dovuta in cercar la verità sia propriamente volontaria: Illud axioma: - Qui potest et tenetur, et non facit, peccat - intelligi de eo qui potest proxime et expedite, non remote tantum et impedite; quia (ut supra diximus) omissio, ut sit voluntaria, debet procedere ab ipsa voluntate. 1, 2, q. 6, disp. 3, dist. 1.

 

31. Quindi scrisse S. Antonino, p. 2, tit. 1, c. 11, §28, che ben si l'ignoranza invincibile del jus naturale in quelle cose quæ per multa media et non clare probantur esse contra præcepta. Lo stesso tiene Habert, theol., tom .3, de act. hum., c. 1, n. 3 circa fin. Lo stesso tiene Gio. Battista Du-Hamel, lib. 2 de act. hum., c. 5 in fin., verb. Ad legem. Lo stesso scrive il p. Gianlorenzo Berti, de theol. discipl. tom. 2, l. 21, c. 10, ove dice che quest'opinione tenent omnes fere ægidiani ac thomistæ et Sylvius, Herminier aliique communiter. E lo prova anche


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da S. Tomaso, 1, 2, quæst. 100, art. 1, ove dice il Santo: Quædam vero sunt quæ subtiliori consideratione indigeant disciplina. Lo stesso tiene il p. Gonet, clyp. theol. t. 3, d. 1, a. 4, § 1, n. 55. Ed in altro luogo, tract. de probabil. circa fin., dice che la contraria è singolare di pochi ed improbabile. Lo stesso dice il p. Collet, comp. mor., t. 1, cap. 1, art. 1, sex. 2, concl. 4, pag. 23. Lo stesso tiene il p. Antoine, theol. mor., de peccat., cap. 4, q. 6. E qui riferisce che nel 1685 in Roma fu dannato questo articolo: Nullam admittimus ignorantiam invincibilem juris naturæ in ullo homine, dum hîc et nunc contra jus naturale agit. Lascio poi più altre cose notabili su questo punto che a lungo ho scritte nel cap. II del mio libro Dell'uso moderato della probabile.

 

32. Seguitiamo a vedere gli altri testi di S. Tomaso ove insegna che quando l'ignoranza è invincibile, scusa dal peccato. In altro luogo dice S. Agostino: Ignorantia quæ est omnino involuntaria, non est peccatum. Et hoc est quod Augustinus dicit: Non tibi imputatur ad culpam, si invitus ignoras, sed si scire neglexeris. Lib. 3 de lib. arbitr., c. 19. Per hoc autem quod ait- sed si scire neglexeris- dat intelligere quod ignorantia habet quod sit peccatum ex negligentia præcedenti, quæ nihil est aliud


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quam non applicare animum (s'intende volontariamente) ad sciendum ea quæ quis scire debet. De ver., q. 3 ad 7. E lo stesso ripete poco appresso, ad 8, dicendo che pecca solamente colui il quale, ne impediatur a peccato, quod diligit, scientiam recusat; et sic ignorantia est a voluntate quodammodo imperata. In altro luogo dice l'angelico Maestro: Si igitur ratio vel conscientia erret errore voluntario vel directe vel propter negligentiam, quia est error circa id quod quis scire tenetur, tunc talis error non excusat. 1, 2, q. 19, art. 6. Sicché per contrario, quando l'errore non è voluto né direttamenteindirettamente per negligenza, scusa certamente dal peccato. Sempre dunque si richiede la negligenza per render volontario l'errore. Di più in altro luogo lo stesso S. Tomaso, opusc. de verit., qu. 17, a. 3, dopo aver detto: Nec aliquis ignorans præceptum Dei tenetur ad præceptum faciendum, nisi quatenus tenetur scire præceptum. Spiega il Santo come s'intenda quel nisi quatenus tenetur scire præceptum, e dice, ad 4: Tunc conscientia erronea non sufficit ad absolvendum quando in ipso errore peccat. Che viene a dire peccare nello stesso errore? se non che quando l'errore è colpevole, cioè quando l'uomo avverte almeno all'obbligo di sapere il precetto e trascura di saperlo.


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E lo stesso replica il Santo in altro luogo, quodlib. 8, a. 15: Quandoque vero error conscientiæ non habet vim excusandi, quando scilicet ipse peccatum est. Quando dunque l'errore non è colpevole, perché involontario, scusa dal peccato, restando l'azione sol materialmente mala, che non è alcun peccato davanti a Dio, come scrive il p. Collet: Porro peccatum quod ex ignorantia invincibili committitur non est peccatum nisi materialiter, nec impedit quominus æterna salus obtineri possit.

 

33. Anzi scrive il p. Concina nella sua Teologia morale, tom. 2, lib. 2, de consc., diss. 1, cap. 5, n. 36, che quando l'opera è materialmente mala per ragione che l'errore è incolpabile, allora, quando l'opera si fa con buona intenzione, è ben anche meritoria: potest enim quis, dum exercet opus materialiter malum, habere intentionem bonam Deo placendi; hos bonos actus et meritorios dicimus etc. Opus materialiter malum, cum non sit voluntarium, refundere in istos actus malitiam non valet. E ciò lo disse prima S. Giovan Grisostomo: Ex proposito bono, etiam quod videtur malum, bonum est; quia propositum bonum excusat malum opus. È comune assioma presso tutti: Cuique facere libet, nisi id a jure prohibeatur, come si legge nel testo, Instit. de jure person.


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§ 1. E come ancora insegna per principio certo l'Angelico, anche circa le cose di legge naturale, dicendo: Illud dicitur quod nulla lege prohibetur. In 4 sent., d. 15, q. 2, art. 4 ad 2.

 

34. Si oppone per che l'ignoranza allora solo è invincibile, quando noi non abbiamo alcun motivo di dubitare dell'onestà dell'azione: ma come poi tale ignoranza può chiamarsi invincibile, quando, essendovi l'opinione egualmente probabile a favor della legge, giù vi sono gravi motivi da dubitare che quell'azione sia illecita? Ma si risponde, e la risposta è chiara: noi non diciamo che chi opera coll'opinione benigna, probabile egualmente quanto è la rigida, non pecca perché ignora invincibilmente la legge, ma perché in tal caso ignora invincibilmente la certezza dell'esistenza della legge; e supposto per certo il principio, come di sopra si è ad evidenza provato, che la legge per obbligare dee esser certa e manifesta, sempre ch'ella non è certa né manifesta, lecitamente opera chi opera valendosi dell'opinione benigna. E così risponde il p. Gonet al tuziorista Fagnano: Eum qui, facta sufficienti diligentia ad inquirendam veritatem, agit ex opinione probabili, quando alia probabilior ei non occurrit, non agere ex conscientia practice dubia subindeque nullî peccandi


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periculo se exponere; quia tunc certificatur moraliter per judicium reflexum quod habet, dicens: Qui facit totum quod in se est ad inquirendam veritatem, et illam consequi non valet, excusatur ratione ignorantiæ invincibilis. Quod principium est omnino certum et unanimi fere theologorum omnium consensu firmatum. Manual., tom. 3, tract. 3, cap. 16 circa fin. Sicché il p. Gonet con tali parole suppone per principio certo e comune de' teologi che quando s'ignora la certa esistenza della legge, ancorché vi sia il pericolo di trasgredirla, ben possiamo valerci dell'opinione men sicura, perché una tal legge dubbia non obbliga.

 

35. Onde tutto il punto sta a vedere se il principio che la legge dubbia non può obbligare sia certo o no; perché, dato che sia certo (siccome evidentemente di sopra l'abbiam dimostrato e provato coll'autorità di S. Tomaso comunemente seguito da tutti i teologi) e dato che vi sia l'ignoranza invincibile della certezza della legge, certamente l'operante non pecca. Ma dicono: S. Tomaso scrive: Qui aliquid committit aut omittit in quo dubitat esse peccatum mortale, discrimini se committit; e perciò mortalmente pecca. In 4 sent., dist. 21, q. 2, a. 3 ad 3. Dunque, rispondo, allora dice S. Tomaso che l'uomo pecca mortalmente


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quando fa o tralascia qualche cosa col dubbio pratico di peccare, in quo dubitat esse peccatum. Ma ciò non corre quando opera contro una legge dubbia, la quale non legaobbliga, secondo insegna il medesimo Santo: Nullus ligatur per præceptum, nisi mediante scientia illius præcepti; perché allora opera col dettame certo di lecitamente operare.

 

36. Si oppone per che noi non possiamo servirci dell'opinione benigna, se ella non è probabilissima e moralmente certa (largamente parlando); poiché altrimenti (dicono i nostri probabilioristi moderni) non si può avere la certezza dell'onestà dell'azione. Rispondo: chi si vale dell'opinione egualmente probabile per la libertà, appoggiandosi al principio che la legge dubbia non obbliga, non avrà la certezza diretta, ma ben ha la certezza indiretta e riflessa che l'azione sia onesta, e così lecitamente opera. Che poi lecitamente si operi col principio certo riflesso non è da porsi in dubbio, come dimostrammo nel § I, n. 12. Ma a questi probabilioristi moderni io oppongo che coll'opinione probabilissima essi (secondo le loro massime) non possono, o difficilmente possono con coscienza sicura valersi mai dell'opinione benigna, ma debbono sempre seguire l'opinione più sicura o la sentenza


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strettamente certa, come voleano gli stretti tuzioristi. E la discorro così: i nostri probabilioristi moderni dicono, come di sopra abbiam veduto, che noi non possiamo porci a pericolo di offender la legge: all'incontro bisogna intendere che l'opinione probabilissima, perché è tra i confini della probabilità, non esclude ogni prudente formidine di esser falsa; a differenza della sentenza assolutamente certa, che esclude ogni prudente timore, tenuta da' rigoristi, i quali escludeano anche la probabilissima, ma questa loro proposizione da Alessandro VIII fu dannata: Non licet sequi opinionem vel inter probabiles probabilissimam. Se dunque l'opinione probabilissima non esclude ogni timore prudente, l'opinione opposta alla probabilissima non è giù la tenuamente probabile; perché la tenue probabilità non è probabilità, ma è solo una falsa apparenza o sia vana apprensione di probabilità, che non può produrre alcun timore prudente ma solo qualche timore imprudente; e l'imprudente timore non è timore che possa recar seco alcun pericolo di peccato. Gli stessi più rigidi tuzioristi comunemente dicono che tali timori imprudenti debbono disprezzarsi. Sarebbe in verità troppa sciocchezza il pensare che Dio c'imponga di evitare anche i timori imprudenti e vani. Sicché, se non vogliamo confondere


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l'opinione probabilissima coll'assolutamente certa, bisogna dire che l'opinione opposta alla probabilissima non è la tenuamente probabile, ma è la dubbiamente probabile; la quale per altro non può seguitarsi: ma se non è probabile, ha nondimeno qualche prudente motivo di esser vera, siccome la probabilissima (secondo abbiam detto) ha qualche prudente formidine di esser falsa. Ora io dico: posto che l'opinione che sta per la legge, opposta alla probabilissima che sta per la libertà, è dubbiamente probabile ed ha qualche motivo prudente, benché non tutto fermo di esser probabile, come, dimando, chi tiene esser illecito esporsi al pericolo di trasgredire la legge, volendo seguir la probabilissima per la libertà, può in pratica indursi con coscienza sicura a creder fermamente che l'opinione per la legge non sia veramente probabile e quindi a servirsi della probabilissima, senza timore di porsi a pericolo di offender la legge? Ove troverà una tal bilancia che l'assicuri che quella opinione che sta per la legge certamente non abbia tanti carati di probabilità che giunga ad esser probabile e così egli possa operar sicuramente e senza pericolo di offender la legge? Perciò ripeto quel che dissi da principio, che chi crede non potersi seguire un'opinione meno sicura, se non è


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probabilissima, stando egli già nel dubbio se l'opinione per la legge sia o no probabile, con molta difficoltà potrà indursi con conscienza quieta ad operare, se non abbraccia lo stretto tuziorismo, il quale è solamente libero da ogni timore e pericolo di offender la legge.

 

37. Si oppone per Ognun sa che se nella selva vi è un oggetto che probabilmente si giudica uomo, colui che in questo dubbio lo ferisce colla saetta certamente pecca. Or, se pecca chi mette a pericolo la vita del corpo del suo prossimo, come sarà scusato chi mette a pericolo la vita dell'anima propria, con porsi a pericolo probabile di peccare? Rispondiamo; ma prima di rispondere diciamo esser maraviglia come da' contrarj sempre ci si ripeta questa trita opposizione, dopo che tante volte da' nostri loro si è risposto. Ma ritorniamo a rispondere che, scoccandosi la saetta nel dubbio probabile che quella cosa sia uomo o sia fiera, non si opera contro una legge dubbia, ma contro una legge certa: perché in tal caso è certa la legge di non mettere a pericolo probabile la vita del prossimo, il quale possiede un dritto certo sovra la vita sua, acciocché non gli sia offesa. Ma nel caso nostro non solo non vi è legge certa di non porsi a pericolo di offender la legge, ma


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anzi è certo (come abbiam veduto) che, essendo dubbia la legge e per conseguenza non promulgatamanifestata, ella non ha virtù di obbligare; e perciò, se mai esistesse davanti a Dio, chi l'offende non pecca, perché offenderebbe una legge che non obbliga.

 

38. Si oppone per che, per dirsi che una legge sia dubbia, dovrebbe dubitarsi se tal legge esiste o no; ma questo (dicono) non può essere, perché le leggi così divine come umane che dobbiamo osservare, tutte esistono certamente e son promulgate. Il dubbio dunque (ripigliano) non già cade sovra l'esistenza della legge, ma sovra i casi particolari, ciò se quel caso particolare è compreso o no nella legge universale. Onde nel caso delle due probabili eguali, non possiamo dire che la legge è dubbia, ma che certamente la legge non si stende a quel caso. Ma ciò, essendo anche probabile l'opinione per la legge, chi può asserirlo? Così scrive il p. Daniele Concina nella sua Teologia cristiana.

 

39. Ma si risponde con quel che scrisse lo stesso p. Concina nel compendio di detta teologia, tom. 2, de legib., cap. 2, n. 10, ove dice che benché la legge sia certa, nondimeno le circostanze diverse che occorrono fanno che la legge ora obblighi ed ora non


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obblighi: poiché i precetti divini sono bensì immutabili, ma alle volte, posta una tale circostanza, non obbligano. Quindi (noi ripigliamo) non vale il dire che tutte le leggi sono certe: perché, mutandosi le circostanze de' casi, in que' casi non corrono oppure si rendono dubbie le leggi, e come dubbie non obbligano. Dunque , replica l'autor riferito, secondo il vostro principio che la legge dubbia non obbliga, voi concludete che nel dubbio se la legge si stenda o no a quel caso, certamente non si stende. Ma rispondiamo che noi non già diciamo che la legge in quel dubbio certamente non si stende al caso, ma che quando vi sono due opinioni egualmente probabili, allora, non essendo certo che la legge si stenda a quel caso, a rispetto di quel caso la legge è dubbia e, come dubbia, non obbliga. Facciamo la cosa più chiara coll'esempio. La legge vieta l'usura: ma quando da ambe le parti vi è ugual probabilità che un contratto sia e non sia usurario, allora non apparisce legge certa che lo proibisca; e pertanto circa di tal contratto resta dubbia la legge: rispetto all'usura è certa la legge che la proibisce; ma rispetto a quel contratto la legge è incerta. Posto dunque che veramente sia probabile che quel caso non è compreso dalla legge, lo stesso è dire che sia cosa


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dubbia se a quel caso si stenda la legge che il dire che la legge è dubbia a rispetto di quel caso; e se la legge è dubbia a rispetto di quel caso, per conseguenza a rispetto di quel caso non obbliga.

 

40. Si oppone per la massima o sia regola de' canoni: In dubiis tutior pars eligenda est; dove fanno gli avversarj gran fondamento. Ma la risposta è così chiara che la vede ognuno. La risposta è che la suddetta regola corre ne' soli dubbj pratici, che restano nella coscienza senza deporli, ma non già ne' dubbj speculativi, che si depongono con qualche principio certo; perché allora non si resta nel dubbio, ma si esce dal dubbio e si ha la certezza morale. E perciò dicono comunissimamente i dottori con S. Antonino, Nyder, Tabiena, Isamberto, il p. Gio. Idelfonso, Vasquez (benché si citi contro di noi), Tannero, Navarro (le dottrine de' quali stanno stese nel citato libro Dell'uso moderato), con Soto, Medina, Sa, Valenza, Enriquez, Alfonso di Leone, Du-Vallio, Caspense, Lorca, Vidal, Angles, Bardi, Salas, p. Gio. di S. Tomaso, Merolla ed altri innumerabili, che la detta regola corre solamente ne' casi dubbj pratici, secondo si scorge dagli stessi testi, dove si reca la regola, secondo io particolarmente gli ho esaminati uno per uno nel


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medesimo libro Dell'uso moderato ec. Ma in quanto a' dubbj speculativi la mentovata regola è di consiglio, non di precetto. Ecco, come parla S. Antonino; e parla appunto d'un contratto ch'era probabilmente lecito e probabilmente illecito, secondo le diverse sentenze de' dotti: Inducunt illud: In dubio tutior via eligenda est. Respondetur hoc esse verum de honestate et meriti majoritate, et non de salutis necessitate quoad omnia dubia. Lascio qui per brevità tutto l'altro che a rispetto di S. Antonino e di questo punto ho scritto nell'Uso mod., cap. 5, n. 2, e vengo alla sostanza. Dice dunque S. Antonino che ne' dubbj speculativi che occorrono nel caso di due opinioni probabili la suddetta regola è di consiglio, non di precetto: Hoc esse verum de meriti majoritate, non de salutis necessitate quoad omnia dubia. Sicché l'opinione di chi dice che la regola mentovata corre in tutti i dubbj anche speculativi a me pare, da quel che di sopra si è dimostrato, sia affatto improbabile ed insussistente, mentr'ella è contraria alla ragione ed al sentimento comune de' teologi.

 

41. Ma, per abbreviarla, diamo la risposta convincente che chiude la bocca ad ognuno. Dimando: che dice in somma la regola de' canoni? In dubiis tutior pars eligenda est.


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Bene. Dunque, sempre che la coscienza sta nel dubbio (in dubiis) non può operare senza rimorso e senza peccato. Ma che osta la suddetta regola quando l'uomo con qualche principio riflesso formasi il dettame pratico moralmente certo? Allora esce già dalla dubbietà e dai termini co' quali parla il testo, e non può dirsi più che sia in dubiis.

 

42. La regola de' canoni è verissima e giustissima, ma non è già quella che vogliono i moderni tuzioristi, per tirarla con ragione o senza ragione a farle dire quello che affatto secondo gli stessi suoi termini la regola non dice. Ma replica un mio contraddittore che questo mio argomento reggerebbe, se il principio da me addotto fosse certo; ma egli dice che quello è falso. Dunque io ripeto sempre: se i miei oppositori non dimostrano prima che il principio da me addotto ed evidentemente da me dimostrato è falso, cioè che la legge dubbia non può indurre un obbligo certo, perché le manca la sufficiente o sia certa promulgazione, come dicono S. Tomaso e tutti, tutte le loro opposizioni cadono a terra. Ma a me pare moralmente impossibile ch'essi possano giunger mai a confutare questo mio principio così chiaramente provato; e dico che non mai confuteranno tal principio, se non confutano prima le dottrine di S. Tomaso da


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me su questo punto addotte. Dico: se non confutano; perché il volerle interpretare a loro capriccio in altro senso, come fanno, è voler oscurare la luce del sole.

 

43. Per ultimo oppongono il decreto della S.C. dell'inquisizione romana fatto nel 1761, col quale pretendono essere stato condannato ogni uso del probabile. Circa ciò bisogna sapere che nel 1760 un certo parroco di Avisio, terra della diocesi di Trento, cacciò fuori un foglio stampato che contenea diverse proposizioni, tutte a favore del probabilismo, alcune delle quali erano troppo avanzate. Questo foglio con tutte le sue proposizioni io l'ho trascritto già nel mio libro Uso moderato ec. al cap. 7. Fu condannato il foglio, ma non tutte le proposizioni del foglio, mentre alcune proposizioni di quello erano innocenti; e perciò nel decreto si disse: S.C. folium prædictum et theses in illo expositas damnat tanquam continentia propositiones quarum aliquæ sunt respective falsæ, temerariæ et piarum aurium offensivæ etc. Sicché non furono dannate tutte le proposizioni in singolare e divisamente l'una dall'altra, poiché si disse: Quarum aliquæ sunt respective falsæ etc. Ed in fatti avendone io scritto per chiarirmi del vero a due consultori primarj della suddetta S.C., cioè al reverendissimo p.m. fra Tomaso


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Agostino Ricchini maestro del sacro palazzo, e al reverendissimo p.m. fra Pio Tomaso Schiara segretario della S.C. dell'indice, mi risposero che dalla S.C. era stato condannato bensì il foglio e le tesi, ma non ciascuna proposizione singolare nelle tesi contenuta. E che perciò non si era condannato il probabilismo, né in quanto all'æque probabile né in quanto alla meno probabile favorevole alla libertà. Di più ne scrissi all'eminentissimo signor cardinal Galli, allora penitenziere maggiore, pregandolo a richiederne da parte mia la risposta dalla propria bocca del sommo pontefice; come in fatti il signor cardinale ne parlò al papa, e poi mi rispose che non erano dannate tutte le proposizioni del foglio, ma sole alcune che in quello si contenevano, assicurandomi in fine della lettera non essere stata condannata niuna proposizione di quelle si controvertono nelle scuole cattoliche e da molti cattolicamente si difendono. Le mentovate lettere così de' consultori come del cardinal Galli stanno registrate nel detto mio libro Uso ec. in fine. Posto ciò, non credo che bisogni altra risposta a questa ultima opposizione del decreto di Roma.

 

44. Or, per conchiudere questa mia breve scrittura, giovami qui trascrivere quel che ha scritto a' tempi nostri monsig. di S. Ponts,


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dotto vescovo di Francia, in un suo libro, dicendo che oggidì tanto si esclama contro la morale rilassata, quando dovrebbesi più presto esclamare contro il rigorismo eccessivo; e soggiunge alla pag. 61 queste parole molto notabili: «La Chiesa ha avuta la consolazione di veder finire il regno del rilassamento nella morale, ma ella ha avuto poi il rammarico di veder sottentrare in sua vece un rigorismo smoderato. Questo secondo errore è quello che in oggi è di moda». Ed in verità nel secolo passato vi fu molto abuso nell'opinare, approvando per probabili molte opinioni lasse: che perciò la Chiesa ha condannate più opinioni di quelle, perché ingiustamente eran chiamate probabili, come appunto sono le proposizioni 27 e 40 proscritte da Alessandro VII, e la I, 3, 6, 35, 44 e 57 proscritte da Innocenzo XI. Tutte queste furon dannate, perché in esse diceasi: Probabile est etc.

 

45. Ma oggidì, come scrive il predetto prelato francese, è cessato un tal rilassamento di opinare; onde il medesimo di più soggiunge poi così: «Son cessati i maestri della morale rilassata, ma adesso sono succeduti nuovi maestri, le massime de' quali sono molto più insoffribili, ponendo gli uomini della disperazione. Altro esse far non potrebbero che introdurre la corruzione dei


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costumi. Il numero di coloro che scusano il lor cattivo costume con quel rigorismo, il quale oggi regna e addosso alla morale, il numero (dico) di costoro è molto maggiore del numero di coloro che han preteso di scusarsi coll'autorità della morale rilassata».

 

46. Ognuno sa nondimeno e lo può vedere da ciò che ho scritto nel mio ultimo libro di morale, quanto ho riprovata la morale rilassata. In quanto al mio sistema dell'opinione egualmente probabile, credo averlo dimostrato ad evidenza: e lo stesso credono molti prelati, abati, superiori di religioni e uomini dotti, i quali mi hanno scritto che la sentenza, ne' termini da me difesa, non può contrastarsi se non da coloro che stanno colla mente pregiudicata; poiché il principio sul quale la sentenza sta fondata, cioè che la legge dubbia non obbliga perché non è abbastanza manifestata, dicono esser evidente ed incontrastabile. E pregherei il mio lettore a legger le lettere di tali personaggi, che stan poste in fine del mio libro: Uso moderato ec.

 

47. Io so che più d'uno nel leggere il mentovato mio libro ha abbandonata la rigida sentenza. Fra gli altri l'abate D. Prospero dell'Aquila Verginiano, che ha date fuori molte opere erudite, mi scrisse così:


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«Ho letto il suo libro sull'uso dell'opinione probabile. Il principio sul quale ella ha fondata la sua sentenza è incontrastabile, ammesso da tutti e due i partiti de' probabilisti e de' probabilioristi. Quando la legge non è certa non può certamente indurre obbligo certo. Ed ella l'ha così ben dimostrato tal principio coll'autorità de' canoni, padri e teologi di primo ordine che non vi ha cosa meglio dimostrata. Trattandosi dunque di due opinioni egualmente probabili, io ancora entro nel suo sentimento, che possa lecitamente seguirsi quella che sta per la libertà, quantunque meno tuta. Io non cesso di ringraziarla di tal dono e de' lumi che ho ricevuti nella lettura del suo libro, di cui farò certamente tutto il buon uso nell'articolo che sto già stendendo dell'opinione probabile nel terzo tomo del Dizionario teologico ec». Ed in fatti nel foglio stampato del detto dizionario (benché poi non uscì fuori perché il revisore, seguace della sentenza rigida, non volle che uscisse) alla parola Probabile io co' proprj occhi ho lette le seguenti parole scritte così: «Io propongo a leggersi la dotta dissertazione del vescovo di S. Agata D. Alfonso De Liguori. Ivi sostiene che, essendo le due opinioni opposte ugualmente probabili, sia lecito seguire la meno sicura; e fa vedere che questa è la


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sentenza più approvata da' dottori così antichi che moderni. Ripete egli da' suoi principj una questione tanto clamorosa nelle scuole e, dopo di averla posta nel suo lume colle autorità de' Padri più rispettabili della nostra Chiesa, la conferma poi colla decisione de' migliori teologi. E non ostante i raggi de' moralisti che han renduta la questione intricata, pure la tratta con tanta nitidezza che non ho letta cosa più chiara in tal materia; e mi sembra per verità la sua decisione senza replica. Ho stimato di ragionarne così perché mi preme che se ne faccia di sì fatta dissertazione tutto l'uso, sembrandomi un capo d'opera in tal genere». E sappiasi che il nominato autore, come io ho letto in altre sue opere anteriori, era in tutto seguace della rigida sentenza.

 

48. Qui bisogna ch'io avverta una cosa circa il suddetto mio sistema, che ben dee specialmente avvertirsi; ed è questa, che quando si dubita se l'opinione che sta per la legge sia egualmente probabile o pure un poco più probabile, allora corre lo stesso principio che la legge non obbliga, poiché in tal caso ella non lascia di essere strettamente dubbia; mentre allora, ancorché vi fosse per la legge qualche maggior probabilità, quando si dubita se questa maggioranza vi è o no, la preponderanza sarà così leggiera


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e minima che non se ne dee far conto, per la massima comune, ammessa dagli stessi avversarj, che parum pro nihilo reputatur. Altrimenti sarebbe poi quando l'eccesso fosse patente e certo; perché allora l'opinione per la legge è certamente e molto più probabile: e stabiliscasi che quando l'opinione per la legge è certamente più probabile, allora è anche molto più probabile; che perciò allora, come si disse da principio, la legge è moralmente già promulgata e pertanto già obbliga e dee senza dubbio osservarsi.

 

49. In quanto poi alle mie sentenze particolari, è vero che nelle prime stampe della mia Morale, indotto dalle autorità di molti autori, ammisi per probabili molte opinioni non abbastanza sode; ma poi, fatta miglior considerazione, di mano in mano le ho rivocate o riformate, come apparisce dall'elenco di tali opinioni, posto a principio della mia morale ultimamente stampata; ed ivi ognuno può vedere quante opinioni io riprovo di Busembao e di altri probabilisti; che perciò da molti io sono stimato più amico delle sentenze rigide che delle benigne.

 

50. Del resto, io non ho avuto minore scrupolo ad approvare le opinioni sufficientemente probabili; atteso quel che dice S. Antonino, che coloro i quali obbligano a seguire le sentenze più rigorose del dovere


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ædificant ad gehennam, viene a dire son causa della dannazione di molte anime, le quali, credendo di esser tenute a seguire tali sentenze e poi non seguendole, miseramente si dannano. Termino. Io mi ritrovo da più mesi in letto con una infermità che verisimilmente tra breve mi condurrà alla morte. Si dice comunemente che d'altro modo si parla in vita di quel che si parla in morte; poiché in morte si provano quei rimorsi che non si sentono o, per meglio dire, non vogliono sentirsi in vita. Io nondimeno non ho alcun minimo rimorso del mio sistema difeso circa la probabile; anzi avrei gran rimorso di tenere il contrario in quanto all'istruzione degli altri, appigliandomi al rigido sistema di certi autori moderni. Ho detto: in quanto all'istruzione degli altri, secondo il consiglio di S. Giovan Grisostomo: Circa vitam tuam esto austerus, circa alienam benignus. In can. Alligant 26, qu. 7.




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